Come in Italia, anche a Prato “la mafia non esiste” e anche qui lo sfruttamento del lavoro sembra una perversione personale o una deriva di culture retrograde, mentre i capannoni d’estate prendono dolosamente fuoco per il troppo caldo.
Forse per questo, a pochi giorni dall’ennesimo incendio nell’area industriale dei Macrolotti pratesi, le conclusioni del tavolo sulla sicurezza della Prefettura ripropongono le solite misure di controlli e telecamere, in un silenzio stampa che si limita alla descrizione dei fatti di cronaca.
Eppure da almeno un paio di anni la Direzione Distrettuale Antimafia indaga sulla criminalità organizzata, che cerca di conquistare fette di mercato nel settore manifatturiero della Piana toscana.
Da tempo infatti si verificano agguati anche in luoghi pubblici e spedizioni punitive in pieno giorno, con persone finite in coma per le lesioni, oltre alle aziende che bruciano la notte e agli operai che vengono sistematicamente ricattati, sfruttati e nel caso di proteste anche assoggettati a ritorsioni violente.
Nello scenario da terra-di-nessuno dei Macrolotti pratesi appunto si avvicendano nuovi atti della ‘guerra delle grucce’ per il dominio commerciale nel business degli appendiabiti. Questi oggetti di per sé apparentemente privi di valore, in realtà sono componenti fondamentali per le numerose confezioni dedite al fast-fashion, che negli ultimi venti anni ha conquistato il mercato mondiale di abbigliamento, trovando base anche fra Prato e Firenze, in un modello di lavoro ‘distretto’ fra sfruttamento ed infortuni anche mortali. Il giro d’affari stimato per questi oggetti apparentemente strumentali supera i 100 milioni di euro all’anno, tanto da solleticare gli appetiti di un presunto cartello di imprenditori, che cerca di dettare legge su prezzi e quantità delle forniture per gli oltre 5mila pronto-moda del territorio.
Dalle propaggini dell’indagine della DDA nei mesi scorsi si è risaliti anche ai contatti eccellenti, che gli industriali del cartello avrebbero avuto con illustri esponenti di autorità locali o associazioni di categoria. E’ il caso del tenente colonnello Sergio Turini, comandante della Compagnia dei Carabinieri di Prato, indagato e finito agli arresti per favori illeciti e atti contrari ai doveri d’ufficio, per l’accesso abusivo al sistema informatico e la divulgazione di notizie riservate. Implicato nella vicenda insieme a lui anche l’ex-presidente di Confindustria Toscana Nord, Riccardo Matteini Bresci, socio di maggioranza del Gruppo Colle di Cantagallo, finito agli arresti domiciliari per corruzione.
A fare le spese di questo sistema sono poi soprattutto lavoratori e lavoratrici, che loro malgrado finiscono nel giro di sfruttamento di territorio e persone, anche a causa della legge Bossi-Fini e del suo portato di ricattabilità verso persone di origine extra-UE per il collegamento imposto fra occupazione e documenti di soggiorno, con cui i padroncini del tessile minacciano di togliere le credenziali facendo perdere il lavoro in caso di rimostranze.
Perciò l’impegno sindacale è ancor più dirimente a tutela dei diritti delle persone colpite, ma anche della classe lavoratrice dell’intero territorio e non ultimo in chiave antimafia. Perciò, il sindacato di base Sudd Cobas, nato proprio qualche mese fa fra Prato e Firenze ed impegnato da anni sotto altre insegne nella lotta allo sfruttamento della manodopera a basso costo, ha rilanciato la mobilitazione con un presidio prima in piazza del Comune e poi davanti alla Prefettura di Prato.
L’appello diramato proprio all’indomani del rogo dell’azienda di logistica Shun Da, il 14 luglio scorso, denuncia infatti “una nuova escalation di violenza nel distretto” e la necessità di “accendere i riflettori sulle zone di ombra in cui l’ingiustizia e la violenza si riproducono come fa un cancro”.
Il Sudd Cobas ha avuto il merito di affrontare in chiave di conflittualità della classe lavoratrice una deriva prima prettamente concepita come “concorrenza sleale” dal contesto istituzionale e padronale, in cui si coltiva il modello consociativo tipico del ‘distretto manifatturiero’. “Da anni – si legge ancora sulle pagine web del sindacato -denunciamo un’economia criminale e mafiosa che spadroneggia indisturbata nel distretto. In particolare nel comparto della logistica che si occupa di distribuire in tutta Europa l’abbigliamento prodotto qui, ma anche nella filiera delle grucce. In questi settori i lavoratori negli ultimi anni hanno scioperato e conquistato diritti e sicurezza. Ma proprio i lavoratori sono fino ad ora rimasti i grandi invisibili.”
Già nel 2022 in occasione di analoghe agitazioni sindacali in aziende come DIGI, Ruentex e Meta era stato presentato un esposto che ricostruiva puntualmente la filiera di vessazioni e trattamenti indegni nel settore delle grucce e l’allora esistenza di un “cartello” fondato su racket e ‘supersfruttamento’.
Per questo l’impegno sindacale rappresenta la prospettiva di superamento di omertà e connivenze, nel silenzio del partito dominante nel consiglio cittadino, dei suoi esponenti di giunta comunale e dei sindacati confederali. Oltre alla solidarietà dell’attivismo di base e delle compagini della sinistra locale; le reazioni a livello politico si sono infatti limitate a qualche commento maldestro sul “distretto parallelo cinese”, data la provenienza prevalentemente asiatica degli esponenti del cartello. Questa narrazione, riproposta di recente anche sulla stampa mainstream, risultò la carta vincente della destra xenofoba per conquistare il Comune nel 2009, etnicizzando la questione, per renderla “cosa d’altri” più che ‘cosanostra’, con un approccio di distacco auto-assolutorio, che servisse a coprire gli interessi speculativi di tipo immobiliare, che la classe dirigente locale coltivava, così da passare dal rischio d’impresa alla certezza della rendita da affitti e all’indotto più generale. Un approccio questo del resto smentito nei fatti proprio da esponenti locali coinvolti a vario titolo nel racket. A ben vedere la situazione ed il coinvolgimento di figure di spicco cittadine si tratta infatti più di un ‘distretto tangente’ che parallelo… il cui paradigma razziale pare purtroppo aver convinto anche i portavoce della Fondazione Caponnetto, quando si soffermano sulla matrice cinese dell’organizzazione criminale, forse sviati anche dall’esotico nome ‘Chinatruck’ con cui gli inquirenti hanno intitolato il dossier.
Secondo il sindacato di base, che a giugno scorso aveva lanciato lo “sciopero delle grucce” per denunciare il “supersfruttamento” in condizioni insostenibili – con turni di tredici ore per sette giorni settimanali e paghe indegne, spesso senza nemmeno contratti – degli addetti della G-Plast “quello che si è provato a nascondere è il fatto che in questa economia criminale migliaia di cittadini del territorio vengono sfruttati e ciclicamente diventano vittime loro malgrado di faide e guerre para-mafiose. Come possiamo continuare a parlare di “sicurezza sul lavoro” mentre un autista rischia di bruciare vivo nel proprio camion? Non si tratta di un episodio. Negli ultimi anni sono tanti gli “episodi” in cui autisti di questo comparto sono stati fermati durante il lavoro da uomini armati delle aziende concorrenti e fatti scendere dal mezzo per poi darlo alle fiamme.”
E a proposito di sicurezza sul lavoro, di fronte all’incancrenimento di questo sistema viene da pensare alla contemporanea proposta del maldestro governo Meloni, che dal maggio scorso ha propagandato il decreto di ‘patente a crediti’ come panacea per la sicurezza sul lavoro, mescolando nel calderone di misure di prevenzione, autodichiarazioni di dubbia attendibilità e scarso impatto sugli infortuni, soprattutto nel caso di aziende senza scrupoli che li ritengono un danno collaterale accettabile, nell’esasperata ricerca della massimizzazione del profitto, come nel caso dell’orditura di Montemurlo che sempre nel distretto pratese uccise la giovane operaia tessile Luana D’Orazio nel 2021.
Simili provvedimenti non scalfiscono certo il sistema di sfruttamento e repressione della classe lavoratrice, che in casi di sciopero è stata più volte malmenata e sgomberata prima dai sicari dei padroni e poi dalle forze dell’ordine. Anzi, finché permane un approccio del genere sarà impossibile sgominare questo ricatto al ribasso delle tutele sul lavoro, che pregiudica la condizione occupazionale anche di altre lavoratrici e lavoratori del tessile.
In questo contesto il fallimento del modello consociativo, di concertazione fra associazioni di categoria ed istituzioni locali, ormai buone soltanto nella gestione di finanziamenti occasionali per tenere in piedi un simulacro di distretto e dare una buona immagine cittadina all’esterno, la piaga del lavoro povero e precario scava sempre più diseguaglianze e senza un’attività sindacale e solidale diffusa rischia di innescare anche nuove guerre fra poveri, finendo per ripagare malaffare e malversazione che – come i soldi – non hanno colore.
Tommaso Chiti