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Le contraddizioni del sionismo (prima parte)

di Franco
Ferrari

Il sionismo è la corrente politico-ideologica sulla base della quale è nato lo Stato di Israele nel 1948. Le sue origini risalgono alla seconda metà dell’800 e i suoi fondatori erano europei fortemente influenzati dal clima prevalente in quei decenni. Era il secolo del consolidamento degli stati nazionali esistenti o la formazione di nuovi, attraverso l’unificazione di realtà più piccole o separazione da altre più grandi (Germania, Italia, Polonia, Grecia, ecc.).

Tendenzialmente gli stati erano considerati come realtà etnicamente omogenee, rappresentative di “popoli” ad essi preesistenti e la cui storia (per lo più mitologica) poteva risalire molto indietro nel tempo. In qualche caso però si poteva anche ammettere obtorto collo che la fondazione dello stato aveva in una qualche misura preceduta quella del “popolo” corrispondente (“fatta l’Italia ora bisogna fare gli italiani”).

Il consolidamento degli stati nazionali

Il contesto ideologico era anche influenzato dalla grossolana trasposizione in termini politici delle nuove acquisizioni scientifiche come il darwinismo e la trasmissione ereditaria del patrimonio genetico. Questo diede ampiamente spazio all’uso del concetto di “razza” e alla lotta tra queste stesse “razze” per la sopravvivenza del più forte. Il generalizzato utilizzo del concetto di “razza” non era ancora necessariamente collegato ad una visione che solo successivamente verrà definita come razzista. Sarà soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, con la sconfitta del nazifascismo, che progressivamente si tenderà a sopprimere dal dibattito pubblico lo stesso uso del termine “razza” (che è ancora presente nella Costituzione italiana seppure per negare ogni forma di discriminazione, mentre resta ampiamente utilizzato nel discorso pubblico statunitense anche a sinistra ma con un significato diverso).

Il sionismo nasce quindi come articolazione interna al mondo ebraico di una visione che definisce lo stato nazionale come espressione di un popolo i cui contorni sono ben definiti e non privi di connotazioni “razzialiste” (uso questo termine per indicare l’adozione del concetto di razza in un senso non necessariamente razzista). La sua principale motivazione è la reazione alla ripresa dell’antisemitismo in diversi paesi (Germania, Francia, Russia). La sua idea di fondo era che solo “normalizzando” il popolo ebraico, trasformando le minoranze disperse all’interno di altri stati nazionali nella base per la costituzione di un proprio stato nazionale si poteva superare il pregiudizio antisemita.

Questa prospettiva si scontrava con diversi problemi. In che misura si poteva effettivamente parlare di un “popolo” ebraico, data la mancanza di alcuni elementi fondamentali, quali l’unità linguistica e la vicinanza territoriale?

A questo si aggiungeva che la gran parte degli ebrei europei erano contrari alla proposta sionista da diversi punti di vista. Vi era un’opposizione religiosa ortodossa che attribuiva solo a Dio la possibilità di decidere il ritorno degli ebrei nella “terra santa”. Un’altra tendenza religiosa riteneva che l’ebraismo fosse una comunità religiosa e non una nazionalità da contrapporre a quella degli Stati in cui gli ebrei vivevano. Quando Herzl cercò di organizzare il primo congresso sionista a Monaco di Baviera si scontrò con l’opposizione della stragrande maggioranza dei rabbini tedeschi e dovette ripiegare su Basilea, in Svizzera.

Un’altra importante opposizione sorse con la nascita del Bund ebraico, nello stesso anno del Congresso di Basilea, che condivideva la definizione degli ebrei come popolo distinto ma riteneva che essi dovessero partecipare con una propria autonomia culturale e organizzativa al più vasto movimento di emancipazione delle masse lavoratrici. Il Bund considerava il sionismo una corrente borghese estranea alla realtà del movimento operaio di cui si sentiva parte costituente. Partecipò infatti alla formazione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo. Il Bund era soprattutto espressione dell’ebraismo di lingua yiddish che aveva effettivamente una propria unità linguistica e una certa vicinanza territoriale e che aveva maggiormente le caratteristiche si “popolo”.

Questo mondo verrà largamente spazzato via dal genocidio nazista ma sarà anche duramente avversato dal sionismo perché contraddiceva l’unità degli ebrei ovunque fossero collocati. Benché fosse la lingua maggiormente parlata dagli ebrei nel mondo, l’yiddish verrà respinto dai sionisti come lingua del futuro stato, preferendogli una versione aggiornata dell’ebreo antico che era sopravvissuto solo come lingua di culto (un po’ come il latino per i cattolici).

Il sionismo rimase una tendenza minoritaria del mondo ebraico almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale.

L’altro problema che si apriva di fronte al sionismo e che costituì oggetto di dibattito e anche scontro interno riguardava la collocazione territoriale dello Stato ebraico da costituire. Non era affatto scontato che questo dovesse collocarsi in Palestina. Si formò una tendenza “territorialista” per la quale la disponibilità di un territorio, qualunque esso fosse, prevaleva sulla concezione del “ritorno” alla vera o presunta terra ancestrale (si leggano in proposito i due libri dello storico Shlomo Sand, “Comment le peuple juif fu inventée” e “Comment la terre d’Israel fu inventée”).  Si discusse della possibilità di costituire il nuovo stato in Argentina e ad un certo punto anche in Uganda, che era allora una colonia britannica. Lo stesso Herzl accolse positivamente questa ipotesi, almeno come soluzione intermedia, scontrandosi con buona parte del suo movimento.

Il sionismo come “movimento di liberazione nazionale” ma da chi?

La Palestina, dove si trovava già una limitata comunità ebraica mossa da motivazioni religiose e non sioniste, restava per varie ragioni la destinazione preferita. Il sionismo tende a presentarsi come un “movimento di liberazione nazionale” al pari di altri, ad esempio gli algerini dell’FNL. E’ quanto sostiene ad esempio Michael Walzer in un suo articolo di qualche anno fa su Dissent, rimproverando alla sinistra di non aderire alle tesi sioniste. “Perché quelli di sinistra non obbiettano alla liberazione del Sudan? O alla separazione dell’Eritrea dall’Etiopia? Perché non hanno invocato uno stato baltico anziché le tre nazioni di Lettonia, Lituania ed Estonia?”

Ma è del tutto evidente che si tratta di vicende storiche non paragonabili. I lettoni hanno costituito il loro stato nazionale (e che questo sia stato effettivamente un progresso si può anche mettere in dubbio) laddove i lettoni vivevano. Sarebbe stato più complesso se, sulla base di qualche ricostruzione mitologica sui loro antenati di due o tremila anni fa, avessero deciso di rivendicare la costituzione del loro stato nazionale, ad esempio, in Belgio, cacciandovi o sottomettendo gli abitanti di quel paese.

Il fatto che la Palestina non fosse una “terra senza popolo per un popolo senza terra”, secondo la successiva mitologia sionista, ha evidentemente costituito un dato di fatto storicamente insopprimibile e che tuttora costituisce un problema irrisolto per la piena legittimità di Israele.

Resta anche curiosamente indeterminato, nel discorso di Walzer come di tanti altri, la definizione del nemico dal quale questo “movimento di liberazione nazionale” doveva liberarsi. Se per gli algerini il nemico erano i francesi, per i vietnamiti prima i francesi poi gli Stati Uniti e così via, il sionismo che nasce in Europa da quale potenza oppressiva doveva liberarsi? Certamente non dai palestinesi contro i quali combatte da quasi un secolo.

Il sionismo contro la maggioranza degli ebrei

Attraverso una serie di mosse piuttosto abili e una notevole determinazione, spregiudicatezza anche morale e uso senza troppi scrupoli della violenza e, quando ritenuto necessario, del terrorismo, la leadership sionista riuscì tra la prima e la seconda guerra mondiale ad ottenere diversi risultati ma senza ancora arrivare ad un successo decisivo. Dopo qualche oscillazione e contrasto interno, il movimento sionista seguì una strategia fondata su due gambe. Da un lato la ricerca di sostegno delle grandi potenze coloniali europee, in particolare la Gran Bretagna che aveva ottenuto il mandato sulla Palestina, dall’altro l’immigrazione di ebrei al fine di ampliare la forza dell’Ischuv e delle organizzazioni che lo strutturavano (Agenzia ebraica, Histradrut, l’appendice paramilitare dell’Haganà, ecc.). In questo modo si cambiavano i rapporti di forza sul terreno, procedendo all’acquisto di terre palestinesi dai grandi feudatari latifondisti e cacciandovi con la forza i contadini arabi.

Ciò nonostante, la grande maggioranza del mondo ebraico si dimostrava affatto interessata a partecipare all’impresa sionista. Tra i milioni di ebrei che lasciavano la Russia o l’Europa centro-orientale, dove ancora forti erano le misure discriminatorie, solo una minoranza si rivolgeva alla Palestina. La grande maggioranza sceglieva gli Stati Uniti o altri paesi occidentali. Spesso chi sbarcava nelle comunità ebraiche in Medio Oriente, lo faceva perché costretto, soprattutto quando gli Stati Uniti chiusero le porte all’immigrazione.

La realtà storica, anche quella successiva alla seconda guerra mondiale smentisce il mito sionista secondo il quale il popolo ebraico, costretto all’esilio per 2.000 anni, ha sempre aspirato alla terra dei propri padri, la cui storia si è era svolta così come descritta dalla Bibbia. Ancora oggi dei 15 milioni di ebrei esistenti nel mondo solo 6 milioni vivono in Israele. E anche molti di questi sono stati spesso costretti ad emigrare nello “Stato degli ebrei” contro la propria volontà. Vale certamente per l’ultima grande ondata di immigrazione, quella proveniente dall’Unione Sovietica in via di smantellamento. Il governo israeliano era riuscito ad ottenere dagli Stati Uniti l’impossibilità per quell’ondata migratoria di scegliere una meta diversa da Israele, dove molti si sarebbero volentieri diretti. Tanto più che su circa un milione di immigrati, circa 300.000 non sono considerati ebrei dal rabbinato ebraico, a cui lo stato ha devoluto il compito di accertare “l’ebraicità” dei cittadini israeliani.

La situazione cambia comprensibilmente a favore dell’impresa sionista con la seconda guerra mondiale. Il genocidio messo in atto dai nazifascisti soprattutto nel mondo dell’ebraismo yiddish, ma anche nelle più piccole e integrate comunità dell’Europa occidentale, pose il problema di dare agli ebrei, a prescindere che li si riconoscesse o meno come popolo destinatario di un diritto all’autodeterminazione, una sistemazione che li tutelasse dal ripetersi di eventi tragici come quelli appena vissuti.

I sionisti trovarono in quell’occasione e inaspettatamente anche per loro, il sostegno dell’Unione Sovietica. L’URSS aveva contribuito in misura decisiva a salvare dallo sterminio centinaia di migliaia di ebrei. Un genocidio messo in atto dai nazisti, sia direttamente, sia col sostegno di movimenti collaborazionisti locali, come i nazionalisti di Stepan Bandera, oggi celebrati come eroi in Ucraina, o i fascisti italiani.

Il ruolo decisivo dell’Unione Sovietica

La posizione dell’URSS era favorevole ad uno stato binazionale nel quale potessero convivere ebrei e arabi e che potesse anche accogliere una parte almeno dei sopravvissuti al conflitto mondiale, le cui tradizionali aree di insediamento erano ormai completamente distrutte. Di fronte all’impossibilità di realizzare tale soluzione, anche per l’opposizione del mondo arabo, ancora guidato da élite feudali reazionarie strettamente collegate alle potenze coloniali europee, l’URSS virò verso la soluzione dei due stati nazionali affiancati. Entrambi avrebbero dovuto garantire pari diritti alle rispettive minoranze.

Gli Stati Uniti si unirono in extremis alla posizione sovietica per decisione del Presidente Truman, in contrasto con i vertici del Dipartimento di Stato. Sia Stalin da un lato, rappresentato da Gromiko, sia Truman dall’altro, si mossero in gran parte per motivazioni politiche proprie. L’uno pensando di indebolire il controllo delle potenze imperialiste sul Medio Oriente, l’altro per conquistare i voti ebrei negli Stati Uniti ed evitare che questi guardassero con eccessiva simpatia all’Unione Sovietica proprio mentre si stava scatenando la guerra fredda.

Per la vittoria del neonato stato israeliano nel conflitto con gli eserciti arabi (mal diretti e peggio organizzati) furono decisive le armi che arrivarono dalla Cecoslovacchia, con l’assenso di Mosca, dato che i paesi occidentali avevano posto l’embargo al trasferimento di armi all’esercito sionista. Paradossi della storia, quando all’Onu venne presentata una mozione per il diritto al ritorno dei palestinesi cacciati dalle loro case, gli Stati Uniti votarono a favore e l’Unione Sovietica votò contro.

La leadership sionista, sempre abile ad utilizzare tutte le opportunità, approfittò del conflitto per ampliare la parte di Palestina occupata dal nuovo stato israeliano e per favorire in vari modi la fuga dei civili palestinesi, in modo da alterare significativamente a proprio favore la composizione demografica del nuovo Stato.

Il sionismo diventa stato e si differenzia

Il movimento sionista diventò la forza dominante del nuovo stato israeliano, ma nel frattempo si era differenziato politicamente. La tendenza prevalente era costituita dal laburismo, che resterà tale fino alla seconda metà degli anni ’70. Benché utilizzasse una retorica socialista o socialdemocratica e facesse riferimento all’esperienza dei kibbutz, forma di organizzazione collettivista agricola, non si deve sopravvalutare troppo la natura di sinistra del sionismo di Ben Gurion o di Golda Meir. Più significativa la presenza di un sionismo esplicitamente marxista o addirittura, inizialmente, “marxista-leninista” come quello del Mapam, formazione politica che nei primi anni di Israele godette di una effettiva popolarità. In questa si rifletteva quella dell’Unione Sovietica e non era insolito vedere sfilare nei cortei israeliani del primo maggio grandi ritratti di Stalin. I processi staliniani nei paesi dell’Europa orientale dei primi anni ’50, che prenderanno di mira in misura significativa leader di origine ebraica accusati, senza fondamento per altro, di complicità col “sionismo”, porteranno un duro colpo alla simpatia per l’Unione Sovietica.

La leadership laburista nell’arco di pochi anni avvierà un rapporto di stretta collaborazione con le potenze imperialistiche occidentali, prima quelle coloniali europee, partecipando nel 1956 all’aggressione militare all’Egitto con Francia e Gran Bretagna e poi collegandosi sempre più strettamente agli interessi degli Stati Uniti.

A fianco del laburismo e del sionismo marxista del Mapam si sviluppavano altre due correnti significative, le cui basi erano già state poste in precedenza. Quella del sionismo cosiddetto revisionista fondata dall’ebreo ucraino Vladimir Ze’ev Zabotinsky e quella di derivazione direttamente religiosa, inizialmente ostile o scettica nei confronti del sionismo per l’influenza delle posizioni ortodosse ma soprattutto per il timore di un eccessivo laicismo del nuovo Stato.

I laburisti al comando del nuovo stato, benché si siano proclamati laici, lasciarono spazio alle istituzioni religiose in materia di matrimoni e di sepoltura (i non ebrei non possono essere sepolti insieme agli ebrei) nonché di definizione dell’ebraicità delle persone che arrivano o vivono in Israele. L’obbiettivo è anche di rendere più difficili i matrimoni misti considerati un pericolo per la sopravvivenza del “popolo ebraico”, per il quale non vi è solo la minaccia dell’antisemitismo ma anche la perdita di identificazione da parte degli stessi ebrei a seguito di processi di assimilazione di qualsiasi tipo visti come una minaccia esistenziale. L’intervento dell’autorità religiosa su un tema, quello del riconoscimento dell’identità nazionale delle persone, che normalmente spetta alle autorità dello stato, evidenzia un’altra delle diverse contraddizioni che caratterizzano il sionismo sin dalla sua fondazione e che risulta tuttora irrisolto, se non addirittura aggravato dalla crescita del fondamentalismo religioso.

Su questi temi torneremo nella seconda parte dell’articolo.

Franco Ferrari

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