articoli

La sinistra siriana e il regime del Baath prima della caduta

di Franco
Ferrari

Il crollo repentino del regime siriano guidato da Bashar al-Assad, fuggito a Mosca con la famiglia, ha indubbiamente rappresentato una sorpresa per molti, sostenitori od oppositori che fossero. Questo è avvenuto dopo che sembrava essere fallito il tentativo delle diverse organizzazioni armate che si erano costituite a seguito della rivolta popolare iniziata nel 2011 di abbatterlo. La Siria stava lentamente rientrando nell’ambito degli organismi sovranazionali dei paesi arabi e si apriva la possibilità di qualche ripresa di contatto anche con alcuni Stati europei. Questa era una delle condizioni necessarie per attenuare l’impatto economico e sociale delle sanzioni.

Un regime che sembrava ancora militarmente forte si è dissolto in pochi giorni a fronte di milizie che, per quanto attivamente sostenute dalla Turchia, risultavano disporre di uomini e mezzi decisamente inferiori a quelli del governo di Damasco. Il crollo del regime baathista risulta essere un’altra conseguenza dell’azione compiuta il 7 ottobre del 2023 dalle milizie di Hamas sul territorio israeliano. Tutto il cosiddetto “fronte della resistenza”, anti-israeliano e anti-occidentale, guidato da forze islamiste di vario orientamento (e di diversa affiliazione religiosa) si trova oggi in grande difficoltà, mentre Israele può spadroneggiare liberamente sia sui territori palestinesi occupati sia sui paesi vicini.

In questa coalizione la Siria era l’unico anello ad essere controllato da una forza politica che si dichiarava ideologicamente laica e seppur sempre più flebilmente “socialista”. Il partito Baath, formalmente partito al potere sotto la guida di Bashar al-Assad, ha una lunga storia che risale agli anni ’40 e ha subito nel tempo contrastanti evoluzioni. Sorto come formazione nazionalista araba orientata verso una unità che superasse le divisioni nazionali in parte imposte dalle potenze coloniali, ha poi assunto una certa coloritura socialista e in alcuni settori intellettuali anche una effettiva adesione al marxismo. Questi sono però sempre stati minoritari dato che l’ideologia fondamentale baathista ha sempre visto nel comunismo un nemico estraneo alla identità araba e ha giudicato con ostilità la concezione classista della società e della storia, considerata una minaccia alla unità nazionale. Un atteggiamento tipico delle ideologie nazionaliste che tendono ad assumere una base etnica (si veda l’involuzione in senso sempre più reazionario e razzista del sionismo).

Nel 1970 all’interno del Baath ha preso il potere Hafez al-Assad che lo ha mantenuto sino alla morte per poi passarlo, con una concezione dinastica della sovranità, al figlio Bashar che era subentrato al fratello, inizialmente designato ma scomparso in un incidente. Al-Assad aveva sconfitto il settore più radicale ed apertamente socialista del Baath, rappresentando quindi un allineamento a destra interno a quello stesso partito. Inoltre affermava la prevalenza dell’interesse nazionale siriano rispetto ad un’ideologia che faceva del partito una formazione sovranazionale organizzata in tutto il mondo arabo. Ciò portò alla rottura con il Baath iracheno, dominato da Saddam Hussein, che pur facendosi interprete della dimensione araba del partito, anch’egli di fatto lo piegava alla propria visione dell’interesse nazionale.

Il Baath siriano è stato caratterizzato fino alla fine degli anni ’80 dalla combinazione di un modello di sviluppo economico fondato su una presenza significativa dello Stato (la dimensione “socialista”) con la retorica pan-araba e antimperialista. Il tutto però sempre adattato ad operazioni politiche spesso spregiudicate condotte, con indubbia abilità, da Hafez al-Assad. La difesa della causa palestinese poteva andare di pari passo con azioni militari ostili nei confronti dei movimenti palestinesi maggioritari, fino al massacro di Tall el-Zaatar, e alla costruzione di organizzazioni alternative al Fatah, direttamente controllate dal regime di Damasco. In Libano, le truppe siriane, intervennero nella guerra civile a sostegno della destra maronita contro la sinistra che aveva la sua base sociale prevalentemente tra le comunità di religione musulmana (sciiti, drusi, ecc.). In questi giorni in Libano hanno festeggiato la caduta di al-Assad sia i sostenitori drusi del Partito Socialista Progressista che i residui seguaci del Baath pro- Saddam Hussein.

All’interno, il regime del Baath svolgeva certamente una funzione di promozione sociale di settori emarginati e offriva una minima garanzia di servizi pubblici per tutti, ma questo andava di pari passo con una visione sempre più autoritaria del potere, un uso indiscriminato della violenza contro qualsiasi forma di dissenso, anche quello più innocuo, e un crescente peso dei settori addetti alla repressione interna.

Con la caduta dell’Unione Sovietica e il generale spostamento a destra del clima ideologico globale, il regime ha cercato di adattarsi con una relativa liberalizzazione economica. Questa però non ha prodotto un rafforzamento economico ma semplicemente la nascita di una nuova grande borghesia i cui interessi erano strettamente intrecciati a quelli del regime. Con la successione di Bashar al padre, all’inizio del nuovo millennio, vi fu un breve periodo di liberalizzazione politica da cui nacque quella che fu definita come la “primavera di Damasco”. Si trattò di un breve interludio nel quale poterono operare pubblicamente gruppi intellettuali e politici critici nei confronti del regime e nel quale la sinistra ebbe un certo ruolo.

Il regime però torno rapidamente sui suoi passi, riprendendo ad applicare gli usuali strumenti repressivi (lunghe pene di carcere, tortura, scomparsa di oppositori o anche di semplici cittadini malcontenti). Contemporaneamente però si facevano sentire gli effetti negativi delle politiche di liberalizzazione economica. Nel 2011, per effetto delle cosiddette “primavere arabe”, è scoppiata una rivolta popolare favorita anche dalla inutile e stupida brutalità delle autorità di polizia del regime. Ad una fase prevalentemente pacifica della rivolta è poi seguito rapidamente un conflitto violento alimentato all’interno dal prevalere delle tendenze islamiste radicali (“jihadiste”) e dall’esterno dall’intervento sempre più diretto delle potenze esterne alla Siria, ognuna con una propria agenda e con propri interessi.

La natura del regime baathista e della rivolta scoppiata nel 2011 hanno posto le forze comuniste e di sinistra siriane di fronte a scelte contrastanti che le hanno profondamente divise. Non è questa la sede per una disamina dettagliata e quindi mi limiterò a qualche rapido cenno storico.

In senso lato come “sinistra” in Siria si è inteso lo stesso Baath come formazioni politiche di ispirazione nasseriana e di “socialismo arabo” di diversa ispirazione da quella dominante nel regime. Un certo peso ha avuto, nonostante i frequenti periodi di repressione che l’hanno colpito, il comunismo siriano. Nel 1954 Khalid Bakdash, diventava il primo parlamentare comunista eletto in un Paese arabo.

Fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, il Partito Comunista Siriano, che aveva rapporti complicati ma non del tutto ostili col potere baathista, fu attraversato da una profonda divisione che portò ad una scissione. La componente guidata da Bakdash restava decisamente allineata con le posizioni ideologiche e politiche del Partito comunista sovietico, mentre l’altra fazione, guidata da Ryad al-Turk ne rimetteva in discussione alcuni fondamenti, pur senza cercare la rottura aperta. Tra gli altri elementi la fazione di al-Turk auspicava la formazione di un unico partito arabo e contrastava il riconoscimento all’esistenza dello Stato di Israele. All’interno, tra le due componenti del comunismo siriano, si andava divaricando anche il giudizio verso il regime baathista.

Nel 1972 veniva costituito il Fronte Nazionale Progressista, dominato dal Baath, nel quale potevano operare con molti limiti, anche altre formazioni politiche, e al quale aderì il Partito Comunista Siriano di Bakdash. Il PCS poté così essere rappresentato in Parlamento e in diverse occasioni anche a livello governativo.

La fazione di Ryad al-Turk si schierò invece su una linea di aperta opposizione al regime da cui subì una violenta repressione. Lo stesso leader è stato incarcerato per vent’anni, mentre il partito, noto come Partito Comunista Siriano (Ufficio Politico) ha dovuto operare nella clandestinità o in esilio. Questa corrente del comunismo siriano ha partecipato a vari raggruppamenti dell’opposizione, inclusi quelli che comprendevano i Fratelli Musulmani, e nel 2005 ha cambiato nome, abbandonando il riferimento al comunismo e trasformandosi in una formazione socialdemocratica. Ha assunto il nome di Partito Democratico Popolare e ha fatto parte del principale raggruppamento dell’opposizione, il Consiglio nazionale siriano, a cui ha anche fornito per un certo periodo, il presidente nella figura di George Sabra. Il Partito Democratico Popolare ha avanzato l’idea che il sostegno militare esterno fosse comunque utile alla causa dell’abbattimento del regime e che in un secondo momento si sarebbe potuta restaurare la sovranità nazionale. Il Partito è attivo e ha salutato la caduta del regime, ma è difficile dire quale sia il suo peso reale all’interno del Paese.

Una minoranza della formazione di Ryad al-Turk, scomparso nel gennaio del 2024, ha rifiutato la svolta socialdemocratica e ha mantenuto in vita una propria organizzazione col vecchio nome di Partito Comunista Siriano (Ufficio Politico). Questo gruppo è stato attivo nella formazione di un coordinamento di forze politiche prevalentemente orientate a sinistra, il Comitato nazionale di coordinamento per il cambiamento democratico in Siria (CNB). Il CNB ha sostenuto la rivolta anti-regime ma sottolineando due elementi: la natura prevalentemente pacifica della stessa e il rifiuto di ogni forma di settarismo etnico e tribale. Inoltre ha avversato l’idea di un intervento militare esterno a sostegno della ribellione.

Il CNB ha cercato di inglobare settori islamici democratici in opposizione a quelli jihadisti e ai Fratelli Musulmani e ha mantenuto rapporti con le formazioni politiche della minoranza curda. Questo coordinamento si è scontrato con due difficoltà: il mancato sostegno finanziario sia delle potenze occidentali che degli altri paesi arabi evidentemente ostili alle posizioni ideologiche prevalenti al suo interno e il problema di come rendere accettabile un profilo di sinistra in un contesto nel quale lo stesso potere viene identificato come di “sinistra”.

Altre formazioni politiche che si dichiarano marxiste o di sinistra hanno partecipato alla ribellione, in qualche caso anche nella sua dimensione militare, ma il peso di questi gruppi sembra essere piuttosto marginale. Ci sono piccole formazioni influenzate o con contatti con le varie “internazionali” trotskiste come la “Sinistra rivoluzionaria” e il “Partito della sinistra democratica”.

L’altra componente del comunismo siriano, quella che nella scissione dei primi anni ’70 era rimasta sotto la guida di Bakhdash ed era alleata del Baath all’interno del Fronte nazionale progressista ha subito anch’essa una complessa evoluzione.

Nella seconda metà degli anni ’80, sotto l’influenza della perestrojka, il Partito Comunista Siriano ha attraversato un’ulteriore scissione. Una fazione è stata guidata da Bakhdash fino alla morte, dopo di che la segreteria generale del partito è stata assunta dalla vedova e alla morte di questa dal figlio Ammar. Questa organizzazione ha continuato a sostenere il regime, pur criticandone le politiche di liberalizzazione economica. Sul piano ideologico ha assunto un rigido dogmatismo stalinista e ha anche diffuso una interpretazione apertamente antisemita del conflitto arabo-israeliano. Al momento non mi risultano prese di posizione pubbliche relative ai recenti avvenimenti, dato che questo partito da diversi anni non dispone di un sito web e le sue dichiarazioni venivano diffuse soprattutto da formazioni comuniste affini di altri paesi. La sua interpretazione del conflitto interno alla Siria era vista come scontro tra imperialismo e antimperialismo, piuttosto che come sorgente dai problemi sociali e politici derivanti dalle politiche del regime (con la parziale eccezione delle politiche economiche).

La corrente guidata al momento della scissione da Yusuf Fayçal, che ha poi assunto il nome di Partito Comunista Siriano Unificato, ha mantenuto una politica di alleanza col Baath e di sostegno alla guida di Bashar al-Assad ma ha operato una relativa revisione ideologica a seguito del crollo dell’Unione Sovietica e ha dato una lettura più articolata delle ragioni della rivolta, almeno nella sua fase iniziale. È ancora operativo in questi giorni, tant’è che ha pubblicato dei comunicati sul suo sito web, in data 10 dicembre, dopo la fuga di al-Assad. Dichiaratamente molto prudenti, dato l’evolversi incerto della situazione, ha concentrato l’attenzione soprattutto sulla necessità di evitare lo sprofondare della Siria nel caos. Un segnale interessante è che a maggio il Partito aveva tenuto una assemblea a Idlib, indicazione che ha potuto operare anche nella zona già controllata dalle forze che ora sono entrate a Damasco.

Un’ulteriore spezzone del movimento comunista, che si è collocato in una posizione intermedia tra le due formazioni partecipanti al Fronte nazionale progressista e l’opposizione, è costituito dal Partito della Volontà Popolare. Questo è stato formato da Qadri Jamil, uno dei principali dirigenti della fazione controllata dalla famiglia Bakhdash, dalla quale è stato espulso nel 2000 insieme all’80% dei membri dell’organizzazione di Damasco. Il partito, dopo un breve periodo di partecipazione di Jamil al governo, ha cercato di operare come opposizione legale auspicando un cambiamento pacifico. Jamil ha sempre mantenuto stretti rapporti con l’amministrazione russa di cui a volte è sembrato essere un portavoce ufficioso. Ha dato vita ad una propria coalizione di oppositori denominata “Piattaforma di Mosca dell’Opposizione Siriana” perché costituita nella capitale russa. Nelle elezioni del 2014 presentò un candidato alle elezioni presidenziali che ottenne il 3,33% pari a 372.301 voti. Difficile anche in questo caso valutare la sua consistenza attuale.

Il panorama così rapidamente delineato lascia da parte un altro soggetto politico importante che richiede però un esame specifico, ovvero il Partito dell’Unione Democratica che organizza i curdi che si riconoscono nelle tesi del fondatore del PKK. L’importanza di questo partito, che anima le forze militari che difendono il Rojava e il nord est della Siria, dove ha conquistato una propria autonomia, nei futuri equilibri siriani è indubbia. In queste ore la zona autonoma, in particolare la città di Manbij che si trova a ovest dell’Eufrate, è sottoposta agli attacchi delle milizie finanziate e inquadrate dalla Turchia, paese che sembra avere un ruolo rilevante nella Siria del dopo-Assad. Per la minoranza curda la caduta del regime può rappresentare un’opportunità ma anche presentare molti rischi, data l’influenza turca. E al momento questi ultimi sembrano prevalere sulle prime.

Franco Ferrari

 

 

Siria
Articolo precedente
Pira nella Piana, un’altra strage di lavoro in Toscana
Articolo successivo
La storia non siamo noi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.