È la fine di marzo 2021 quando Just Eat, dopo anni di mobilitazione da parte dei rider, decide di firmare un contratto aziendale in cui riconosce i rider italiani, rappresentati al tavolo da CGIL, CISL, UIL e la rete RiderXiDiritti, come lavoratori subordinati. Grazie a questo accordo, dunque, i rider entrano a pieno titolo tra le figure comprese dal CCNL della logistica, godendo per i primi due anni di un salario orario minimo di 9,7€ l’ora (comprensivo di TFR, tredicesima, quattordicesima, ferie) più indennità di 0,25 a consegna, mentre successivamente la paga passerà a 11,70€ all’ora più indennità di 0,25 a consegna. Inoltre, l’accordo consente ai rider di avere accesso a una paga piena, inclusi cioè i tempi di attesa al ristorante che, nel sistema a cottimo, finiscono per costituire lavoro non retribuito dalle piattaforme. A detta dell’azienda, una multinazionale americana che va sempre più affermandosi come leader mondiale nell’ambito del food delivery, si tratta solo del primo passo di una ristrutturazione aziendale che l’azienda intende condurre a livello internazionale. Una scelta che sembra dunque essere destinata a cambiare radicalmente l’ambito del food delivery, alle prese non solo con l’allargamento dei diritti, ma anche con una generale ristrutturazione produttiva che rischia di mutare radicalmente l’attuale morfologia del settore. Come messo in evidenza dal tracollo finanziaria che ha colpito Deliveroo a seguito della firma dell’accordo, ormai sono persino gli stessi investitori a dubitare della futura sostenibilità di un modello di business basato sulla completa elusione delle tutele dei lavoratori.
Eppure, solo 6 mesi prima la stessa Just Eat, assieme al resto delle piattaforme affiliate ad Assodelivery, era tra le firmatarie del CCNL Rider che non solo continuava a negare il riconoscimento della subordinazione ai rider, lasciando sostanzialmente invariate le condizioni di lavoro dei rider, ma che ha destato forti proteste a causa della dubbia rappresentatività di UGL, unica parte sindacale firmataria dell’accorso. Così, nonostante tanto lo stesso ministero del lavoro, quando le mobilitazioni dei rider abbiano a più riprese denunciato la natura illegittima di questo accordo, finalizzato ad eludere gli effetti del Decreto rider approvato nel 2019 più che a definire un piano di tutele, esso è stato strenuamente difeso dalle altre piattaforme.
Non sorprende, dunque, che, favoriti anche dalla contraddizione determinata dalla pandemia, in cui i rider si sono ritrovati all’improvviso ad essere lavoratori essenziali – ma privati dei diritti essenziali – i mesi che hanno preceduto l’accordo siano stati preceduti da un’ondata di mobilitazione che ha visto crescere a vista d’occhio il numero dei rider. Sono infatti oltre 30 le unions territoriali, di diversa ispirazione politica e sindacale, che hanno alimentato la giornata unitaria di sciopero del 26 maggio. Un dato che mette in evidenza non solo come questo settore sia ormai attraversato da un’ondata di sindacalizzazione – in controtendenza con quanto avvenuto negli ultimi anni – che appare inarrestabile, ma anche di come queste esperienze stiano maturando un riconoscimento e un potere negoziale che fino a poco tempo fa sembrava impensabile. La scelta delle unions informali di condurre una vertenza basata sulla costruzione di alleanze sociali ampie, a livello metropolitano e nazionale, in grado di far pressione sull’opinione pubblica più che sulla sola piattaforma, ha infatti attivato un processo che, a partire dalla Carta di Bologna, ha visto non solo cittadinanza, ma anche istituzioni come la procura di Milano impegnarsi per garantire l’accesso di questi lavoratori ai diritti riconosciuti agli altri lavoratori. Un interesse e un riconoscimento che ha svolto un ruolo fondamentale non solo nell’ostacolare gli atteggiamenti anti-sindacali che caratterizzano le scelte delle piattaforme, ma che ha consentito ai rider di ridurre le asimmetrie di potere che caratterizzano la sfera del lavoro digitale.
La vittoria più preziosa di questo accordo sembra dunque essere quella non scritta, ossia il processo che ha reso possibile questo unicum dal punto di vista internazionale. Un processo che ha visto la confluenza non solo di diverse culture politiche e sindacali, ma anche di figure differenti, dai solidali attivi nei contesti urbani, alle istituzioni locali e nazionali, ad alcune delle principali autorità giudiziarie, che hanno fatto la loro parte nel rendere possibile un risultato che appariva impensabile per chi, come i rider, veniva identificato come inorganizzabile. Questo accordo mostra non solo come i lavoratori inorganizzabili non esistano, ma anche come sia possibile resistere ad una precarietà che, fino a qualche tempo fa, appariva un orizzonte inevitabile tanto per i rider, quanto per migliaia di giovani e meno giovani nel nostro paese. La mobilitazione dei rider è stata dunque in grado non solo di attivare un’ondata di sindacalizzazione nel settore che appare sempre più inarrestabile, ma anche di determinare un terreno comune dove differenti culture politiche e sindacali hanno potuto confluire e contaminarsi all’insegna del Non per noi a per tutt*. Forse sarà proprio in ciò che seguirà l’accordo, nel rilancio di alleanze e confluenze necessario a fare in modo che il contratto di Just Eat non sia più solo un’eccezione, ma il punto di partenza di una nuova generazione di diritti, che i rider riusciranno nuovamente a stupirci, diventando così quella scintilla che, nella notte più buia, torna a rendere nuovamente tutto possibile.
Università di Bologna