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Cosa c’entra la Namibia con Gaza?

di Gianluca
Solera

Per quanto tempo dovremo ancora scrivere di una guerra che uccide a passo di danza, un passo indietro e due passi avanti, uno di lato ed uno in avanti? Che, come un tango macabro, conta gli edifici distrutti e le vite annientate a centinaia sulle note di una folle melodia?

Anche nelle ore successive alla sentenza provvisoria della Corte di Giustizia Internazionale, che intimava al governo di Gerusalemme di prendere immediatamente sei misure preventive per ridurre il rischio di genocidio, tra cui le misure necessarie ad evitare l’uccisione di Palestinesi, o la deliberata imposizione di condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale[1], a Gaza sono stati uccisi dalle bombe più di trecento civili. E così è continuato questo stillicidio di vite umane a ritmi sostenuti, come se non ci fosse stata nessuna sentenza[2]. Un passo indietro e due avanti, verso la vendetta. Poi, una compagine di stati occidentali, tra cui l’Italia, poche ore dopo la sentenza, ha preso la decisione straordinaria di congelare i fondi di UNWRA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, in attesa della conclusione delle indagini sul presunto coinvolgimento di dodici dipendenti dell’Agenzia negli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023. L’indagine UNWRA è necessaria ed è in corso, ma per una dozzina di mele marce, viene minacciata di inattività la struttura che maggiormente contribuisce ad alleviare le sofferenze quotidiane degli abitanti della Striscia di Gaza, e che impiega in quel pezzo di terra tredicimila dipendenti[3]. La tempistica dell’azione fa sorgere sospetti. Sviare l’attenzione pubblica dalle risoluzioni della Corte dell’Aja? Lanciare un messaggio contro l’ostinazione dell’ONU nella difesa dei diritti umani?

Non si evocano sui mezzi di informazione misure sospensive simili nei confronti di Israele, con cui gli stessi Paesi che si annoverano in quella compagine hanno numerosi accordi di cooperazione, a titolo bilaterale o multilaterale, come l’accordo di associazione con l’Unione europea. Solamente la piccola Irlanda, che per secoli conobbe il giogo britannico, e che non fa parte di quella compagine, ha assunto una posizione diversa, chiedendo agli altri governi europei di rivedere quest’ultimo accordo[4]; senza esito, per ora. Ancora, un altro passo di danza di lato ed uno in avanti verso il raggiungimento degli obiettivi della guerra?

Eppure, la distruzione fisica non ha precedenti, e sono rispettate testate internazionali a misurarne lo spessore. Il New York Times parla di interi quartieri rasi al suolo attraverso la cosiddetta politica delle demolizioni controllate. Almeno la metà degli edifici della Striscia sono stati danneggiati o distrutti dall’inizio della guerra, secondo le stime delle analisi satellitari. Sebbene la maggior parte dei danni sia dovuta agli attacchi aerei e ai combattimenti, le demolizioni controllate rappresentano alcuni degli episodi più distruttivi[5]Le Monde ha invece contato il numero di cimiteri danneggiati, profanati o completamente distrutti durante le operazioni militari nella Striscia: sono 22 su 45[6]. Neanche i morti, insomma, sfuggono alla morte. Di nuovo, un altro passo di danza in avanti, e poi un altro ancora, verso la rimozione della memoria e delle condizioni di abitabilità.

Esiste una parola che racchiuda e giustifichi questa danza senza pietà? Se questa esiste, non può che essere la parola “colonialismo”. Un colonialismo non più fatto di schiavitù e possesso materiale di intere nazioni, ma fatto di prepotenza e doppie misure, di giustificazioni storiche e securitarie, insomma di senso di superiorità e necessità.

Ho trovato quantomeno curioso, ma sicuramente illuminante, la presa di posizione della Namibia, un paese solitamente assente da cronache e analisi internazionali. Durante le udienze processuali della Corte dell’Aja sulla petizione sudafricana per crimini di genocidio contro Israele, il governo tedesco ha preso la difesa di quest’ultimo, e la Namibia è salita alla ribalta delle cronache. Il suo presidente Hage Geingob ha chiesto alla Germania di riconsiderare la sua decisione di intervenire come parte terza in difesa di Israele, argomentando che Berlino, moralmente, non può esprimere la sua adesione alla Convenzione ONU contro il genocidio e allo stesso tempo difendere nelle aule Israele[7].

Ora, che cosa c’entra la Namibia con il Medio Oriente, si chiederanno i lettori? Beh, c’entra eccome, perché i coloni tedeschi massacrarono più di settantamila Herero e Nama tra il 1904 e il 1908 in quello che viene considerato il primo genocidio del Ventesimo secolo. Nel 2021, il governo di Berlino riconobbe che la Germania aveva commesso un genocidio in Namibia, ma per molti namibiani, i discendenti degli autori di quei crimini non gli hanno ancora pienamente “espiati”, e solo un atteggiamento di “solidarietà coloniale” poteva spingere quei discendenti a difendere pratiche militari altrui quantomeno sospette di generare un genocidio.

In realtà, non vi volevo parlare dell’Aja, ma della Namibia. Quella che era l’Africa del Sud-Ovest restò sotto occupazione tedesca dal 1884 al 1915. Il genocidio fu perpetrato per reprimere una ribellione e si stima che i 4/5 di quelle popolazioni venne eliminato. Secondo la Namibian Genocide Association, il riconoscimento tedesco di tre anni fa e l’offerta di compensazioni tramite investimenti allo sviluppo non sono però sufficienti. Non si tratta solo di riparare a un eccidio di massa con investimenti, ma anche di riportare giustizia tra coloro che hanno perduto le loro terre ancestrali, ora nelle mani della comunità germanofona, che rappresenta meno dell’1% della popolazione namibiana[8]. Ad oggi, i namibiani stanno ancora aspettando.

Conosco la Namibia, che visitai in lungo e in largo per un mese, circa vent’anni fa. Ho conosciuto la bellezza selvaggia dei suoi immensi paesaggi, che ti rendevano minuscolo, ma anche l’orgoglio della gente, e soprattutto ho toccato con mano le cicatrici del colonialismo e le ferite ancora aperte nella sua società. Windhoek, con quelle sue folate spaventose di vento che spazza via passato e presente, mi aveva accolto nelle prime ore del mio viaggio; ma fu nel profondo sud, a Swakopmünd in particolare, che mi resi conto della presenza diffusa di segni del dominio coloniale e di una certa nostalgia coloniale. Dalla reverenza con cui i dipendenti neri trattavano il padrone bianco negli esercizi alberghieri, ai negozi di simboli dell’impero prussiano e del Terzo Reich. Dalla toponomastica dei centri abitati principali, alle alte reti elettrificate che proteggevano le proprietà della comunità germanofona, evocando immagini di luoghi molto più sinistri. Era solo lontano dal centrocittà che respirava a pieni polmoni l’anima nera e indigena del Paese. Quell’anima nera e indigena, che si ritrova anche nei quartieri popolari di Johannesburg, e che viene rappresentata così precisamente nel museo dell’Apartheid della stessa città[9], spiega perché quei Paesi abbiano avuto il coraggio di rompere il silenzio e di sollecitare la Corte di Giustizia Internazionale ad esprimersi su quello che sta succedendo a Gaza. Non sono stati né i Paesi arabi, né i Paesi musulmani, né tantomeno quelli occidentali a prendere l’iniziativa legale, ma i neri che hanno conosciuto in tutte le sue manifestazioni più brutali il colonialismo europeo.

Anche lo Stato di Israele è nato in seguito ad un progetto coloniale, quello di dare una patria al popolo ebraico. Anche la Palestina è passata di mano in mano nel corso dei secoli, durante i quali si sono succeduti regimi diversi, la maggioranza dei quali arrivati da terre lontane. È questo nostro passato coloniale che ci impedisce di vedere il legame tra gli orribili crimini del 7 ottobre 2023 e la nakba[10], tra la vocazione al martirio di intere generazioni di palestinesi e il furto quotidiano delle loro terre; ma anche tra la barbarie della macchina di distruzione di Gaza da parte della Tsahal e la comodità delle prese di posizione tattiche di molte cancellerie occidentali. Siamo tutti un poco figli di secoli di relazioni asimmetriche, di pregiudizi razziali e dei benefici dello sfruttamento delle risorse di terre lontane – che lo vogliamo o no – e quanto succede in Palestina non è che l’esito di una deflagrazione causata da una miscela esplosiva di orientalismo, colpe storiche e orgoglio coloniale.

Non mi stancherò tuttavia di ripeterlo: sono ebrei e palestinesi uniti contro i crimini del passato e quelli del presente a rappresentare l’unica speranza di riscatto nella regione. La soluzione non verrà da paesi che hanno fomentato il colonialismo per secoli, non almeno in questa fase, in cui ancora si fa fatica a riconoscere i crimini del proprio passato coloniale e il diritto ad autodeterminarsi di nazioni senza stato. Ebrei e palestinesi uniti contro i crimini del passato e quelli del presente dovranno fare come e imparare da quei paesi africani che hanno percorso la via dell’autodeterminazione nella sofferenza di una difficile riconciliazione, e lo dovranno fare senza guardare in faccia nessuno. Vedo questa speranza nei movimenti bi-nazionali tra arabi ed ebrei che sono sorti negli ultimi due decenni, da Combatants for Peace a Ta’ayyush[11], a Standing Together. Sono movimenti sovente osteggiati e considerati traditori dall’una o dall’altra parte, e questo dà l’idea della difficoltà di un’impresa sociale, politica e culturale necessaria, ma malvista da molti. Forse in altre parti del mondo non è così, ma certamente lo è in questo momento in Palestina. La pace si costruisce negoziando con il cosiddetto “nemico” e riconoscendo il suo diritto ad esistere – non cercando di distruggerlo. Ce lo hanno insegnato gli africani.

Un passo avanti e due passi indietro, è tempo di cambiare il ritmo di questa danza macabra che porta alla distruzione. Dovremmo rendercene conto, anche in Occidente, fare un passo indietro per davvero, fermarci, rinunciare a dichiarazioni che non portano a nulla, chiamare i crimini per quello che sono, e smettere di vestire i panni del colono.

Gianluca Solera

[1] Il testo della sentenza, promulgata il 26/1/2024, è accessibile sul sito della Corte.

[2] “Two days after ICJ ruling, Euro-Med Monitor says Israel has maintained its rate of killing in Gaza”, ReliefWeb, 29/1/2024.

[3] “UNWRA’s lifesaving aid may end due to funding suspension”, UNWRA, 27/1/2024.

[4] Dispaccio Reuters, dell’1/2/2024.

[5] Vedasi il reportage pubblicato dal New York Times l’1/2/2024.

[6] “Enquête vidéo : comment Israël détruit les cimetières de Gaza”, Le Monde, 29/1/2024.

[7] Comunicato della Presidenza della Namibia del 13/1/2024. Vedi Facebook.

[8] Cfr. ” Germany officially recognises colonial-era Namibia genocide”, BBC, 28/5/2021.

[9] Cfr. il sito del museo.

[10] Significa “catastrofe” in arabo, e con essa viene indicato l’esodo dei palestinesi dai territori occupati dalle forze ebraiche durante il conflitto che portò alla creazione dello stato di Israele nel maggio del 1948, e nei mesi successivi ad essa.

[11] “Coesistenza” in arabo.

 

 

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