I dati che periodicamente sono forniti sul numero dei poveri, o di persone a rischio di povertà, testimoniano come in Italia ci sia un costante aumento di persone indigenti. La filosofa spagnola Adela Cortina nel suo libro, Aporofobia, il cui significato è “paura del povero” (dai termini greci άπορος, povero e φόβος, paura) afferma che l’avere paura di fronte a un povero o a mendicante è rifiuto e odio per gli ultimi della società, mentre, all’opposto, ai ricchi si riserva amore e ammirazione. Queste affermazioni non sono nuove, le troviamo anche nelle opere di autori antichi greci e poi romani. Essere ricchi diventa il principale desiderio per coloro che versano in condizioni miserevoli. Creso, il sovrano della Lidia che il mito ha reso famoso e tramandato per la sua immensa ricchezza, diviene frequente nelle narrazioni e nei sogni di chi è povero. Salito al trono nel 560 a. C., estende il suo regno grazie all’annessione delle città greche della costa asiatica, accumulando un ingente patrimonio per cui si diceva «ricco come un Creso».
Molto nota è la leggenda narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (XI, 85-193): Mida, re frigio che ha reso un grande favore a Bacco, sarà ricompensato con il dono da lui richiesto «Fai che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in fulvo oro». Presto si rende conto dell’errore commesso e disperato perché è destinato a morire di fame, supplica il dio di liberarlo. Bacco, impietosito, gli ordina di risalire sino alla sorgente del fiume Pattolo, che scorre vicino la città di Sardi, e «di immergere là il capo in modo da lavare insieme al corpo la colpa». Per questo motivo da allora le acque del fiume impregnate d’oro brillano. La leggenda passa di bocca e in bocca ma al desiderio di essere come Mida subentra l’ammonimento a considerarlo un modello negativo da non imitare.
Da secoli la distribuzione della ricchezza è disuguale e favorisce le classi privilegiate. Antichi poeti greci hanno lasciato delle massime sapienziali e delle riflessioni amare «un uomo è considerato per quello che possiede» (Aristodemo) «nessun povero è nobile e stimato» (Alceo). Pindaro lo conferma e aggiunge che «anche il sapere è messo in catene dal desiderio di guadagno», «le menti degli uomini sono pronte a lodare i subdoli guadagni più che la giustizia e vanno tuttavia verso un domani amaro».
Analoghe nella sostanza sono talune successive riflessioni esternate durante riunioni simposiali: «tranne l’oro il resto è nulla» mentre la povertà è considerata «un male funesto che Zeus infligge agli uomini», «un dono degli dei sempiterni che consuma il cuore». Se diventare ricchi è la principale ambizione l’indigenza è ritenuta «il peggiore dei mali» da Esiodo (VIII-VII sec. a. C.) e «madre di impotenza» dal poeta Teognide (VI-V sec. a.C.).
Il mondo antico greco, ma in seguito anche romano, prende spesso le distanze dall’idea del desiderio di accumulare ricchezza e beni materiali.
«La libertà consiste nell’essere padroni della propria vita e nel curarsi poco delle ricchezze», scrive il filosofo Platone nella Repubblica, dando voce a un pensiero diffuso nell’antichità.
Nelle Storie Erodoto, narra un incontro tra Creso, il ricco re di Lidia, e il saggio Solone, antico legislatore e poeta. e ci presenta l’uno felice solo accumulando denaro, l’altro desideroso di avere la protezione degli dei e di concludere serenamente la propria esistenza.
Al suo arrivo Solone è ospitato da Creso nella reggia: due o tre giorni dopo, per ordine del re, alcuni servitori lo conducono a visitare i tesori e gli mostrano quanto vi sia di straordinario e sontuoso. Creso aspetta che Solone abbia osservato e considerato tutto per bene e poi, al momento giusto, gli chiede: «Ospite ateniese, ai nostri orecchi è giunta la tua fama, che è grande sia a causa della tua sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che per amore di conoscenza hai visitato molta parte del mondo: perciò ora m’ha preso un grande desiderio di chiederti se tu hai mai conosciuto qualcuno che fosse veramente il più felice di tutti». Fa questa domanda perché ritiene di essere lui l’uomo più ricco, ma Solone, evitando l’adulazione e badando alla verità, risponde: «Certamente, signore, è Tello di Atene».
Creso, sorpreso chiede perché lo ritenga così felice e Solone racconta la vita di Tello arricchita da figli e nipoti, e la sua morte combattendo così eroicamente che la sua città gli dedica un monumento. Creso è sorpreso dalla risposta perché desidera essere almeno al secondo posto tra gli uomini più felici, ma Solone indica due giovani che per trasportare la loro madre al tempio di una dea sostituiscono i buoi del carro, affaticandosi molto per il lungo cammino. Alla madre che chiede alla dea una ricompensa per quell’atto generoso, la dea destina loro una morte nel sonno perché non c’è ricompensa migliore e felicità di chi muore dopo aver compiuto un’azione esemplare. Creso si irrita per essere messo a paragone con due cittadini qualunque. Solone risponde: «Creso, tutto per l’uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a te prima di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita … Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha fatto intravedere la felicità e poi ne ha capovolto i destini».
Aspirare alla ricchezza è dunque considerato un grande errore per gli uomini saggi.
Solone nell’Elegia delle muse così sentenzia sulla smisurata cupidigia degli stolti:
«Per gli uomini non si pone alcun limite alla ricchezza. Quanti fra noi oggi possiedono somme in abbondanza ma si affannano ad averne il doppio? Chi potrebbe saziarli tutti? Il denaro per i mortali si cambia in stoltezza, da cui deriva la loro rovina».
A proposito dei desideri degli uomini e delle loro illusioni Solone si esprime così nella stessa elegia:
«Stando a bocca aperta godiamo di vane speranze: chiunque sia tormentato da malattie dolorose pensa che guarirà; un altro, pur essendo vile crede di essere un uomo valoroso e bello nonostante il proprio spiacevole aspetto; se uno poi è senza mezzi e lo opprimono i travagli della povertà, crede che in un modo o in un altro acquisterà molte ricchezze».
Inoltre il saggio Solone riconosce duratura e apprezzabile soltanto alla ricchezza donata dagli dèi e scrive: «Desidero possedere ricchezze, ma non voglio procurarmele ingiustamente. La ricchezza che donano gli dèi, rimane salda dalle basi estreme sino alla cima; quella che gli uomini ottengono con la violenza procura azioni ingiuste, e presto arriva la rovina».
Socrate, il filosofo greco di cui abbiamo notizie attraverso la testimonianza di Platone, non indossa tunica né d’estate né d’inverno, cammina scalzo come un bambino, difende la propria libertà interiore: «Felice non è chi vive nel lusso, ma chi non ha bisogno di nulla, o del meno possibile».
Nella Repubblica Platone riporta un pensiero di Socrate: «la città ideale mira al benessere della collettività, non di una singola classe; perciò deve evitare l’eccesso sia della povertà sia della ricchezza».
Tuttavia presto nelle città subentra apprezzamento per il possesso di beni sempre presente nell’animo degli uomini. Il commediografo Aristofane nella l’ultima delle sue commedie che prende il titolo dal dio della ricchezza, Pluto, presenta il cambiamento del dio che ha deciso di favorire i poveri invece che i ricchi e ciò ha suscitato euforia in una città in stato di guerra dove la miseria colpisce gli ultimi della società. Ci sarà una generosa distribuzione di tanti doni. Carione, schiavo di un contadino, esulta soprattutto per l’abbondanza di cibo. Che poi gli oggetti si mutino in minerali preziosi e che oro e argento riempia i cassetti è forse scritto per regalare un sogno utopico agli abitanti impoveriti.
«Che piacere l’agiatezza, amici miei, senza rimetterci di tasca propria. Una valanga di beni ci è piombata sulla casa: noi abbiamo le mani pulite! Vi assicuro è un piacere arricchire. Zeppa di farina bianca la madia, vino nero nelle anfore, profumatissimo. Tutti i nostri cassetti pieni di argento e oro, una meraviglia. La cisterna piena di olio, le boccette stracolme di profumi, il granaio pieno di fichi secchi. Piatti, fiaschi, pentole, tutti diventati di bronzo».
Con il filosofo Aristotele viene meno il valore positivo della ricchezza ed è espresso il disprezzo per chi la possiede. «Chiunque può facilmente vedere quali caratteri si accompagno alla ricchezza. I ricchi sono arroganti ed insolenti credono che si possa acquistare tutto per mezzo di essa. Sono boriosi e grezzi si dedicano ai piaceri per ostentare il loro benessere».
Il desiderio di ricchezza è spesso associato a stoltezza, come leggiamo nel “Convito dei sette sapienti” di Plutarco: «Ricco fu Mida e tre volte ricco fu Cinira. Ma chi è mai giunto all’Ade con più di un obolo?»
Molti anni prima già in un passo attribuito al saggio Solone troviamo lo stesso concetto:
«La giovinezza è il vero tesoro per i mortali: nessuno infatti discende nell’Ade portando con sé tutte le ricchezze né pagando un riscatto può sfuggire alla morte o alle gravi malattie o alla terribile vecchiaia che incombe».