Sono passati 130 anni dalla vittoria di Adua, la più grande vittoria africane del secolo XIX contro l’imperialismo europeo in nome delle libertà e dell’indipendenza dell’Etiopia. Da allora i pasi africani che man mano diventavano indipendenti, attingevano proprio dalla bandiera di Adua i colori delle loro bandiere nazionali si faccia caso quante volte si ripetono il verde il giallo e il rosso, sempre in omaggio ad Adua, la vittoria grande,
La battaglia di Dogali
Dogali è una località eritrea a poca distanza da Massaua, cioè il porto di sbarco della colonizzazione italiana. Lì fu distrutta il 26 gennaio 1887 la colonna De Cristoforis di 540 uomini, alcuni dei quali – tra cui i tre ufficiali, Longo, Gattoni e Toffanelli – erano sbarcati a Massaua meno di 48 ore prima.
Il vincitore fu Ras Alula e i caduti italiani 430 di cui almeno 200 morirono per mancanza di un soccorso che peraltro sarebbe stato possibile. I giornali italiani parlarono di ferocia abissina sui vivi e sui morti, ma è falso perché nella notte, dopo un acquazzone, 91 feriti ritrovarono le forze per muoversi e raggiungere Massaua, isolati e stremati, dopo tre giorni.
Al Parlamento italiano, Andrea Costa pronunciò uno dei suoi discorsi più appassionati. Merce avariata vengono definiti gli slogan patriottardi. Disse Costa: “Il nostro grido è lo stesso di due anni fa.[1] Noi vi diciamo oggi, come allora: cessate da queste imprese pazze o criminose; richiamate le nostre truppe dall’Africa. E non ci lasciamo impressionare dalle frasi altisonanti di onore della bandiera, di prestigio militare o che so io: tutta questa roba qui è di quella che si adopera per far passare la merce molte volte avariata”.
Sotto il profumo fine e nobile, insomma, si sente odore di pesce marcio. Come oggi.
Una poesia popolare riuscì persino più efficace del suo nobile discorso
Cui sunno ora
Cui sunnu li latrona
Chiddi che si difenninu
O vui li scarafuna?
Sta guerra è arrisicusa
Turnativinni subito
Truvvatici una scusa
Chi onori … chi rivincita
Quannu nun c’è ragiuni
La ritirarsi è astuzia
Né parte de minchiunni
La battaglia di Adua
Adua non fu un’occasionale, per quanto clamorosa, sconfitta dell’esercito italiano inflitta dagli abissini, ma venne dopo una serie di sconfitte tutte imputabili alle medesime cause. Le sconfitte, alcune delle quali particolarmente drammatiche, furono nel 1887 la distruzione della colonna De Cristoforis a Dogali, cui si è accennato; poi la distruzione del battaglione Toselli all’Amba Alagi dieci anni dopo e, in sequenza accelerata, l’assedio di Makallè[2] nel gennaio 1897 e la sconfitta di Adua in marzo. Le cause, sempre le stesse: disordine e irresolutezza dei comandi, superficialità e inefficienza nella raccolta di informazioni, approssimazione dei piani operativi, confusione logistica, impreparazione della truppa messa in campo non appena sbarcata, ignara del terreno e dell’avversario; e non di truppe veterane si trattava ma, proprio nel caso di Adua, di soldati di leva e di volontari appena arruolati inseriti in reggimenti raccogliticci dove i soldati non si conoscevano tra loro, né conoscevano i loro ufficiali, anche quelli sbarcati per la prima volta in terra d’Africa. Per non dire delle scarpe non adatte, del munizionamento scarso, degli armieri mancanti e dei servizi medici carenti. Ma soprattutto, e fu forse la debolezza maggiore dell’esercito italiano come di tutti gli eserciti coloniali ripetutamente sconfitti, a pesare fu la sottovalutazione dell’avversario, sbrigativamente immaginato come un’orda selvaggia, con comandanti altrettanto selvaggi e ignoranti, incapaci di manovrare, indisciplinati, incapaci di usare le armi da fuoco quando pure ne avessero, privi di una gerarchia di comando. Governo e comandi militari italiani erano del tutto incapaci, tra l’altro, di concepire le motivazioni forti dell’esercito nemico unito e compatto a difesa della patria e della libertà, ma anche della casa e della famiglia avendo sperimentato ciascuno in maniera più o meno diretta che quello che avevano di fronte era un esercito di razziatori, stupratori e saccheggiatori che profanavano le chiese, uccidevano i preti cristiani e bruciavano campi, case e villaggi interi. Tutte cose che confermava la truppa indigena del regio esercito trattata a curbasciate fino al 1940, anche se le frustate erano state formalmente proibite nel 1905.
Molto civilmente, all’assedio di Makallè, Ras Mekonnen aveva chiesto a Galliano d’inviargli un medico per curare Ras Athieim che era caduto da cavallo. Quello restò stupito, ma gli mandò l’ufficiale medico Mozzetti, che, rientrato al forte raccontava ai compagni più stupito che costernato di aver incontrato tra i ras non “gente barbara”, ma gente di maniere aristocratiche, cortesi, scaltri, ospitali che “fanno domande imbarazzanti e danno risposte finissime”.[3]
E vedremo poi cosa diranno delle civili maniere etiopiche i 1.500 italiani presi prigionieri ad Adua. Un altro episodio che testimonia dell’ignoranza unita a spocchia lo racconta il tenente Raimondi, nel trasferimento del battaglione di Makallè verso le linee italiane.
“Il balambaras Emanuel, che parla bene il francese per aver lavorato parecchi anni a Marsiglia e che per questo motivo ha un’infarinatura di civiltà e sa all’ingrosso qualcosa della nostra storia, ci parlò di Vittorio Emanuele e di Garibaldi per arrivare alle conclusioni che l’Etiopia aveva mosso guerra per conservare la sua indipendenza, come l’avevano fatto all’Austria questi nostri grandi guerrieri per l’indipendenza italiana”. Si limita a trascrivere le parole dell’altro perché gli sembravano curiose, incredibili grottesche. Ma come si permetteva un negro di parlare di indipendenza e di patria. Che coraggio![4]
Se nulla sapevano della storia del paese che andavano a civilizzare, se possibile ancor meno sapevano gli ufficiali italiani, ma anche lo Stato Maggiore e il governo, della sua storia militare, che sarebbe il primo dovere di chi si accinge a lanciare una qualsivoglia azione militare contro qualsivoglia nemico.
È un fatto, ad esempio, che a Makallè e, a un certo punto dello scontro anche ad Adua, l’artiglieria etiope fu superiore a quella italiana. Molte cose avevano imparato gli etiopici dai precedenti scontri con gli eserciti europei. Nella battaglia di Magdala (1868) ad esempio le raffiche britanniche dei fucili a retrocarica avevano messo in fuga gli etiopici dell’Imperatore Teodoro II in una battaglia conclusasi con la sua morte e la conquista inglese della capitale.
Da allora il successore Giovanni II aveva riorganizzato e riarmato l’esercito ottenendo vittorie su una quantità di nemici: i dervisci del Sudan, ma anche consistenti eserciti egiziani (nel 1875-1876) che pure erano comandati da veterani della guerra civile americana e da mercenari europei. Sconfitti, gli egiziani avevano lasciato agli etiopi i fucili Remington, l’artiglieria Krupp e le mitragliatrici Gatling che gli italiani si trovarono di fronte a Dogali nel 1887 e poi a Adua.
La Russia aveva inviato in Etiopia una missione militare guidata da Alexander Leontiev che però raggiunse Menelik II solo dopo la battaglia mentre il primo battaglione di difesa nazionale etiopico fu presentato all’imperatore solo nel 1899.
Lo storico militare Bruce Vandervert sostiene che ad Adua combatterono circa 100.000 soldati etiopi di cui almeno 70.000 armati di fucile a ripetizione e gli altri di armi tradizionali, lance, spade e scudi di pelle di bufalo. Gli etiopi schierarono anche mitragliatrici e furono gli unici africani ad adoperare artiglieria nelle guerre coloniali. Alcuni dei loro artiglieri erano stranieri, ma molti erano indigeni.
La debolezza maggiore dell’esercito etiope era di non essere sostenuto da un apparato industriale, ma era un esercito motivato, determinato, disciplinato e addestrato tanto alla guerra di guerriglia che alle imboscate, che alla guerra frontale. Non erano addestrati alla guerra di posizione, ma allora quasi nessun esercito bianco lo era, né alla guerra di assedio. Ed erano uomini e donne che marciavano scalzi per cinquanta sessanta chilometri al giorno, incredibilmente resistenti alla fatica, e alle privazioni.
Era sicuramente scadente, ma a livello di quella italiana, la logistica, supportata da schiere di servi, da famiglie a carico, da mandrie che non facilitavano la mobilità dell’esercito, di per sé molto grande.
All’esercito di Menelik II, Baratieri antico compagno di Crispi, oppose ad Adua 15.000 italiani e 3.000 ascari. Le perdite ammontarono a 3.000 italiani e 2.000 ascari, oltre a 954 italiani dispersi. L’esercito perse 11.000 fucili e tutti i suoi 56 pezzi di artiglieria.
Le perdite etiopi furono di 7.000 morti e pochi feriti. Migliaia furono gli europei presi prigionieri e sembra che il governo Crispi abbia pagato 10 milioni di lire per il loro rilascio. 800 ascari subirono il taglio della mano o di un piede. L’esercito di Baratieri subì una percentuale di perdite pari al 50% degli effettivi, superiore a quelle patite da Napoleone a Eylau, la più sanguinosa delle sue battaglie, mentre la percentuale di perdite subite a Waterloo non arrivò al 30%.
Civiltà etiopica
Se il confronto di civiltà caro agli intellettuali bianchi non fosse pura propaganda, il caso del trattamento degli italiani catturati ad Adua dovrebbe indurre a qualche riflessioni. Gli italiani presi prigionieri furono 1.900, oltre a un pari numero di Ascari, un numero elevato se paragonato al numero dei caduti; e questo contrariamente alle abitudini di sterminio proprie degli eserciti bianchi in tutte le guerre da loro chiamate coloniali
Tra gli ascari, 800 erano originari di quella parte di Etiopia che era stata invasa dagli italiani, il Tigray. Erano dunque a tutti gli effetti dei disertori passati al nemico e si erano resi corresponsabili delle distruzioni e dei saccheggi, incendi e uccisioni di cui si era macchiato l’esercito nemico nella loro stessa terra. Il fatto che fossero condannati al taglio della mano destra e del piede sinistro, per quanto crudele possa sembrare, non è più crudele e definitivo dell’impiccagione che sarebbe stata la loro punizione in altri eserciti
I millecento ascari dancali, somali e galla, che comunque erano pur sempre sudditi dell’imperatore di Etiopia, furono lasciati liberi.
I mille novecento prigionieri italiani seguirono invece l’esercito del Negus che in lunghissima colonna ripiegava da Adua verso Addis Abeba in attesa che gli italiani rispondessero alle loro proposte di pace. Gli etiopici avrebbero potuto inseguire gli italiani in territorio eritreo, dove il generale Baldissera, sostituto del poco combattivo Baratieri, aveva rinunciato alla difesa della colonia, pensando di trincerarsi nel porto di Massaua, ma questo inseguimento in profondità non era nei piani strategici di Menelik e la colonia fu salva. L’esercito etiopico viceversa intraprese una marcia di oltre due mesi attraverso territori desolati e impoveriti dal suo stesso precedente passaggio. Era rimasto completamente privo di scorte e vuoti erano i magazzini che Menelik aveva predisposto per la marcia d’avvicinamento alla frontiera.
Le fonti documentarie cui facciamo riferimento provengono dei resoconti di prigionieri italiani, quattro ufficiali e dieci sottufficiali, concordi nel mostrarsi esterrefatti dal buon trattamento – compatibilmente alla situazione generale, che gli italiani ricevettero dagli etiopici, sia dai soldati che dalla popolazione stremata; e concordi anche nel descrivere il comportamento irriconoscente, truffaldino e mascalzone che i loro compatrioti seppero invece mostrare in quell’occasione: ufficiali, sottoufficiali e soldati a partire dal loro generale Albertone, uno dei quattro comandanti del generale Baratieri, l’eroico garibaldino che si era comportato come uno Schettino qualsiasi e dalle dodici del giorno della battaglia e per le 48 ore successive era risultato irreperibile.
Albertone ebbe una cavalcatura e gli furono messi a disposizione degli attendenti etiopici che lui trattava con la consueta jattanza, a bastonate. I prigionieri furono affidati ciascuno a un proprio angelo custode. Quando cadevano a terra stremati, per centinaia di volte il soldato abissino che li assisteva li aiutò a rialzarsi: avanti verso Addis Abeba. Sono gli stessi ufficiali e soldati italiani a raccontarlo
La regina Taitù, la crudelissima e feroce Taitù della propaganda italiana, distribuiva agli italiani del pane ben cotto che per i negri non c’era; e questi spiegabilmente se ne risentivano.
A parte gli otto ufficiali medici, decine di altri italiani si erano improvvisati guaritori e vendevano pillole velenose per curare ogni specie di malattia (fango, erbe aromatiche e sterco). Vendevano impacchi per le ferite e per qualsiasi specie di malattia, sia ai soldati che ai civili.
Fingevano di curare qualsiasi malattia e ne approfittavano per rubare anche a casa di chi gentilmente li ospitava. Arrivò uno di loro nella casa dove era stata appena annunciato la morte in battaglia del figlio e fu la madre a interrompere la mesta veglia e soccorrere con acqua e cibo il soldato nemico.
Ignoranti e razzisti, i mille novecento prigionieri capirono subito l’antifona e cominciarono a trattare gli abissini come era nelle loro corde.
Qualcuno si fidanzò con le ragazze che accompagnavano il convoglio, qualcun altro più sbrigativamente ne abusò come “in colonia” si era abituati a fare con le negre.
Anche questo provocò rabbia e rimostranze tra quelli che teoricamente avrebbero dovuto essere i vincitori che venivano tenuti a freno dai loro capi, perché così voleva l’imperatore. E quando non c’era più niente da mangiare, la tenda dell’imperatore era l’ultima risorsa più per gli italiani che per i suoi stessi soldati. I quattordici italiani che hanno lasciato dei resoconti raccontano di attenzioni e premure, come di quel ras che fece omaggio a un ufficiale italiano di una coperta e di una trousse per la toilette personale.
Arrivati ad Addis Abeba, l’imperatore volle che i prigionieri italiani fossero distribuiti nelle case dei maggiorenti della città e dei dintorni e trattati come ospiti e il fatto che il padrone di casa cedesse loro l’unica branda, scusandosi se in casa non c’erano sufficienti comodità, non fu riconosciuto come cortesia e premura ma come diritto del bianco che, al solito, si permetteva di importunare le donne di casa e di maltrattare i suoi ospiti, cosa per la quale arrivarono all’imperatore molte lamentele.
Quando poi arrivarono dall’Italia abiti, cibo e soldi in discreta quantità da distribuire alla truppa, i prigionieri si fecero mercanti e non pensarono a ricambiare i favori ricevuti, ma a vendere.
Comprarono cavalli e affittarono case dove andarono a vivere in piccoli gruppi. Scrive uno di loro, il sergente Frassina, dopo che gli ex straccioni si erano rivestiti a nuovo e avevano le tasche piene di talleri: “Negli ultimi mesi, quelli passati nella capitale, la facevamo da padroni; e se gli indigeni erano malcontenti della nostra condotta, certo non lo erano dal lato finanziario, nonché essi avevano approfittato della nostra permanenza, per aumentare di più del doppio il costo di tutti i generi della piazza”. Con quale gioia degli abitanti di Addis Abeba si può immaginare.
Qualche piccola luce di comprensione si accese dopo mesi, anche in quegli animi poco sensibili di soldati razzisti e prepotenti e i rapporti tra abissini e italiani migliorarono col tempo, sia per la grande tolleranza dei primi, che per i ripensamenti dei secondi i quali si accorsero via via che i “neri” non erano soltanto remissivi e pietosi, ma erano esseri umani dotati di intelligenza e di sensibilità, di gusto: il che non mancava di destare tra loro il più grande stupore.
Parlando della sua guardiana, la giovane vedova Zandierù, il sergente Tedoni riferisce:
“Ad un tratto la donna si alzò e avvicinatasi ad una macchia di gelsomini, ne staccò un fiore e me lo porse dicendo ‘Guarda, è bianco come te, prendilo’. Confesso che caddi dalle nubi (sic), dinanzi a un atto così poetico e dovetti maggiormente ricredermi sul conto di questa donna, giacché fino a quel momento, non l’avrei ritenuta capace di un sentimento simile”.[5]
Albertone, generale prigioniero, si nominò furiere capo e provvide alla distribuzione del ben di dio arrivato da casa: tenute di tela e panno; biancheria, scarpe, caschi coloniali, marmitte, macchinette per i capelli, posate, sapone, sigari e sigarette, vini, liquori, carte da gioco. E talleri, che con 7 o 8 si poteva comprare un buon cavallo.
Il Trattato di pace si firmò in ottobre e l’Italia versò dieci milioni di lire a titolo di rimborso spese.
Dopo i primi 50 prigionieri rilasciati in luglio, oltre 200 furono rilasciati a novembre. Seguirono altri 1.373 tra dicembre e marzo.
Menelik II salutò ogni scaglione con un pranzo di addio. Il maggiore Gamerra ne ricordava con commozione e affetto per le parole gentili e quell’ultimo “Che non si dimenticassero di lui”, si raccomandò l’Imperatore. E un simile commiato affettuoso si ripeté un po’ dappertutto ad Addis Abeba, nella ricca dimora del ras o nel povero tucul.
Così scrisse il vecchio afa-negus alla madre del tenente Pàntano: “Come stai? Io grazie a dio sto bene. Il tuo figlio, il tenente Pàntano, dopo quattro giorni che fu fatto prigioniero capitò da me e l’imperatore me lo dette. Subito lo vestii di sciamma e camicia; lo feci montare sopra un mulo e con lui arrivai al mio paese. Perché non bevesse acqua gli feci bere del tegg; perché non mangiasse il pane asciutto gli diedi della carne. Un anno intero senza che soffrisse la fame e la sete un solo giorno: eccotelo. Per la clemenza di Dio e per la tua bontà feci questo e ti rimando tuo figlio. Che arrivi o non arrivi fino a te, lo sa Iddio. Se vi ritrovate in buona salute, fatemelo sapere. Di più, io mi condussi così perché il carattere di tuo figlio è buono e perché lo consideravo come fosse mio figlio”.[6]
Dopo Adua
Dopo Adua toccò agli imprevedibili studenti romani poi seguiti da altri di manifestare gridando Viva Menelik! e non era semplice goliardia perché a quel grido si associava Abbasso Crispi!
In Parlamento Crispi parlò, al solito, di “tradimento” senza specificare di chi e come. Re Umberto accettò le sue dimissioni, così come Vittorio Emanuele accetterà quelle di Mussolini a suo tempo e per di più lo fece arrestare.
È lo stile dei Savoia, buttare tutti a mare per salvare la dinastia. Nonostante la sconfitta palese e la ritirata imposta, la stampa crispina era ancora potentissima.[7] E comunque Crispi riceverà da Umberto una ricca liquidazione.
Il socialista Ferri criticando Di Rudinì che sostituì Crispi al governo disse in Parlamento: “Il governo precedente ha fatto la grande politica coloniale, voi fate quella a scartamento ridotto, mentre Carducci, D’Annunzio, Oriani, etc., cominciano a edificare il mito eroico di Adua”.
Andrea Costa era tornato ad affrontare Crispi dopo la sconfitta dell’Amba Alagi, quando Crispi aveva chiesto alla Camera venti milioni per tornare a occupare il Tigrè e battere Menelik.
“Sì, è un nuovo inganno e naturalmente dopo i primi venti milioni ne verranno altri venti e i seimila uomini diventeranno dieci, venti, quarantamila!”.
“In Africa noi applichiamo il sistema delle civiltà a bastonate”; “i socialisti non sono disposti a darvi né un uomo, né un soldo”. Costa rese omaggio ai caduti di Alagi, ma di entrambe le parti… agli scioani che hanno combattuto per la libertà e l’indipendenza del loro paese.
[1] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, dall’Unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori ,2009, pag. 247.
[2] Il maggiore Galliano disponeva di 21 ufficiali, 176 bianchi e 1.150 negri (v. A. Del Boca, Op. cit., pag. 621).
[3] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, dall’Unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori 2009, pag. 620.
[4] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, dall’Unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori, 2009, pag. 632.
[5] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, dall’Unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori, 2009, pag. 728.
[6] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, dall’Unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori ,2009, pag. 773.
[7] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, dall’Unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori ,2009, pag. 706.