Per ora Bruxelles ha in parte seguito Washington, che circa un mese fa ha annunciato un fortissimo aumento delle tariffe doganali sui veicoli elettrici cinesi (portandoli al 100%). Ma il cuore dell’industria europea, cioè la Germania, ha espresso tutta la sua insofferenza verso questa scelta protezionista. Ci sono ancora margini e tempo per un negoziato tra UE e Cina, anche perché mentre i governi europei spendono miliardi per abbassare i prezzi delle auto elettriche con gli incentivi all’acquisto, allo stesso tempo, con i dazi riducono la concorrenza da parte dei produttori cinesi più economici e permettono alle aziende automobilistiche europee di tenere i prezzi più alti. Nella nuova guerra commerciale con la Cina sulle tecnologie verdi, i leader europei stanno adottando un keynesismo verde-militare protezionista che prende di mira la Cina (oltre che la Russia), ma sembrano ancora non voler pienamente riconoscere quanto l’Europa sia indietro sul piano tecnologico-produttivo. In ogni caso, la situazione appare in rapida evoluzione: piuttosto che l’inizio di una grande guerra commerciale, la decisione tariffaria dell’Europa potrebbe invece essere l’inizio di un’altra ondata di integrazione.
Il 12 giugno la Commissione europea ha annunciato che dal 4 luglio i dazi (per ora provvisori) sulle importazioni di auto elettriche fabbricate in Cina subiranno un rincaro medio del 25%, passando dal 10% a un massimo del 48%, a meno che negoziati con la Cina non risolvano la questione dei sussidi, raggiungendo un compromesso con dazi definitivi più bassi1, nel tentativo di frenare il crescente flusso di veicoli elettrici più economici. Dopo aver incontrato il presidente cinese Xi Jingping a Parigi il mese scorso, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen aveva avvertito che “il mondo non può assorbire il surplus di produzione cinese” (la narrazione della “sovracapacità produttiva” cinese), affermando che l’UE “non esiterà” a proteggere le industrie e i posti di lavoro al suo interno. La misura è arrivata alla fine di un’indagine antidumping aperta nell’ottobre 20232.
Gli Stati dell’Unione Europea dovranno pronunciarsi sull’aumento dei dazi entro il 2 novembre 2024: se approvato, sarà valido per cinque anni e potrebbe produrre entrate per più di due miliardi di euro all’anno, ma allo stesso tempo dare inizio a una costosa guerra commerciale con il governo di Pechino, come teme la Germania, fin dall’inizio contraria alla decisione insieme alla Svezia e all’Ungheria. Berlino, infatti, vuole tutelare le sue case automobilistiche, che producono e vendono molte vetture in Cina, oltre ad esportarle in entrambe le direzioni. È nella stessa situazione la Svezia, dove il maggior produttore nazionale, la Volvo, è controllata dalla cinese Geely3. L’Ungheria, invece, è da tempo la principale meta degli investimenti cinesi nell’auto elettrica.
A Bruxelles ha prevalso la tesi di chi sostiene che i produttori di auto elettriche cinesi beneficiano di sussidi alla produzione penalizzanti per i concorrenti europei: secondo la Commissione assicurano prezzi inferiori in media del 20%4. Un recente studio dell’Institut für Weltwirtschaft di Kiel, in Germania, prevedeva che un dazio aggiuntivo del 20% avrebbe ridotto le importazioni di auto elettriche cinesi del 25%.
Proteggere il lavoro europeo
Nel 2023 la Cina, che attualmente è il principale partner commerciale dell’Unione Europea, ha esportato nel vecchio continente auto elettriche per dieci miliardi di euro, raddoppiando in un anno la sua quota di mercato. Apparentemente, la Commissione UE ha deciso di imporre dazi elevati sui veicoli elettrici più economici fabbricati in Cina per proteggere un settore industriale che rimane una pietra angolare dell’ecosistema economico europeo. Le case automobilistiche impiegano direttamente e indirettamente 13,8 milioni di europei e rappresentano il 6,1% dell’occupazione totale e il 7% del PIL totale del blocco, mentre oltre un terzo delle auto prodotte sono esportate fuori dell’UE. I veicoli elettrici saranno più che semplici automobili; saranno al centro dell’innovazione, dalla robotica all’automazione, all’intelligenza artificiale, al rilevamento e all’interazione uomo-macchina. La perdita di terreno in questo settore avrà conseguenze più gravi che in altri.
Evidentemente la Commissione ritiene che senza l’imposizione di misure protezionistiche, l’industria dell’UE perderebbe volumi di vendita e quote di mercato e la sua redditività diminuirebbe rapidamente. Vede che Pechino e Washington si stanno lanciando in avanti per creare i propri colossi industriali nei veicoli elettrici. D’altra parte, la decisione dell’amministrazione Biden di imporre una tariffa del 100% sui veicoli elettrici fabbricati in Cina nelle scorse settimane (si veda il nostro articolo qui) potenzialmente aveva reso l’Unione Europea il mercato di destinazione più redditizio per i marchi automobilistici cinesi. Ma Bruxelles non può impedire la resa dei conti che i veicoli elettrici cinesi a basso costo imporranno alle case automobilistiche europee e ai loro fornitori tradizionali, quanto meno nel mercato globale fuori da Europa e Stati Uniti nei prossimi 2-3 anni. L’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares ha affermato che le case automobilistiche “non hanno molto tempo” per adeguare le loro attività e dipendono dall’eliminazione del “caos normativo e delle burocrazie che abbiamo nel nostro cortile“. L’aumento delle esportazioni cinesi e la prospettiva di fabbriche cinesi in Europa stanno costringendo le case automobilistiche più importanti del continente a esplorare partnership con rivali di lunga data, ad aumentare la pressione sui fornitori per ridurre i costi e a intensificare le discussioni con i sindacati europei sul futuro di impianti e posti di lavoro.
La reazione cinese e degli Stati europei
In questi mesi Pechino ha minacciato dure rappresaglie commerciali per convincere i governi europei a opporsi all’aumento dei dazi. Accusa Bruxelles di protezionismo, negando che esista il cosiddetto problema della “sovracapacità produttiva” della Cina, mentre i dazi danneggerebbero la cooperazione economica Cina-UE e la stabilità della produzione e delle catene di fornitura di veicoli a livello globale.
Secondo il ministero degli Esteri cinese la UE “ha ignorato i fatti e le regole del WTO, le ripetute forti obiezioni cinesi, gli appelli e la dissuasione di governi e industrie di diversi Stati europei”, per cui “la Cina si riserva il diritto di intentare una causa presso il WTO5 e prendere tutte le misure necessarie per difendere con forza i diritti e gli interessi delle imprese cinesi“.
“Esortiamo l’UE ad ascoltare attentamente le voci obiettive e razionali di tutti i ceti sociali, a correggere immediatamente le sue pratiche sbagliate, a smettere di politicizzare le questioni economiche e commerciali e a gestire adeguatamente le frizioni economiche e commerciali attraverso il dialogo e la consultazione“, ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lin Jian in una conferenza stampa. Gli esperti si aspettano che per reazione Pechino potrebbe ridurre le sue importazioni da molti paesi dell’Unione Europea, aggravando il conflitto commerciale. Pechino potrebbe reagire con contromisure che potrebbero colpire una serie di esportazioni dell’UE verso il paese, dai veicoli di grossa cilindrata (con motori termici superiori ai 2,5 litri; ogni anno l’UE ne esporta in Cina per un valore totale di 18 miliardi di dollari, in prevalenza BMW, Mercedes, Audi, Volvo, Porsche) al cognac6 e ai prodotti dell’avionica (Airbus) e dell’agroalimentare7. Anche il settore dei prodotti di lusso dell’UE potrebbe essere colpito, con la Cina che rappresenta un mercato importante per prodotti come borse, profumi, scarpe, vestiti e altri accessori, di marchi come LVMH, Gucci, Prada e altri. Anche gli orologi e i gioielli europei hanno una forte domanda in Cina.
Ora la Germania, la Svezia e l’Ungheria devono assicurarsi l’appoggio di almeno altri undici paesi per bloccare la decisione di Bruxelles (per ribaltarla serve una maggioranza qualificata). Secondo gli osservatori, la Repubblica Ceca e la Slovacchia dovrebbero aggiungersi agli oppositori delle misure. La Norvegia, che ha la più alta densità di veicoli elettrici al mondo, non aderirà all’aumento delle tariffe dell’UE sulle auto elettriche cinesi. Il ministro delle Finanze Trygve Slagsvold Vedum ha scritto che “l’introduzione di tariffe sulle auto cinesi non è né rilevante né auspicabile per questo governo“.
Tra i principali sostenitori dei dazi, invece, ci sono la Spagna e la Francia (i cui produttori di automobili non sono così esposti in Cina e mirano a tutelare il mercato interno). Mario Draghi ha citato le stime secondo cui la Cina ha speso circa tre volte la somma di Germania o Francia in politiche industriali rispetto alle dimensioni delle loro economie, affermando che l’UE deve diventare meno “passiva” nel difendere i propri interessi economici e fare un uso maggiore di tariffe e sussidi “per compensare i vantaggi ingiusti creati dalle politiche industriali e dalle svalutazioni del tasso di cambio reale all’estero”.
Prezzi più alti per i consumatori e rallentamento del ritmo della transizione energetica
L’effetto più immediato dei dazi sarà un rialzo dei prezzi delle auto elettriche cinesi e allo stesso tempo una minore pressione sulle aziende europee nella rincorsa alle concorrenti del paese asiatico. Le tariffe rappresentano un sostegno per un’industria automobilistica europea che è in netto ritardo sul piano degli investimenti per la transizione climatica e che potrebbe essere stimolata dalla concorrenza cinese a fare meglio. È evidente che la questione del cambiamento climatico non può essere affrontata attraverso la competizione tra Stati nazionali. Ciò che serve è coordinamento e cooperazione, su scala globale, per decarbonizzare la produzione il più rapidamente possibile. Invece, Unione Europea e Stati Uniti stanno perdendo tempo cercando di sostenere le aziende nazionali che sono chiaramente inferiori alle loro controparti cinesi, ritardando ulteriormente uno sforzo di decarbonizzazione che è già irrimediabilmente in ritardo sulla tabella di marcia. Sebbene l’elettrificazione della flotta di veicoli passeggeri sia di per sé una risposta irrisoria alla crisi climatica, è tuttavia importante porre fine alla produzione di automobili con motore a combustione il più rapidamente possibile. La velocità è essenziale: non abbiamo tempo per far passare i decenni necessari per mettere in ginocchio le case automobilistiche cinesi avanzate e ammodernare l’industria europea (e americana) in modo che l’Unione Europea e gli USA possano “vincere” la transizione verde.
Secondo alcuni osservatori, si rischia di rallentare l’adozione di una tecnologia fondamentale per la transizione energetica e di mantenere in vita il motore a combustione oltre la soglia del 2035 decisa dall’Unione Europea. La Germania, in particolare, potrebbe cogliere l’occasione per chiedere un rinvio della scadenza. Una fazione all’interno del Partito popolare europeo (PPE) – il gruppo conservatore che ha vinto le elezioni europee della scorsa settimana – cerca di far saltare il piano per porre fine alla vendita di nuove auto con motore a combustione interna nel 2035, ponendo le basi per uno scontro politico tra le parti8.
Una combinazione tra l’abrogazione della legislazione della soglia del 2035 e la creazione di un livello di protezione con le tariffe allenterebbe drasticamente la pressione sulle case automobilistiche ad aumentare la produzione di veicoli elettrici. Secondo gli analisti, se si rende troppo comoda la fase di transizione per le case automobilistiche europee che ancora traggono la maggior parte dei loro profitti dai veicoli con motore a combustione interna, allora si creerà una situazione in cui queste saranno sempre meno competitive in altri mercati del mondo, mentre i consumatori europei saranno condannati a pagare prezzi più alti per le auto elettriche. Molti produttori europei hanno già fatto marcia indietro rispetto ai loro obiettivi relativi ai veicoli elettrici, citando gli elevati costi di produzione e il rallentamento dei tassi di adozione. La Volkswagen, la cui joint venture cinese, con l’azienda statale SAIC (che ha anche una joint venture con General Motors), è stata colpita dal dazio più alto, pari al 38,1%, ha dichiarato in una conferenza automobilistica all’inizio di quest’anno che farà più affidamento sugli ibridi per compensare il calo delle vendite di veicoli completamente elettrici.
Ciò che ostacola una più ampia diffusione dei veicoli elettrici in Europa, oltre alla mancanza di chiarezza normativa e all’assenza di un’infrastruttura pubblica che consenta la ricarica dei veicoli, è la non disponibilità di modelli convenienti che costano 25 mila euro o meno. Le aziende cinesi possono colmare questa lacuna, grazie a catene di fornitura estese e costi bassi, mentre i loro concorrenti europei e statunitensi si sono concentrati su modelli più grandi come i SUV che hanno un prezzo più alto e generano maggiori profitti9. Secondo Rhodium Group, le case automobilistiche cinesi hanno un vantaggio di costo pari o superiore al 30% rispetto ai rivali europei e lo scorso anno hanno conquistato il 19% del mercato europeo dei veicoli elettrici (con 478 mila unità), rispetto al 16% nel 2022. Secondo una previsione del 2023 della banca svizzera UBS, l’UE è destinata a diventare la più grande destinazione delle esportazioni automobilistiche della Cina entro il 2030, con 2 milioni di veicoli – circa il 20% del mercato del continente – venduti ogni anno.
Come ha sottolineato Reuters, finora, il principale produttore cinese di veicoli elettrici, BYD, che è in competizione con Tesla di Elon Musk per essere il più grande produttore di auto elettriche del mondo (con una previsione di 4 milioni di vendite di auto quest’anno, metà elettriche e metà ibride), ha aumentato drasticamente i prezzi di esportazione rispetto a quelli praticati in patria, piuttosto che attaccare direttamente i rivali stranieri. L’obiettivo: ottenere ingenti margini di profitto che la casa automobilistica non può ottenere in Cina a causa della spietata concorrenza sui prezzi condotta da decine di marchi che lottano per emergere e sopravvivere10. Secondo gli esperti dell’industria automobilistica cinese, negli ultimi 5 anni il leader cinese dei veicoli elettrici ha ridotto i costi in ogni fase della produzione, dalle materie prime alle batterie, fino ai terreni e alla manodopera. I dati forniti a Reuters dalla società di analisi di mercato Benchmark Mineral Intelligence mostrano che quest’anno il prezzo delle batterie in Cina sarà inferiore di circa il 18% rispetto a quello europeo11. CATL, che rifornisce di batterie Tesla, Volkswagen e BMW, nonché i produttori cinesi di veicoli elettrici, fornisce da solo circa il 40% delle batterie per veicoli elettrici del mondo e alla fine di aprile ha presentato la prima batteria con un’autonomia di oltre 1.000 chilometri con una singola carica. Una grande azienda come BYD, che produce le proprie batterie a base di fosfato di litio ferro (LFP), può ridurre ulteriormente i propri costi negoziando sconti sui volumi lungo tutta la catena di fornitura delle batterie. Le case automobilistiche cinesi sono aiutate anche da terreni a prezzi accessibili – spesso sovvenzionati dalle autorità locali – e beneficiano di elettricità e manodopera più economici. Possono anche costruire stabilimenti in Cina in appena un anno perché devono affrontare meno ostacoli normativi rispetto ai paesi occidentali. Ciò significa che gli investimenti di capitale delle case automobilistiche cinesi sono molto inferiori per veicolo e quindi possono guadagnare di più.
Le prospettive del mercato dei veicoli elettrici in Europa e gli investimenti diretti cinesi
Molte sono le considerazioni che rischiano di alimentare l’idea, già diffusa nell’opinione pubblica europea, che la svolta verde è troppo gravosa. Non è un caso che alle ultime elezioni europee siano aumentati i consensi verso partiti convinti che l’ambientalismo penalizzi l’industria e i posti di lavoro, e faccia aumentare i prezzi di molti prodotti. La crescita dei partiti nazionalisti di destra (che denunciano una presunta “ecologia punitiva”) e il timore degli altri di perdere consensi, insomma, potrebbero favorire una brusca retromarcia nel piano di decarbonizzazione dell’Unione Europea, mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici da parte dell’UE.
Il settore dei trasporti stradali rappresenta il 77% delle emissioni dei trasporti dell’UE e il 20% delle emissioni complessive di gas serra. La Commissione Europea ha un obiettivo ambizioso: almeno 30 milioni di auto a emissioni zero sulle strade europee entro il 2030. Tuttavia, le previsioni del settore prevedono solo circa 8,4 milioni di veicoli completamente elettrici in Europa entro la fine del decennio (circa il doppio dell’attuale stock cumulativo di 4,7 milioni).
Secondo gli analisti, i dazi provvisori costituiscono un ostacolo per le case automobilistiche cinesi, ma non una barriera insuperabile. I marchi cinesi subiranno un temporaneo calo dei profitti, ma la decisione della Commissione non farà altro che accelerare i loro piani per costruire impianti di produzione all’interno del blocco per aggirare le tariffe. Alcuni osservatori sostengono che in fondo, al di là della retorica, il vero obiettivo dell’UE è sfruttare la minaccia dei dazi per spingere i produttori cinesi di auto elettriche a stabilirsi nell’UE e a condividere il know-how (formare joint venture e condividere la tecnologia con le loro controparti dell’UE12).
Finora sono stati accolti favorevolmente dall’Ungheria, il cui primo ministro Viktor Orbán ha aperto le porte agli investimenti automobilistici di Pechino, ma anche in Spagna. Nel dicembre 2023 è stata ufficializzata la prossima apertura di una fabbrica della BYD a Szeged, nel sud dell’Ungheria (dovrebbe essere inaugurata nella seconda metà del 2025 e produrre 200 mila veicoli elettrici all’anno). BYD starebbe prendendo in considerazione un secondo stabilimento europeo nel 202513. L’Ungheria sta negoziando con Great Wall Motor per il suo primo stabilimento europeo, hanno riferito i media locali. A metà aprile è stato annunciato che Chery produrrà (assemblerà) presto macchine a Barcellona, in uno stabilimento ex Nissan14. L’Italia invece sta pensando a Dongfeng come partner da affiancare a Stellantis (che però è contraria allo sbarco cinese in Italia). I colloqui con il ministro dell’Industria, Adolfo Urso, sono in corso e, secondo quanto trapelato, il governo Meloni offrirà a Dongfeng alcune opzioni per i siti di produzione. L’azienda cinese sarebbe pronta a produrre in Italia oltre 100 mila auto. Stellantis sta invece collaborando con la cinese Leapmotor: inizierà a produrre piccoli veicoli elettrici nello stabilimento di Tychy di Stellantis in Polonia dopo aver ricevuto il via libera dal governo cinese per una joint venture. L’azienda statale SAIC, il secondo più grande esportatore di automobili della Cina con le sue auto a marchio MG, è alla ricerca di un sito in Europa per creare un impianto di produzione di veicoli elettrici. SAIC ha già un centro ricambi europeo per la sua unità MG Motors ad Amsterdam e prevede di aprire un secondo stabilimento in Francia per soddisfare la crescente domanda del paese per i suoi veicoli, ha dichiarato la società a marzo.
Anche la produzione delle batterie elettriche si sta spostando dalla Cina in Europa, con 17,5 miliardi di dollari di investimenti annunciati tra il 2018 e il 2022. La Slovacchia ha recentemente accolto con favore il suo primo investimento estero nelle batterie da parte della cinese Gotion High Tech e l’Ungheria ha attirato massicci investimenti da parte dei produttori cinesi, per un ammontare di circa 10 miliardi di euro solo nell’ultimo anno. Anche la Germania ha attirato investimenti e progetti simili sono previsti in Francia e Spagna. Le partecipazioni cinesi nel settore europeo delle batterie possono offrire opportunità all’Europa sotto forma di posti di lavoro e potenziale trasferimento di tecnologia, ma aumentano anche il rischio che i produttori europei e di altri paesi terzi vengano espulsi dal mercato europeo, aumentando ulteriormente la dipendenza dell’Europa dalle batterie cinesi.
Inoltre, i più grandi marchi cinesi, come BYD, hanno un margine sufficiente per assorbire i dazi e mantenere gli attuali prezzi al consumo15. Stanno guardando anche ai mercati al di fuori degli Stati Uniti e dell’Europa, come il sud-est asiatico, dove stanno rapidamente guadagnando quote di mercato. Ad esempio, secondo il rapporto annuale sulle prospettive dei veicoli di BloombergNEF, i marchi cinesi hanno rappresentato il 77% delle vendite di veicoli elettrici in Thailandia nel 2023, rispetto al 46% nel 2022. In questo contesto, se alle case automobilistiche europee fosse permesso di continuare la loro storia d’amore con le tradizionali auto con motore a combustione, non sarebbero più sincronizzate con il resto del mondo.
Interrogativi e prospettive di futuro
La profonda integrazione dell’UE nell’economia globale e il modo in cui la sua ricchezza è costruita sul commercio globale significa che il blocco è meno attrezzato per seguire un percorso protezionistico, o addirittura isolazionista, rispetto agli Stati Uniti. Ma oggi i rapporti economici tra Unione Europea e Cina sono profondamente influenzati non solo da fattori economici, ma anche dai diversi posizionamenti geopolitici delle due parti su alcune questioni fondamentali. L’Unione Europea ritiene (con gli Stati Uniti) che: il sostegno finanziario e materiale (materiali a “duplice uso”) della Cina a Mosca sta alimentando lo sforzo bellico russo in Ucraina; la sovracapacità industriale cinese sta minando la futura competitività di importanti settori economici europei e statunitensi; il predominio della Cina nella catena di approvvigionamento delle tecnologie verdi fa sì che le decisioni prese a Pechino incidano sulla capacità dell’UE di perseguire la transizione energetica.
La “riduzione dei rischi” (“de-risking”, invece del “decoupling”) è il motivo guida del nuovo approccio dell’UE nei confronti della Cina (dal marzo 2023), in particolare nelle tecnologie verdi – pannelli solari, batterie agli ioni di litio e veicoli elettrici – in cui le aziende cinesi stanno lottando per ottenere una piena affermazione nei mercati globali. I leader europei hanno adottato il “de-risking”, vale a dire ridurre la dipendenza economica dalle aziende cinesi per i beni critici e impedire il trasferimento in Cina di tecnologia che potrebbe alimentare i progressi dell’esercito cinese, come un nuovo mantra che ha le sue radici nell’idea della sicurezza nazionale/europea, ma il termine maschera la complessità che intende affrontare e secondo gli analisti c’è ancora molta strada da fare per trasformare questo mantra in azioni concrete che ottengano un ampio sostegno e forniscano risultati concreti.
Certamente, bisogna riconoscere che negli ultimi anni, per raccogliere la sfida cinese, il blocco europeo ha adottato la regolamentazione sul lavoro forzato, creato lo Strumento per gli appalti internazionali, introdotto il regolamento sui sussidi esteri, rivisto il processo di screening degli investimenti diretti esteri, aperto indagini anti-sovvenzioni, approvato la legge sulle materie prime critiche e concordato il piano industriale sul Green Deal con al centro il Net Zero Industry Act recentemente approvato. In apparenza, quindi, l’UE sembra pronta a mobilitare le proprie risorse economiche per realizzare azioni sul clima e proteggere la stabilità economica e la sicurezza nazionale/europea (la nuova generazione di veicoli elettrici rappresenta un tipo di rischio completamente nuovo: sono dotati di una serie di sensori che monitorano l’interno e i dintorni dell’auto, raccogliendo un tesoro di dati sensibili per addestrare l’intelligenza artificiale e migliorare le prestazioni di guida autonoma; ciò solleva seri interrogativi sul rischio di spionaggio, sorveglianza mirata e altre minacce alla sicurezza informatica come l’hacking remoto e la sicurezza dei dati).
L’UE ha in atto anche diverse iniziative quadro per far avanzare il settore europeo delle batterie. Uno dei ruoli principali del blocco è fornire visione strategica e obiettivi per l’industria. A tal fine, nel 2017 la Commissione Europea ha lanciato la European Battery Alliance, riunendo la stessa Commissione, gli Stati membri dell’UE, l’industria e la comunità scientifica con l’obiettivo di rendere l’Europa un leader globale nella produzione di batterie sostenibili. Utilizzando le competenze raccolte in questo forum, la Commissione Europea ha adottato un piano d’azione strategico per le batterie, che definisce sei aree prioritarie per rafforzare la catena di approvvigionamento delle batterie in Europa, tra cui l’accesso alle materie prime, il sostegno finanziario per la produzione di batterie in Europa e la ricerca e l’innovazione. La Commissione Europea ha anche promosso i finanziamenti nel settore allentando le norme solitamente rigide sugli aiuti di Stato del mercato unico, come ha fatto nel 2023. Ciò ha consentito, ad esempio, alla Germania di fornire quasi 1 miliardo di euro al produttore svedese di batterie Northvolt per creare uno stabilimento per la produzione di batterie per veicoli nel nord della Germania; questa cifra rappresenta circa un terzo dell’importo totale dell’investimento.
Per l’Europa, le industrie basate sulle tecnologie verdi dovrebbero generare prosperità futura (essere i principali motori della crescita economica), consentire la transizione verde e rafforzare la sicurezza attraverso una maggiore indipendenza energetica. Poiché la competitività, la crescita economica, gli obiettivi climatici e la sicurezza nazionale/europea non possono essere raggiunti al massimo insieme in questi settori, i politici europei devono soppesarli e decidere a cosa dare la priorità, quando e come. Invece di utilizzare individualmente incentivi e strumenti commerciali ad hoc (come le tariffe), in modo casuale e in dosi forse insufficienti, gli Stati membri dovrebbero rivoluzionare il loro approccio con: una spinta reale alla leadership politica, un maggiore coordinamento a livello UE e una chiara definizione delle priorità supportata da argomentazioni credibili. I politici devono essere in grado di definire politicamente dove i rischi sono maggiori e cosa costituisce una dipendenza tollerabile, cercare attivamente partner nel mondo per preservare la concorrenza e comunicare chiaramente i necessari compromessi. Da questo punto di vista, una domanda chiave che i governanti europei devono porsi è se si fidano delle aziende cinesi – che sono intrinsecamente interconnesse con il Partito Comunista Cinese a causa della struttura del sistema politico e legale cinese – per costituire la spina dorsale della transizione verde dell’Europa, raccogliere i benefici dei bassi prezzi al consumo e ottenere un percorso rapido e chiaro verso la transizione verde. È la risposta a questa domanda che determinerà le opzioni a loro disposizione.
Se la risposta politica alla domanda sulla fiducia è negativa, come in parte appare dalla decisione di imporre i dazi sulle auto elettriche cinesi, per cui per l’UE la Cina, ufficialmente descritta come “ un partner di cooperazione, un concorrente economico e un rivale sistemico“, ora viene prevalentemente vista in quest’ultimo modo, qualsiasi strategia di riduzione del rischio deve concentrarsi sulla minimizzazione il più possibile dell’esposizione verso la Cina nei settori delle tecnologie verdi, aumentando al contempo la capacità produttiva alternativa (creando nuove catene di fornitura sia in Europa che nei paesi terzi amici come Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud, India, Indonesia, Vietnam). In questo caso, i politici dovrebbero attingere a tutte le risorse possibili per farlo, anche a costo di prezzi al consumo più alti (almeno temporaneamente) o di un raggiungimento più lento (ma forse a lungo termine più sostenibile) degli obiettivi climatici.
Se la risposta alla domanda sulla fiducia dovesse essere affermativa (almeno parzialmente, ridimensionando la portata dei dazi, soprattutto in considerazione della portata dell’impegno richiesto dalla transizione climatica), secondo molti analisti non ha molto senso parlare adesso di “eccesso di capacità produttiva” cinese nei settori produttivi “verdi”. Infatti, secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, la domanda globale di veicoli elettrici raggiungerà i 45 milioni di unità entro il 2030, aumentando di 4,5 volte rispetto al 2022, e la domanda annuale di capacità fotovoltaica aggiuntiva raggiungerà, nello stesso anno, 820 gigawatt, circa quattro volte il livello del 2022. Date queste proiezioni sulla domanda, il compito principale dei governi dovrebbe essere quello di contribuire alla massima espansione dell’offerta, non di creare ostacoli artificiali che ne rallentino la crescita.
D’altra parte, mentre l’amministrazione Biden sulla base di una valutazione geopolitica che definisce la politica industriale della Cina una minaccia alla sicurezza nazionale statunitense e alla sua egemonia tecnologica-economica-politica-militare globale16, ha fissato dazi sulle auto elettriche cinesi del 100%, blindando di fatto il mercato USA, la Commissione Europea, molto meno preoccupata per la rivalità geopolitica con la Cina, li ha modulati tra il 27% e il 48%, lasciando quindi una possibilità di entrata nel mercato europeo e finendo per incentivare la localizzazione della produzione cinese in Europa. Bruxelles sembra, dunque, aver lasciato spazio alle due parti per continuare le consultazioni per trovare una soluzione di compromesso. I dazi attuali sono provvisori e la Commissione potrebbe sempre decidere di eliminarli, abbassarli o alzarli di un altro 50% entro il 2 novembre. Il commissario al Commercio Valdis Dombrovskis ha sostenuto che “vogliamo evitare l’escalation delle tensioni commerciali con la Cina, che non sono nell’interesse di nessuno” e che l’obiettivo non è bloccare completamente i veicoli elettrici dalla Cina: “Il nostro obiettivo è ripristinare condizioni di parità e garantire che il mercato europeo rimanga aperto ai produttori di veicoli elettrici cinesi, a condizione che rispettino le regole commerciali concordate a livello globale”.
Se la Commissione è giustamente preoccupata di tutelare i posti di lavoro nell’industria automobilistica europea, la soluzione migliore dal punto di vista economico è quella di aprirsi alla cooperazione, favorendo gli investimenti dei produttori cinesi nella supply chain sul territorio europeo e richiedendo, al tempo stesso una maggiore apertura cinese agli investimenti europei, in uno spirito di reciprocità, come il governo cinese sta chiedendo da anni. Gli autoveicoli prodotti localmente, grazie ai minori costi di trasporto, sarebbero più convenienti di quelli importati. Inoltre, la realizzazione di collaborazioni e joint ventures tra produttori europei e cinesi attiverebbe quel travaso di conoscenze che è stato fondamentale in Cina per avviare lo sviluppo industriale e tecnologico, e che potrebbe fluire oggi in senso inverso, dalla Cina verso l’Europa, a beneficio della transizione climatica europea. Gli addetti ai lavori dell’industria europea affermano che le case automobilistiche sono interessate a tali accordi, che secondo loro hanno più senso dal punto di vista commerciale per un settore produttivo che è rimasto indietro rispetto alla Cina. L’Ungheria, che ora è il principale destinatario degli investimenti cinesi nei veicoli elettrici in Europa, vuole spingere per tali requisiti di joint venture nella sua prossima presidenza del Consiglio dell’UE, suggerendo che potrebbe esserci un accordo per eliminare (o ridurre) le tariffe sulle case automobilistiche cinesi che investono nei paesi dell’Unione Europea. In questo modo, piuttosto che l’inizio di una grande guerra commerciale, la decisione tariffaria dell’Europa potrebbe invece essere l’inizio di un’altra ondata di integrazione. Se il blocco e i suoi Stati membri sono seriamente intenzionati a evitare di essere schiacciati dalla competizione tra Stati Uniti e Cina, devono avere un pensiero più indipendente rispetto agli USA, tornare alla fase del dialogo razionale per risolvere i problemi e intensificare una politica di cooperazione tra UE e Cina che può essere vantaggiosa per entrambe le parti.
Alessandro Scassellati
- Le tariffe sono strutturate in tre livelli: tariffe individuali del 17,4% per il campione di aziende indagate dall’UE, che include il più grande venditore di veicoli elettrici al mondo, Build Your Dreams (BYD); una tariffa media del 21% per le aziende che hanno collaborato alle indagini ma non sono state completamente indagate; e una tariffa residua del 38,1% per quelle che non sono state indagate. Una tariffa del 17,1% farà aumentare di 5.250 euro il costo di un’auto da 30 mila euro. Una tariffa del 38,1% si tradurrà in un aumento del prezzo di 11.450 euro. Le tariffe si aggiungono all’imposta esistente del 10% sulle auto importate nell’UE (mentre la Cina ha una tassa di importazione del 15%), il che significa che i veicoli elettrici di fabbricazione cinese devono affrontare tariffe totali fino al 48,1%. L’UE sostiene che ogni fase del processo di produzione dei veicoli elettrici, dalla miniera che produce il litio utilizzato nelle batterie alla spedizione delle auto a Rotterdam e Zeebrugge, è sovvenzionata in Cina dallo Stato a livello nazionale, regionale e locale. L’indagine ha anche scoperto terreni economici o gratuiti ceduti a fabbriche di automobili. Ha riscontrato che esistevano sussidi specifici per casi con presunta fornitura di litio e batterie al di sotto del prezzo di mercato, con i fornitori di batterie che agivano come enti pubblici che attuavano la politica industriale nazionale. Ha inoltre riscontrato che esistono esenzioni fiscali per il settore delle batterie. L’indagine ha scoperto una serie di vantaggi finanziari, tra cui obbligazioni verdi emesse a un tasso inferiore a quello disponibile sui mercati internazionali e tassi di rifinanziamento preferenziali per i fondi a sostegno del settore.[↩]
- L’indagine antisovvenzioni sui produttori cinesi di veicoli elettrici era stata annunciata durante il discorso sullo stato dell’Unione nel settembre 2023 dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, suscitando aperte reazioni critiche della lobby automobilistica tedesca. Si è trattato di una della oltre una dozzina di indagini condotte dall’UE sugli aiuti di Stato cinesi, incluse indagini sulle esportazioni di pannelli solari, pompe di calore e turbine eoliche (ma anche sugli scanner di sicurezza aeroportuali e i dispositivi medici), che secondo i funzionari UE stanno sotto quotando l’UE del 50%. D’altra parte questi erano alcuni dei settori industriali che nel 2015 il governo cinese aveva indicato come i “veicoli di nuova energia” e, quindi, come settori chiave per garantire la prosperità del paese nell’ambito del piano industriale nazionale “Made in China 2025”. Un obiettivo che è stato perseguito attraverso un modello economico orientato agli investimenti in cui le industrie scelte politicamente hanno ricevuto un massiccio sostegno finanziario. Il Partito Comunista Cinese vede ora una finestra ristretta di 10-15 anni durante la quale Pechino può trarre vantaggio e dare forma a nuove trasformazioni tecnologiche rivoluzionarie che vede come l’unica opzione per elevare il paese da un paese a reddito medio a uno ad alto reddito.[↩]
- La casa automobilistica svedese Volvo Cars, di proprietà del gruppo cinese Geely, vende il 42% della sua produzione in Europa e il 24% in Cina. Impegnata nella transizione all’elettrico, ha tre stabilimenti di assemblaggio in Cina e due in Europa, con un terzo in costruzione in Slovacchia. “Per quanto riguarda le tariffe, siamo d’accordo che sia una cattiva idea […] smantellare il commercio globale“, ha detto il primo ministro svedese Ulf Kristersson in una conferenza stampa il secondo giorno della visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz nel paese scandinavo (14 maggio). Il Cancelliere tedesco Scholz ha sottolineato che il 50% delle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina sono oggi prodotte da produttori occidentali. “Ci sono produttori europei e nordamericani che hanno successo sul mercato cinese e vendono i loro veicoli in Cina, dobbiamo tenerne conto“, ha detto, sottolineando l’importanza degli “scambi” tra i mercati occidentali e cinesi. Il ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck, che visita la Cina questa settimana, ha dichiarato dopo la decisione dell’UE: “I dazi sono sempre l’ultima risorsa come strumento politico e sono spesso l’opzione peggiore”, aggiungendo che una guerra tariffaria con Pechino rischia di “gettare il bambino con l’acqua sporca”. Un recente studio della ONG Transport & Environment ha stimato che circa il 20% di tutte le auto elettriche vendute nell’UE lo scorso anno, ovvero circa 480 mila unità, sono state costruite in Cina. Tuttavia, circa due terzi di questi veicoli proveniva da marchi occidentali, in particolare Tesla, Dacia, BMW, che li producono in Cina ed esportano da questo paese. Il capo della BMW, Oliver Zipse, è intervenuto all’inizio di maggio, ritenendo che l’UE si stesse “dando la zappa sui piedi” portando avanti l’indagine sui sussidi cinesi. La Cina è anche un mercato cruciale per i produttori tedeschi, che sono molto più radicati lì rispetto ad altri produttori europei. Il che li mette nella scomoda posizione di dover difendere l’accesso delle auto di fabbricazione cinese al mercato europeo, nonostante le loro quote di mercato in contrazione all’interno della Cina. Dopo l’annuncio delle tariffe dell’UE, la Volkswagen ha dichiarato di rifiutare l’imposizione dei dazi. “Gli effetti negativi di questa decisione superano qualsiasi potenziale beneficio per l’industria automobilistica europea e soprattutto tedesca“, ha detto un portavoce della Volkswagen. L’associazione tedesca dell’industria automobilistica VDA si è detta favorevole al “commercio libero ed equo”. L’amministratore delegato della Mercedes-Benz, Ola Källenius, ha aggiunto la sua voce alle preoccupazioni, affermando che “ciò di cui non abbiamo bisogno, come nazione esportatrice, è l’aumento delle barriere commerciali”.[↩]
- Secondo l’accusa, il supporto governativo contribuirebbe a ridurre il prezzo dei veicoli esportati, determinando uno svantaggio competitivo per i produttori localizzati all’interno della UE. È importante osservare che i sussidi in questione sono accessibili a tutte le imprese operanti in Cina, incluse quelle di proprietà straniera, in accordo con la politica di apertura agli investimenti esteri praticata dal governo cinese. Ad esempio, il secondo maggiore beneficiario degli incentivi all’acquisto di veicoli elettrici sul mercato cinese nel 2022 è stata Tesla e, tra i primi 10, compaiono le joint-ventures di Volkswagen e General Motors. In definitiva, se è stata la cinese BYD a ricevere la stragrande maggioranza degli incentivi, è perché i consumatori cinesi hanno preferito di gran lunga i prodotti di quest’azienda. Il successo di BYD è continuato nel 2023, dopo che gli incentivi all’acquisto di auto elettriche sul mercato cinese sono cessati. Ora, in Cina i veicoli elettrici e ibridi plug-in rappresentano oltre un terzo di tutte le vendite di auto nuove. Nel 2023, la produzione e vendita di veicoli elettrici in Cina ha raggiunto rispettivamente i 9,58 milioni e i 9,49 milioni di unità, in una sostanziale condizione bilanciata tra produzione e vendite, delle quali quelle interne sono state pari all’87,3% (per cui circa il 60% di tutti i veicoli elettrici mondiali sono venduti in Cina) e le esportazione verso l’estero solo pari al 12,7% (ma nel 2019, l’esportazione di veicoli elettrici cinesi valeva 400 milioni di dollari; nel 2023 è stata di 34 miliardi di dollari). Più in generale, riguardo alle politiche industriali cinesi, uno studio americano recente ha collocato i sussidi industriali cinesi nel 2019 ad un livello pari a 1,73% del PIL. Nella comparazione condotta, si tratterebbe di un livello fino a quattro volte superiore rispetto a quello di Stati Uniti, Francia e Germania, e questa differenza giustificherebbe l’accusa rivolta alla Cina di distorcere la competizione internazionale a proprio favore. Andando ad analizzare i dati contenuti nel rapporto, risulta che il 45% dei sussidi (pari allo 0,77% del PIL) consisterebbe in benefici impliciti a favore delle industrie di Stato, determinati dall’orientamento politico favorevole al settore dell’impresa pubblica da parte del Partito Comunista Cinese. La parte maggioritaria di questi benefici (0,52% del PIL) è rappresentata da risparmi sugli interessi bancari, che si spiegano con la minore rischiosità dei crediti erogati verso le imprese pubbliche, favorite dalla garanzia implicita di salvataggio da parte del governo in caso di loro bancarotta. Ma l’UE ha chiarito che i regolatori europei considerano i prestiti delle banche statali cinesi e della proprietà statale come sussidi soggetti a tariffe aggiuntive. Secondo la stessa fonte, il supporto della Cina per le proprie imprese è molto maggiore di quello occidentale anche se ci limitiamo a considerare i soli sussidi diretti e gli sconti fiscali (0,76% del PIL nel 2019 contro 0,17% e 0,12% di Germania e USA). La differenza di peso tra i sussidi cinesi e quelli di USA e Germania è nell’ordine dello 0,6% del PIL. Riguardo agli Stati Uniti, però, occorre osservare che, da una parte, i sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act (ogni auto elettrica riceve un incentivo fino a 7.500 dollari, a condizione che gran parte dei componenti arrivi dagli Stati Uniti) peseranno all’incirca per uno 0,28% annuo del PIL per il decennio 2022-2032, contribuendo a ridurre in modo significativo il gap rispetto alla Cina; e che, dall’altra, la spesa militare statunitense vale ben il 3,5% del PIL (contro l’1,6% di quella cinese e il 2% di quella tedesca).[↩]
- Da sottolineare peraltro che il WTO è da tempo in fase di stallo e non è più in grado di emanare sentenze esecutive, con gli Stati Uniti che da anni stanno impedendo la nomina di nuovi giudici alla corte d’appello. In proposito, si veda il nostro articolo qui.[↩]
- A gennaio, la Cina ha avviato un’indagine antidumping sulle importazioni di brandy dell’UE, in una mossa vista come una risposta all’ampliamento delle controversie commerciali tra Pechino e Bruxelles. Gli obiettivi più probabili potrebbero essere i marchi francesi Pernod Ricard and Remy Cointreau.[↩]
- Colpire l’agricoltura – l’export di carne di maiale e di latticini/formaggi – potrebbe infliggere un duro colpo a un settore sensibile dell’UE, dato che la Cina è la terza destinazione delle esportazioni agroalimentari del blocco e rappresenta il 6,4% del commercio agroalimentare totale dell’UE.[↩]
- Il capo del PPE, il bavarese Manfred Weber, ha preso di mira il divieto non appena è stato chiaro che il suo partito aveva vinto il maggior numero di seggi al Parlamento Europeo la notte delle elezioni. La sua posizione lo mette in contrasto con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che sta cercando un secondo mandato alla guida dell’esecutivo dell’UE come candidata del PPE. Per mantenere la sua presidenza, von der Leyen potrebbe dover formare una nuova coalizione stringendo un accordo con i Verdi, che si oppongono fermamente alla rivisitazione del divieto. “Queste misure non sono la soluzione per compensare il ritardo dell’industria automobilistica tedesca nella mobilità elettrica“, ha detto a Politico Michael Bloss, membro dei Verdi tedeschi della commissione parlamentare per l’industria. “Un approccio a zig-zag per eliminare gradualmente i motori a combustione sta creando incertezza e causando enormi danni all’industria automobilistica”.[↩]
- Emblematico il caso della Ferrari che sta programmando la produzione nel 2025 della sua prima auto elettrica che costerà almeno 500 mila euro. La casa automobilistica di lusso si prepara ad aprire uno stabilimento che realizzerà il modello – e potrebbe aumentare la produzione del gruppo fino a un terzo. Il prezzo previsto dimostra la sua fiducia che gli automobilisti ultra-ricchi siano pronti, anche se i rivali del mercato di massa stanno tagliando i prezzi dei veicoli elettrici in un contesto di domanda vacillante.[↩]
- In alcuni showroom stranieri, BYD addebita più del doppio – a volte quasi il triplo – del prezzo che ottiene per i modelli chiave in Cina, secondo un’analisi Reuters dei prezzi della casa automobilistica in cinque dei suoi maggiori mercati di esportazione (anche nei paesi più poveri ma in rapida crescita come Brasile e Indonesia, dove BYD sta aprendo stabilimenti). La versione di fascia media della BYD Atto 3, un crossover elettrico compatto, viene venduta in Cina a 19.283 dollari, mentre in Germania, il piccolo SUV ha un prezzo di 42.789 dollari, un prezzo ancora competitivo con veicoli elettrici comparabili in quel mercato. Il modello base della berlina elettrica Seagull di BYD viene venduta a casa per meno di 10 mila dollari. Anche tenendo conto dei costi aggiuntivi dovuti ad una regolamentazione più severa dell’Europa, ciò implica un ampio margine di manovra per assorbire le tariffe e generare margini di profitto sulle auto esportate in Europa. Alcuni osservano inoltre che, mentre negli Stati Uniti i sussidi per l’acquisto di auto elettriche valgono solo per quelle fabbricate nel paese, in Europa gli aiuti pubblici si applicano anche a quelle prodotte in Cina, vanificando in buona parte l’effetto dei dazi. Si prevede che nel 2024 le case automobilistiche lanceranno 110 nuovi modelli di veicoli elettrici e ibridi plug-in in Cina, la maggior parte provenienti da marchi cinesi che spesso hanno difficoltà a raggiungere il pareggio o a ottenere un piccolo profitto nel loro mercato interno.[↩]
- Circa il 30% delle batterie dei veicoli elettrici venduti nell’UE nel 2023 è stato prodotto da produttori cinesi. A livello globale, con una media di 126 dollari per kilowattora, le batterie erano più economiche in Cina, con prezzi più alti dell’11% e del 20% rispettivamente negli Stati Uniti e nell’UE. I prezzi più bassi sono causati dalla massiccia produzione industriale nel mercato cinese. Nel 2023, i produttori cinesi hanno prodotto 747 gigawattora (GWh) di energia delle batterie, più dell’intera domanda globale di batterie per veicoli elettrici pari a 706 GWh, di cui solo 387 GWh sono effettivamente installati nei prodotti nazionali. Contemporary Amperex Technology Limited (CATL), Xinwanda Electronics e una dozzina di fornitori cinesi di batterie stanno già investendo nell’intera catena di fornitura di veicoli elettrici in Ungheria.[↩]
- Secondo la Camera di commercio tedesca in Cina, il 69% delle aziende automobilistiche tedesche ritiene che i concorrenti cinesi siano già leader nell’innovazione o lo saranno entro i prossimi cinque anni.[↩]
- Le ambizioni elettriche di BYD non si limitano alle auto. Ha già costruito una forte posizione nel mercato degli autobus elettrici, anche nel Regno Unito, dove il produttore di autobus di proprietà canadese Alexander Dennis costruisce le carrozzerie degli autobus che funzionano su telai BYD.[↩]
- Si tratta ufficialmente di una joint-venture tra Chery (che avrà una partecipazione di minoranza) e la spagnola EV Motors (Ebro EV, che aveva acquistato da Nissan l’impianto, fermo dal 2021). L’accordo dovrebbe permettere a 1.600 dipendenti ex Nissan di mantenere il posto di lavoro.[↩]
- BYD si avvale di un modello organizzativo di stampo neo-fordista, che privilegia l’integrazione verticale, e poggia sul network innovativo in cui è immersa, in cui il settore pubblico ha giocato un ruolo determinante attraverso investimenti mirati in termini di ricerca di base e applicata. L’azienda controlla tutte le fasi della propria catena del valore: dalla tecnologia delle batterie ai microchip e persino alla proprietà delle miniere di litio e delle navi che trasportano le proprie auto. Quest’approccio si sta rivelando vincente, perché consente di gestire all’interno della propria organizzazione le incertezze tecnologiche e di mercato legate allo sviluppo di un prodotto con caratteristiche radicalmente nuove.[↩]
- “Le politiche della Cina potrebbero inondare il nostro mercato con i suoi veicoli, mettendo a rischio la nostra sicurezza nazionale”, ha affermato Biden. “Non lascerò che ciò accada sotto il mio controllo“. La strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden dell’ottobre 2022 non lascia dubbi sul fatto che la competizione con Pechino sia ormai il principio organizzativo della politica estera degli Stati Uniti. “La Repubblica popolare cinese”, si legge, “ha l’intenzione e, sempre più, la capacità di rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio”. I prossimi dieci anni, avverte, saranno il “decennio decisivo”, una frase che ripete cinque volte. Impedire alla Cina di superare gli Stati Uniti come economia più forte del mondo e affermarsi come egemone regionale nell’Asia orientale “richiederà agli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico più di quanto ci è stato chiesto dalla Seconda Guerra Mondiale”, un’affermazione preoccupante se si considerano le risorse che gli Stati Uniti hanno dedicato ai conflitti in Corea e Vietnam. È chiaro che il conflitto militare verrà messo sul tavolo nel caso in cui la concorrenza economica non andasse bene per gli Stati Uniti. Nonostante sia alle prese con grossi problemi (esplosione della bolla immobiliare, invecchiamento della popolazione, etc.), la Cina continua a trarre vantaggio dall’approfondimento delle relazioni commerciali con il mondo emergente, e i suoi vantaggi in termini di costi nella produzione di beni di consumo durevoli come le auto elettriche rappresenteranno probabilmente una seria sfida per gli Stati Uniti per decenni. Questa non è una situazione familiare agli americani: gli Stati Uniti vantano l’economia più grande del mondo dalla fine del XIX secolo, e sono lo Stato nazionale più potente a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora, per la prima volta da generazioni, la supremazia americana non può essere data per scontata e, in alcuni casi, la sua supremazia economica è già finita. Se adeguato alla parità di potere d’acquisto, il PIL della Cina ha superato quello degli Stati Uniti intorno al 2016. Molti chiamano questo fenomeno il passaggio da un’economia mondiale guidata dagli Stati Uniti a una “economia mondiale multipolare” caratterizzata dall’affermarsi di nuovi protagonisti come, ad esempio, i BRICS.[↩]