Leggo con interesse un articolo di Fabrizio Paloni il cui contenuto vuole porsi in continuazione/complementarietà con un altro articolo di Andrea Amato ed uno del sottoscritto. Colgo con piacere l’occasione per puntualizzare e continuare questo scambio di idee.
Paloni ci ricorda che gli studiosi dei mezzi di comunicazione, Tv in primis, sono giunti alla conclusione, valida anche ai giorni nostri, che dalla società proviene una domanda di disimpegno, di leggerezza.
Disimpegno politico prima di tutto. Quest’ultimo, secondo Paloni, può essere letto anche tramite l’opposizione che si determina tra “carattere” e “contesto sociale”. Paloni tralascia giustamente la parte caratteriale, e si concentra sul “contesto sociale”. Qui, infatti «gli individui apprendono, assimilano gli stimoli e lo fanno in modo speciale in rapporto a figure di riferimento …». Queste figure di riferimento esplicano «tutte le funzioni di trasmissione dei significati e dei valori del vivere sociale. In questo è inclusa la scuola e la scuola politica in particolare.»
Ciò che invece, vorrei sottolineare è che, contrariamente a quanto Paloni afferma, questi “sistemi di trasmissione dei significati” non hanno fallito, ma hanno raggiunto il loro scopo. C’è un assunto implicito, che fa dichiarare a Paloni che «i sistemi di trasmissione dei significati hanno evidentemente fallito il proprio compito, non riuscendo a costruire attori sociali capaci di guardare avanti, ma lasciando spazio allo sdraiarsi, all’accomodarsi, rifuggendo da sfide vere, ancorché rischiose.»
Questo assunto possiamo definirlo interclassista o super partes. Infatti “i sistemi di trasmissione” affinché operino per il bene della collettività, cioè siano in grado di “costruire attori sociali capaci di guardare avanti” devono intendersi come mezzi/strumenti a disposizione di una collettività cooperante priva di conflitti di classe al suo interno1. Solo intendendoli in questo senso si può dire che hanno “fallito il proprio compito”. Il “fallimento” deriva dal fatto che il “compito” che il nostro pensiero implicito vorrebbe affidare a tali strumenti, in realtà è stato disatteso. Ma quel “proprio” compito, in realtà non è altro che la proiezione del nostro desiderio sul come dovrebbero funzionare “i sistemi di trasmissione”. Lo iato tra desiderio e realtà viene espresso come fallimento.
Se invece guardiamo alla realtà della struttura di classe delle società contemporanee, cioè alla struttura dei rapporti di produzione, che nella loro veste giuridica sono i rapporti di proprietà, constatiamo che nel 2015 in Francia (ma ciò vale con variazioni marginali per il mondo intero) il 10% dei più ricchi deteneva quasi il 60% di tutte le proprietà (immobili, azioni, titoli pubblici, aziende, ecc.) e l’1% dei più ricchi deteneva più de 20% di tutte le proprietà. Mentre il 50% dei più poveri non arriva a detenere il 10% di tutte le proprietà2.
Alla concentrazione della proprietà segue la concentrazione dei redditi: nel periodo 1980-2018, il 50% della popolazione mondiale con i redditi più bassi si è appropriata del solo 12% della crescita totale avvenuta negli ultimi 30 anni, mentre l’1% con i redditi più alti si è intascato il 27% di tale crescita3.
In quest’ottica di classe i “sistemi di trasmissione” hanno prodotto e veicolato valori e significati adeguati alla fase attuale del dominio capitalistico, che richiede masse svogliate e volte al disimpegno, oppure come giustamente ricorda Paloni, a «movimenti di protesta disordinata.»
Il tema importante è per Paloni, il cambiamento sociale, qui non si può che concordare. Ma, Paloni fa proprie le conclusioni di un lavoro di Serge Moscovici (Psicologia delle minoranze attive, Bollati Boringhieri, 1981) dal quale deriverebbe che «i cambiamenti sociali definibili come rivoluzioni sono spesso opera di pochi, di minoranze che riescono a influenzare un contesto che parrebbe schiacciante e senza speranza».
Respingo le suddette conclusioni. Esse forniscono una certa consolazione e fanno nutrire una debole speranza sulla possibilità di influenzare/incrinare lo stato di dominio e consenso che le classi dominanti hanno tutt’oggi. Le minoranze attive giocano certo il loro fondamentale ruolo storico, ma nel senso di guidare, orientare, dirigere un movimento popolare che si è mosso da se stesso. Senza questa guida delle minoranze attive, il movimento di “popolo” verrà ricondotto nell’alveo del costituito, ad opera delle classi sociali dominanti. Minoranze attive possono dar luogo ai “gillet gialli”, ai “forconi” o far nascere un movimento a “cinque stelle” o possono tramare nell’ombra un attentato, ma non riescono ad andare oltre ciò. Le minoranze attive giocano un ruolo se le classi subalterne si muovono da sé, ma non sono in grado di farle muovere tramite una rivoluzione culturale (Amato) o tramite l’attività propagandistica-politica delle minoranze attive (Moscovici).
Ecco allora che vale l’avvertimento di Lenin: «Per un vero rivoluzionario il pericolo più grande, forse anche l’unico, è l’esagerazione rivoluzionaria, l’oblio dei limiti e delle condizioni che rendono opportuna ed efficace l’applicazione dei metodi rivoluzionari. È qui che i veri rivoluzionari si sono più spesso rotti l’osso del collo, quando si sono messi a scrivere la parola “rivoluzione”, con la maiuscola, a fare della “rivoluzione” qualcosa di divino, a perdere la testa, a perdere la facoltà di riflettere col massimo sangue freddo e a mente chiara, di pesare, di verificare in quale momento, in quali circostanze, in quale campo d’azione bisogna saper agire in modo rivoluzionario, e in quel momento, in quali circostanze, in quale campo d’azione bisogna saper passare all’azione riformista»4.
Affidare a minoranze attive la capacità di produrre la Rivoluzione è “esagerazione rivoluzionaria”, ma è ugualmente “perdere la testa” porsi domande senza avere “pesato”, “verificato in quale momento e in quali circostanze” certe domande debbono porsi. Dobbiamo forse porci domande rivoluzionarie oggi?
Rispondere alle domande è importante, perché anche una risposta che si rivela errata è un passo in avanti, almeno impedisce che la si ripeta. Ma le domande debbono essere adeguate ai tempi e non precorrerli. Quindi, anche le domande possono essere errate. «Perciò l’umanità si pone sempre e soltanto quei problemi che essa è in grado di risolvere; infatti a guardar meglio, si noterà sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali per la sua soluzione sono già presenti o almeno in via di formazione»5.
Le domande di Paloni, come quelle di Amato, sono l’espressione e il desiderio di poter fare qualcosa, e questo ci accomuna. Ma la vera difficoltà sta proprio in ciò: nel formulare le domande adeguate ai nostri tempi di sconfitta socio, economica e culturale.
- Per tacere delle altre fratture che attraversano le classi, quali l’omofobia, la disparità dei generi, il razzismo, ecc.[↩]
- T. Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020, p. 159.[↩]
- Ibidem, p. 41.[↩]
- Lenin, L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo, 5 novembre 1921, pubblicato in Pravda, n. 251, 6-7 novembre 1971, ora in Opere Complete, Volume 33, pp. 93-94.[↩]
- K. Marx, Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, Newtton Compton Italiana, Roma, 1973, p. 32.[↩]
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Condivido abbondantemente l’approfondimento della riflessione proposto da Esteban Rojo, soprattutto nella misura in cui rileva (rivela) che i sistemi di trasmissione dei significati, specificatamente quelli capitalistici, hanno raggiunto il loro scopo. Lo hanno raggiunto assai meno i sistemi di costruzione delle coscienze, a partire dai ruoli paterni o di guida, storicamente resi impotenti. Saluti cordiali.