di Fabio Alberti – L’omicidio extragiudiziale di un generale dell’esercito di un altro Paese è un crimine di guerra, mette in pericolo la pace mondiale, e manifesta la protervia di un governo che ritiene di non dover rispettare nessuna norma di diritto internazionale e di non dover rendere conto a nessuno. Un Paese sempre più pericoloso anche perché ormai consapevole di essere destinato a non poter più dominare il pianeta e che per questo potrebbe essere tentato di far saltare il banco prima che sia qualcun altro a dare le carte. L’aggressività statunitense va fermata, subito. Tutto ciò è molto chiaro da qui.
Ma com’è vedere le bombe dalla rivolta dei giovani e delle giovani irachene di piazza Tahrir?
Sabato 4 gennaio in concomitanza con i funerali iracheni del generale Qasem Soleimani e nonostante le imponenti misure di sicurezza che gli sono state accompagnate, piazza Tahrir si è nuovamente riempita sin dalla mattina, come avviene ormai da tre mesi da quando la rivolta è scoppiata lasciando sul terreno 500 vittime e 20.000 feriti. Così è stato anche per le piazze di Kerbala, Dhi Qar, Qadisiyah, Muthanna, Basra, Najaf, in tutto il sud del Paese. Il movimento di protesta ha ripreso la parola dopo quelli che interpreta come atti dello scontro di potere per il controllo della loro terra: l’uccisione di Soleimani da parte di Trump, la richiesta del Parlamento iracheno di espellere i soldati statunitensi.
Ha ripreso la parola con un appello unanime al governo: “Tenete il nostro Paese fuori dal conflitto tra Iran e Usa, vogliamo un governo al servizio dell’Iraq e non di una potenza estera, qualunque essa sia” e rilancia una grande manifestazione per il prossimo venerdì 10 gennaio, giocando sull’inversione della data di inizio della rivolta, il primo ottobre 2019 (01/10 – 10/01). È questa, la preoccupazione che il possibile conflitto armato tra Iran e Usa si svolga sul territorio iracheno, magari tra proxy delle due parti, una preoccupazione molto diffusa, che si riflette nelle dichiarazioni di numerosi leader politici di tutti gli schieramenti. La ritorsione iraniana odierna non potrà che rinfocolare questa preoccupazione. Combattersi per il controllo dell’Iraq infatti può evitare un’escalation anche peggiore del conflitto.
Visti da qui l’attacco statunitense e la risposta del primo ministro iracheno, dimissionario sotto la pressione della rivolta, sono ambedue parte del braccio di ferro tra i regimi dell’Iran e degli Usa per determinare la successione al dimissionario Abdel Al Mahdi. Un braccio di ferro a cui il generale Soleimani non era estraneo.
Dall’inizio della rivolta irachena, l’ottobre scorso, aveva fatto la spola tra Teheran e Damasco, portavoce delle preoccupazioni iraniane per il carattere antisistema delle manifestazioni, prima per chiedere l’inasprimento della repressione, poi per tentare di imporre i candidati a primo ministro graditi al governo persiano ed osteggiati dai manifestanti.
Visto da qui l’attacco statunitense potrebbe essere la fine delle speranze suscitate dalla “rivoluzione d’ottobre” che aveva messo a tema la fine delle interferenze iraniane, oltre alla demolizione del sistema di spartizione del potere su basi settarie ereditato dall’occupazione statunitense. Il timore è che possa essere l’occasione per le milizie, accusate dell’assassinio di numerosi attivisti e di cui si chiedeva lo scioglimento e l’integrazione nell’esercito, di riconquistare credito e potere, per il regime di riorganizzarsi e richiudere le crepe che la rivolta aveva aperto all’interno del campo sciita, per l’Iran, il cui consolato era stato attaccato dai manifestanti di Najaf di riprendere legittimità e controllo.
Insomma, la fine della rivoluzione.
Dello stesso Fabio Alberti, su questo tema, segnaliamo l’articolo Iraq, missili sulla rivolta d’ottobre, pubblicato su dinamopress.