Riprendendo qualche riflessione già esposta su questo sito vorrei sottolineare la necessità, per la “sinistra radicale” (termine utilizzato prioritariamente dai politologi, ma che è possibile anche definire come “sinistra d’alternativa” o “sinistra di trasformazione”), di affinare il dibattito sulle questioni di strategia. In altri termini si tratta di rendere più chiaro quello negli Stati Uniti viene spesso definito come il “grande disegno” o, per riprendere una definizione che è andata di moda qualche decennio fa, una “grande narrazione”.
Ciò si rende necessario per evitare di restare rinchiusi nella contingenza politica o in scelte necessarie ma che rischiano di apparire di corto respiro. Solo la capacità di definire grandi obbiettivi e contemporaneamente il modo per raggiungerli può davvero consentire di creare un’ampia mobilitazione sociale, senza la quale anche gli episodici successi elettorali che la sinistra radicale ottiene in varie parti d’Europa rischiano di restare eventi isolati ed accidentali.
Definire una strategia o un “grande disegno” implica rispondere a tre domande di fondo: che cosa?, come?, con chi?
Le risposte che si danno a questi interrogativi consentono di definire complessivamente un “paradigma”, ovvero una serie di elementi fondamentali collegati tra loro. Nella storia del movimento operaio è andata di pari passo l’elaborazione di raffinate interpretazioni teoriche e analisi della realtà (ovviamente anche con una certa quota di inutili bizantinismi e di rigidità dogmatiche) insieme alla capacità di comunicare delle idee di fondo in modo semplice anche a chi non aveva gli strumenti di istruzione formale per seguire il livello più teorico del dibattito. E la volontà delle grandi organizzazioni che hanno avuto una base di massa è stata sempre quello di collegare il livello di dibattito degli intellettuali con la più vasta comprensione accessibile ai ceti popolari.
Il paradigma “classico”
Tra l’800 e il ‘900 si è andato consolidando quello che possiamo chiamare il “paradigma classico” che delineava il “grande disegno” nel seguente modo:
- Il che cosa veniva definito attraverso il superamento della società capitalistica e l’instaurazione di una società basata su un diverso modo di produzione che veniva configurato come socialista o comunista (in qualche caso intendendo il “socialismo” come una fase intermedia e necessaria tra capitalismo e comunismo). Il contenuto principale di questa rottura sociale era identificato nella socializzazione del controllo dei grandi mezzi di produzione e nel contestuale superamento dello sfruttamento del lavoro umano (o per meglio dire della forza-lavoro). Sfruttamento inteso non in termini morali ma come relazione inevitabile all’interno del meccanismo fondamentale di funzionamento del rapporto tra capitale e lavoro nel capitalismo.
- Il come veniva indicato principalmente nella conquista del potere politico, anche se poi le modalità di conquista del potere e le forme del suo esercizio si sono andate differenziando tra forme più gradualistiche e altre basate sull’idea di un evento traumatico e radicale basato in misura più o meno grande sul ricorso alla violenza.
- Il con chi poteva essere individuato mettendo in collegando due ambiti paralleli. Da un lato il partito politico (che fosse di massa, di quadri, politico-militare ecc.) dall’altro la classe operaia, intendendo principalmente gli operai della grande fabbrica (che poi è stata definita come “fordista”). Partendo dal ruolo centrale della classe operaia si è poi posto il problema di una più ampia coalizione sociale nella quale volta per volta, a seconda delle realtà nazionali e del periodo storico, si sono inseriti i contadini, i ceti medi, i nuovi tecnici, ecc.
Questo paradigma ha avuto un lungo periodo di crisi che può essere inquadrato in una fase storica che va dagli anni ’60 alla cesura introdotta dal crollo dell’Unione Sovietica. Negli anni ’60 la crisi ha avuto un ruolo di correzione ed espansione del paradigma che si è presentata anche come opportunità di cambiamento, acquisendo nuove forme d’azione politica e nuovi orizzonti culturali oltre che una critica sostanziale agli elementi burocratici ed autoritari che si erano determinati con l’involuzione dello stesso paradigma “classico”.
La grande cesura
La cesura della fine degli anni ’80-inizio anni ’90 ha rimesso in discussione l’intero paradigma aprendo la strada ad una serie di revisioni e ripensamenti di tutti i suoi elementi fondamentali.
L’idea che la finalità (il che cosa) si dovesse prefigurare in termini di mutamento della struttura sociale fondamentale (modo di produzione, formazione economico-sociale, ecc.) è stato per alcuni superato in un indefinito processo di cambiamento o nell’obbiettivo di una progressiva democratizzazione radicale delle diverse sfere della società. Per altri si è provato a delineare un diverso profilo della nuova società alla quale si aspira, tenendo conto della valutazione critica delle esperienze storiche che erano crollate. Si è quindi provato a delineare un “ecosocialismo” oppure un “socialismo del XXI secolo”, ecc. In qualche caso si sono adottate formule più generiche come quella latinoamericana del “buen vivir”.
Per quanto riguarda il “come” si sono confrontati vari indirizzi. Sulla base dell’esperienza zapatista, in particolare, vi è stato chi ha messo in discussione l’idea di fondo della necessità di una qualche forma di “presa del potere politico” identificato fondamentalmente con il ruolo dello Stato. È il caso di John Holloway e la sua ipotesi di “fare la rivoluzione senza prendere il potere”. In realtà le forze politiche prevalenti si sono poste il tema della conquista di quella parte di potere che si identifica con il governo, come è avvenuto in particolare in America latina. Ma anche l’esperienza spagnola di Podemos si è posta decisamente sul terreno elettorale come condizione indispensabile per mutare le relazioni sociali nella direzione voluta da un movimento di massa antisistema come quello degli “indignados”. Tutte le principali esperienze (ad esempio quella greca di Syriza) hanno posto il problema di quanto sia possibile porre in atto dei cambiamenti radicali, anche se in una prospettiva che resta non rivoluzionaria ma piuttosto di “riforme radicali”, nel contesto dato dai rapporti di forza determinati dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione del capitalismo.
Anche nella definizione del “con chi” si sono fatti avanti nuove ipotesi e nuovi tentativi. Dall’idea fondamentale del “partito” si è passati a quella dello “strumento politico” intendendo sotto tale formulazione più generica una serie molto variegata di forme organizzative. Oltre al partito politico tradizionale sono emersi vari tipi di fronti politici, alcuni basati su coalizioni di partiti (com’è stato il Front de Gauche in Francia e in un altro momento storico l’Unidad Popular cilena) altri su una presenza mista di forze politiche organizzate e di individui (come il Frente amplio uruguayano o Izquierda Unida in Spagna). Abbiamo poi i partiti-movimento o il “partito- gassoso”, come è stata definita la France Insoumise dallo stesso Melenchon.
Il ruolo del partito è stato messo in discussione, valorizzando al contempo i “nuovi movimenti sociali”, anche se l’importanza relativa dell’uno e degli altri è stava diversamente configurata nelle varie esperienze ed elaborazioni teoriche.
Si è inoltre rimessa in discussione la centralità della classe operaia industriale ma anche la stessa possibilità di fondare l’azione politica sulla base della identificazione con la collocazione socio-strutturale e produttiva. Questo anche per fare i conti non solo con il declino della grande fabbrica nella quale si concentravano decine di migliaia di lavoratori ma anche il progressivo “sfarinamento” delle identità.
I nuovi paradigmi
Registriamo quindi un ampio ventaglio di posizioni dalle quale derivano anche differenti ipotesi strategiche. Da questo insieme di idee ed esperienze si possono provare a focalizzare tre diversi paradigmi, dando per scontato evidentemente che nella realtà essi si possono trovare, nelle diverse concrete esperienze politiche, in modo molto più sfumato e intrecciato.
1. Il mosaico/coalizione arcobaleno
Questa ipotesi tiene conto di una proposta teorica avanzata da Mario Candeias della Fondazione Rosa Luxemburg, che vede nella metafora del mosaico (tanti piccoli elementi che messi insieme riescono a formare un disegno comprensibile) l’elemento caratterizzante per la sinistra nell’attuale fase storica. Ma anche di un’esperienza politica concreta, quella della coalizione arcobaleno costruita attorno alla candidatura nelle primarie democratiche degli Stati Uniti da Jesse Jackson.
L’elemento fondamentale del paradigma è la “mobilitazione delle identità” attorno ad una proposta politica moderatamente radicale. Nel dibattito della sinistra americana, in occasione delle primarie presidenziali democratiche alcuni intellettuali vicini ad Elizabeth Warren hanno criticato la posizione di Bernie Sanders, secondo il quale era possibile conquistare territori tradizionalmente egemonizzati dal Partito Repubblicano, grazie ad un’azione politica concentrata sui temi socio-economici. Per gli intellettuali pro-Warner questa era un’impostazione troppo marxista e sottovalutava il peso delle diverse identità nella collocazione politica. Era quindi più importante tenere insieme le aree tradizionalmente democratiche, anche se dislocate su diversi interessi socio-economici, piuttosto che tentare di pescare in aree nelle quali prevalgono altre identità (religiose, socio-culturali, di genere, etniche, ecc.)
Uno dei limiti di questo paradigma è che le diverse identità possono essere isolate e riassorbite dentro una proposta politica centrista (il progressismo neoliberale di cui parla Nancy Fraser) e private della loro carica trasformatrice.
2. Il populismo di sinistra
Una ipotesi strategica di cui si è parlato molto, almeno dall’ascesa di Podemos, è quella relativa al “populismo di sinistra”, i cui principali teorici sono stati Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Fondamentale in questa prospettiva è l’adozione della contrapposizione “amico-nemico” quale elemento fondamentale del conflitto politico, ispirata a Carl Schmitt ma depurata dalla logica di guerra (quindi non più finalizzata ad un esito distruttivo dello scontro) che è propria del teorico simpatizzante del nazismo.
Il punto di partenza è l’individuazione del nemico (ad es. “la casta”) in relazione al quale si definisce poi una potenziale coalizione alternativa. Questa non ha una base strutturale comune che la connoti né è necessariamente una somma di identità. Gli elementi di partenza possono essere diversi e vanno collegati attraverso una “catena di equivalenze” che a seconda delle specifiche contingenze possono essere diverse. È attraverso questa connessione che si può costituire un “popolo” il cui profilo è abbastanza arbitrario.
Lo strumento politico, in genere imperniato su una funzione forte del leader e ad una importante carica affettiva ed emozionale e non solo argomentativa e razionale, determina la costituzione del “popolo” collegando le varie richieste rimaste inevase dal sistema.
L’idea del conflitto bipolare si distingue da quella marxiana perché in quel caso si parte dalla connessione tra le contraddizione interne al sistema (che prevedono sempre un elemento di dinamica positiva) e la creazione di un soggetto sociale alternativo che è portatore di un progetto progressivo e non solo di alterità alla classe dominante. L’individuazione dei due poli conflittuali (amico e nemico) non è arbitraria ma scaturisce dalle contraddizioni del sistema sociale e dall’esistenza di un polo portatore di avanzamento di tutta l’umanità.
Il populismo di sinistra ha dimostrato capacità di movimento e di innovazione, di saper coglier il tempo dell’offensiva rompendo certe incrostazioni identitarie, ma si è poi scontrato con la difficoltà di consolidare il consenso fuori dal momento di rottura degli equilibri consolidati.
3. Il “workers mass party” (partito di massa di lavoratori/lavoratrici)
Possiamo parlare in questo caso di un’ipotesi “neoclassica” in quanto riprende, cercando di rinnovarli, alcuni elementi del paradigma classico come la centralità del partito come strumento politico e della classe come identità politica mobilitante. Ad essa fanno riferimento in una certa misura la rivista nordamericana Jacobin che ha acquisito una discreta influenza anche al di fuori degli Stati Uniti e alcuni partiti scandinavi o correnti al loro interno.
In una certa misura riprende esperienze storiche della socialdemocrazia (prima della conversione neoliberista) e dell’eurocomunismo (nella sua versione di sinistra). Ritiene necessaria la costruzione di una rete di strutture e aggregazioni radicate nella società che consolidino una egemonia tale da resistere agli spostamenti troppo bruschi di orientamento politico-elettorale tra i ceti popolari.
Il partito non è il dominus assoluto tale da guidare gerarchicamente una serie di aggregazioni e di movimenti sociali e la classe non è più fondata su una identità dominante ma esprime un complesso di identità di genere, etniche, ecc che però si riconoscono in una base comune.
Conclusione
Questa rapida rassegna vuole provare a fornire una base all’interno della quale poter considerare varie proposte teoriche e anche valutare esperienze politiche concrete. Il prevalere dell’uno o dell’altro paradigma o il loro superamento sulla base di una nuova esperienza politica non può avvenire sulla base del solo lavoro di analisi e di confronto ma si misura necessariamente con i risultati politici che le varie esperienze riescono ad ottenere. Per quanto sia necessario e utile misurarsi anche con le ipotesi che sono risultate storicamente sconfitte è evidente che è sempre stato il successo ad imporre come punto di riferimento un particolare tipo di paradigma e la sua incarnazione concreta.
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Franco Ferrari