Poche parole per motivare la mia presenza ad un incontro così vasto in cui intervengono persone estremamente competenti. Partecipo a questa iniziativa come giornalista e non in qualità di dirigente politico di Rifondazione, per diversi motivi. Intanto perché in sala ho ascoltato e vedo persone che con me hanno conosciuto quanto accadeva in quelle terre vari decenni fa. Compagne e compagni come Giovanni Russo Spena, Luisa Morgantini, Yussef Salman e Alì Rashid, grazie a cui ho potuto comprendere, toccando con mano, l’importanza della causa palestinese. Erano gli anni della prima Intifada, quelli in cui si cercava comunque, anche con la “rivolta delle pietre”, ma con una parte d’Europa che cercava di avere un volto e un impegno diverso, di fermare l’avanzata dell’occupazione. Ho parlato di persone che sono qui con noi ma non posso dimenticare Dino Frisullo, che in Cisgiordania e Gaza mi ha accompagnato e che purtroppo non è più con noi. Allora ero attivista e militante e credo che quella nostra generazione – eravamo in tante e tanti – abbia rappresentato una piccola speranza, purtroppo andata dispersa, di un approccio diverso, meno coloniale e più fatto di condivisione, per comprendere la causa palestinese.
Ma sono qui anche come giornalista. Ho la fortuna di scrivere per Left, che dedica il numero in edicola alle vicende di questi mesi e che conterrà articoli importanti anche nel mese successivo e su transform!Italia. Due piccole eccezioni, due spazi di libertà in cui si cerca, con poveri mezzi, di raccontare la complessità storica, politica, derivante da mille fattori, per capire e trovare gli strumenti per reagire. Ma da giornalista, lo dico con estrema franchezza, mi vergogno di gran parte della mia categoria, protesa ad una narrazione a senso unico, in cui prevale una modalità binaria di guardare il mondo, con un approccio coloniale e dominante, che deforma la realtà invece di informare.
Per molte testate mainstream tutto è già chiaro, chi siano i buoni – magari con qualche eccesso – e chi siano comunque i cattivi, i terroristi, quelli che, sulla base di una informazione embedded, sono terroristi, criminali, barbari. Accadeva quando noi ci recavamo in Palestina, accade anche oggi: i giornalisti delle grandi testate occidentali viaggiano sui mezzi militari israeliani, vanno a vedere ciò che si chiede loro di vedere e di raccontare, ascoltano quasi unicamente le versioni degli occupanti, perché questo sono, e mai quelle degli occupati. Un’informazione superficiale, confusa, piena di refusi e limiti concettuali.
La resistenza palestinese è articolata e comprende anche movimenti come Hamas, legati al mondo vasto dei Fratelli Musulmani, con cui in altri Paesi si dialoga e si fanno buoni affari. Hamas non è un’organizzazione terroristica come Al Qaeda (La base) che aveva come unico scopo quello di portare il terrore nel “mondo dei crociati” e non è nemmeno l’Isis (meglio ancora Daesh) il cui obiettivo è realizzare la Umma (l’unità) di tutti i musulmani per combattere il resto del mondo. Hamas è un partito reazionario, islamista, come quello che governa in Turchia, che ha governato in Egitto e che è fortemente presente in altri Paesi. Pratica la lotta armata, uccidendo – ed è inaccettabile – anche civili, donne, bambine e bambini, ma ha un suo consenso, garantisce welfare in una delle zone più disastrate e densamente popolate del pianeta. I bombardamenti e gli attacchi israeliani contro obiettivi civili, persino ambulanze e ospedali, giustificati con il fatto che tali luoghi sono i nascondigli dei capi di Hamas, non fanno altro che rafforzare lo stesso movimento togliendo ogni speranza di soluzione. Del resto, è chiarissimo che l’apertura di un dialogo avrebbe come primo risultato la caduta del governo di Benjamin Netanyahu e del suo governo che, come è stato ricordato nell’introduzione è il più reazionario della intera storia di Israele. Quindi chi vuole una soluzione che non contempli la guerra permanente?
Parlare di futuro oggi è difficile. E ha ragione Maya Issa quando dice che “questa non la dovete chiamare guerra ma genocidio”: la guerra si combatte fra pari, qui c’è un esercito che ha deciso di sterminarne un popolo. E questo i nostri giornali, le nostre televisioni, i nostri decisori politici, avrebbero il dovere di dirlo e non lo fanno. Si schierano da una parte sola, magari lasciando ogni tanto qualche ipocrita lacrima per le vittime civili palestinesi, effetti collaterali del tentativo di eliminare i terroristi, uomini, donne e soprattutto bambini, presentati come “scudi umani”.
Vedendo le immagini televisive, ho ritrovato il campo profughi di Jabalya a Gaza, recentemente bombardato. Un campo rifugiati creato dall’ONU, dopo la cacciata, la Nakba dei palestinesi, in cui sono cresciute troppe generazioni in condizioni inenarrabili. Ci vivono 60 mila persone, ci sono nati uomini e donne che oggi hanno 75 anni. Ma di questo è meglio non accennare. Nel 1989 ho visto con i miei occhi bambini che tiravano pietre contro i soldati dell’esercito israeliano, venir gettati nella pozza in cui rifluivano le acque di scarico delle fogne a cielo aperto. Quei bambini, quelli ancora liberi e ancora vivi, oggi hanno 40 anni almeno, ma della loro vita priva di futuro, non si dice nulla. E che dire della frammentazione in zone separate da muri, fili spinati, check point e strade diversificate in cui è ridotta la Cisgiordania. Come è stato già ampiamente detto, centinaia di migliaia di coloni, provenienti soprattutto dell’ex URSS, sono stati chiamati in Israele per divenirne immediatamente cittadini, hanno preso possesso delle terre migliori, i settlements (gli insediamenti), hanno accesso all’acqua e vivono blindati ma sicuri, i loro abitanti girano armati e comandano, spesso sostengono le forze più oltranziste e xenofobe del Paese.
Premesso che non spetta certo a noi decidere quali soluzioni imporre, l’occidente ha perso qualsiasi autorevolezza e comunque, anche se vi provasse, si tratterebbe di reiterare le modalità coloniali con cui si affrontano ancora le complessità del mondo. E, premesso che spetterà a tutte, dico tutte, le parti in causa poter trovare, se esiste, una soluzione che non sia la guerra continua e permanente, leggo segnali che fanno tremare i polsi.
Un importante accademico israeliano, Mordechai Kedar, considerando ancora la vecchia OLé più pericolosa per Israele di Hamas, propone di “istituzionalizzare” definitivamente lo status quo. In un recente articolo, tradotto senza un briciolo di critica da un importante quotidiano italiano, dichiara che “L’unica soluzione possibile è quella degli Emirati urbani, basata sul sistema tribale tuttora predominante in Cisgiordania: in ognuna delle grandi città – Jenin, Nablus, Ramallah, Tulkarem, Qalqilya, Gerico e la parte araba di Hebron – può essere istituito un “Emirato sovrano” la cui fonte di autorità siano i capi delle famiglie locali, sul modello degli Emirati del Golfo”. Si badi bene, le aree rurali circostanti resterebbero in mano israeliana e i palestinesi che in queste aree vivono potrebbero “scegliere” di accettare la cittadinanza israeliana sapendo che per chi è arabo resta cittadino di serie b. Lo studioso ha anche già pronta la soluzione per Gaza, la suddivisione in 6 distretti: Beit Lahia, Gaza, Dir al-Balah, Khan Yunis, Abasan al-Kabira e Rafah, con governatori locali che li amministrano. Sarebbe la fine dell’idea stessa di Stato palestinese. L’alternativa, non potendo eliminare milioni di civili, è la seconda Nakba, la deportazione in Egitto e Giordania, magari con i soldi dell’occidente. Intensificare incontri come quello di oggi, momenti di approfondimento, pretendere reale informazione, deve divenire un punto cardine per ognuna e ognuno di noi, ne va realmente del futuro. Dobbiamo considerare queste ipotesi inaccettabili e farle fallire. Dobbiamo farlo come giornaliste e giornalisti, dobbiamo farlo anche come comuniste e comunisti che hanno realmente a cuore la pace e la felicità dei popoli.
Stefano Galieni