In una fase storica in cui l’attributo “green” viene iper-citato in tutti i campi semantici, assumendo di volta in volta molteplici connotazioni, da quelle più radicali, spesso vicine a un’etica pacifista e non antropocentrica, fino al populismo ambientale e a quelle più “compatibiliste” e talvolta belliciste (pensiamo ad esempio all’appoggio all’invio di armi in Ucraina così come l’ombrello NATO da parte dei Grunen tedeschi e di buona parte del partito Verde europeo), avere oggi la possibilità di leggere Antropocine – Lo schermo Verde – Manuale di percorsi e idee per un italian Ecocinema, di Marino Midena, edizioni Altreconomia, rappresenta una grande opportunità di approfondimento e riflessione perché è un libro di cinema e cultura ambientalista a tutto tondo. Un testo godibile, che può essere letto non solo da cinephile e ambientalisti, ma può rivelarsi una fonte di stimoli e riferimenti a cui attingere, per chiunque intenda sviluppare ulteriormente questo tema, articolato e quanto mai attuale, per dar vita a studi, iniziative ed eventi di approfondimento.
Nella cassetta degli attrezzi per decodificare il nostro contemporaneo, così intrinsecamente ambiguo e complesso, questo testo è quindi una bussola preziosa per orientarsi in un’ analisi storica e socio-antropologica del cinema legato all’ecologia. Il Cinema, forse più di altre arti, può mostrare e allo stesso tempo dimostrare, testimoniare e giudicare, con la sua componente narratologica, che lo lega alla letteratura.
Con un impianto manualistico “ecocritico” assai agile e discorsivo, proprio a partire dalla cultura in senso lato e dalla letteratura ambientalista nello specifico, prende le mosse questo affascinante viaggio dall’approccio trasversale e interdisciplinare, di “crossing”. L’ambito di studio è quello degli environmental humanities, che vogliono offrire strumenti analitici innovativi, puntando al superamento della frattura disciplinare tra cultura umanistica e cultura scientifica. in questo caso studiando i nessi e le relazioni tra i testi letterari e cinematografici con ambiti di studio diversi. E il testo nella prima parte si sforza proprio di delimitare l’ambito di ricerca, le metodologie utilizzate, i riferimenti teorici e i loro approdi, per provare a ricostruire una storia dell’Ecocinema italiano.
Ritroviamo perciò alcune riflessioni epistemologiche, che fanno riferimento agli studi sui rapporti tra Natura e Cultura, Mente e Ambiente richiamando tanti studiosi tra cui Edgard Morin, Gregory Bateson e la sua “Ecologia della Mente” che a livello internazionale, attraverso una prospettiva antropologica, ha dato un contributo fondamentale all’Ecocriticism, sia letterario che cinematografico.
È proprio il mutare graduale del rapporto Uomo-Natura, a partire dalla seconda metà del Novecento, a creare le premesse di quella categoria che il premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen, nel 2000, chiamerà poi Anthropocene – “la prima era geologica nella quale il globo e i suoi sistemi sono influenzati e modificati dall’azione umana più che da tutti gli altri processi naturali complessivamente considerati – e che l’autore Marino Midena ha scelto come fil rouge della sua ricerca che si snoda nel corso dei decenni, tra il XX e il XXI secolo, non disdegnando incursioni nel trapassato.
Partendo dagli albori fino ad oggi, appare chiaro che la paura ambientale si palesi già con “Metropolis” di Fritz Lang (1926) fino ad arrivare a “Light of my life” di Casey Affleck (2019), dimostrando una ampia trasversalità di genere e sperimentazioni affascinanti.
Ma se è vero che tutto il testo è costellato di continui rimandi a film che mostrano caratteristiche “green”, con sinossi e riferimenti iperstestuali che si muovono nel tempo e tra i generi, è molto interessante seguire come si è evoluta nel tempo la sensibilità italiana sui temi ambientali. Troviamo, a questo proposito, una rigorosa analisi critica delle produzioni dell’Istituto Luce nel ventennio fascista, incentrate su come il Cinema sia stato strumento di potere determinante per la ruralizzazione dell’Italia, promossa in ottica di propaganda e costruzione autoritaria dell’identità nazionale, con riferimenti alla bonifica delle aree paludose. Paradigmatica la retorica machista, dove Mussolini viene ripreso impegnato nei lavori agricoli e appunto nella bonifica pontina, “talvolta a petto nudo come un novello Maciste, personaggio che gli italiani avevano idolatrato nel film di Pastrone, “Cabiria” (1914)“. Lo stesso Mussolini che ordinò di “ampliare al massimo grado l’adozione di simile sistema come il migliore e più suggestivo mezzo di educazione e persuasione”. In soli tre anni quasi 5.000 comuni rurali in tutto il Paese furono coinvolti negli interventi di formazione realizzati grazie ai cineambulanti e alle auto-cinema, veicoli in grado di allestire proiezioni all’aperto che rendevano accessibili i filmati anche nei luoghi più sperduti delle campagne”.
Insomma la campagna demografica, agraria, identitaria del fascismo è stata strettamente legata al cinema come potente strumento di persuasione e inculturazione. Il testo ci ricorda che proprio per “l’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Luce, nel 1937, fu allestita una gigantografia del Duce dietro la macchina da presa con sotto la scritta LA CINEMATOGRAFIA È L’ARMA PIÙ FORTE“.
I decenni post bellici inquadrano l’evoluzione del rapporto città-campagna, che il Cinema rilegge in tutte le sue angolazioni. Ad esempio nell’idealizzazione del mondo rurale contadino contrapposto alla nuova centralità urbana (nella transizione tra Realismo e Neorealismo) spesso invivibile e ricca di contraddizioni. Si inizia a far strada un rapporto meno predatorio e di recupero dei valori “green” ante litteram, arrivando ad esempio nel primo Antonioni a descrivere il rapporto col fiume e l’ambiente quasi secondo i principi della deep ecology.
Di particolare interesse è il passaggio in cui viene ricordata l’importanza a partire dagli anni ’50, “dei film etnografici e antropologici, impegnati a raccontare un mondo in via di sparizione, con la sua cultura e le sue tradizioni, sono improntati al lavoro dell’antropologo Ernesto De Martino che guardò al folklore meridionale con uno sguardo nuovo. I riti e la sfera magico-religiosa, che in precedenza erano stati etichettati come “non cultura”, con De Martino acquisiscono dignità e interesse scientifico. Sulla scia del suo lavoro vengono realizzati numerosi cortometraggi antropologici come, nel 1952“,
Ma è a partire dagli anni ’60 e ’70 del boom economico e le sue stridenti contraddizioni che si creano in Italia, le prime associazioni e movimenti ambientalisti, con manifestazioni e proteste per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. La legge antismog del 1966, la legge Merli del 1976 per la tutela delle acque dei laghi e dei fiumi, la legge Galasso del 1985 per la tutela dei beni paesaggistici sono tre milestone legislative che vanno ricordate per comprendere la mutata attenzione da parte del mondo politico. “Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, con una eccezionale Monica Vitti, già 1964, aveva denunciato i traumi che la società dei consumi e la produzione fossile creano agli esseri umani in termini di alienazione e disumanizzazione. Nell’Italia dell’abusivismo e della speculazione edilizia selvaggia, in spregio alle bellezze ambientali e artistiche, Francesco Rosi girerà il suo capolavoro “Le mani sulla città” nel 1963, vincendo il Leone d’oro alla regia al Festival di Venezia.
Anche se primariamente concentrati sull’individuo e le sue inquietudini, così come sulle grandi conquiste sociali collettive, gli anni ’70 cinematografici iniziano per la prima volta a dare all’ambiente una nuova centralità. Bernardo Bertolucci, nel film “Novecento”, del 1976, non offre solo una ricostruzione storica dell’Italia rurale fino alla Seconda guerra mondiale, ma mostra la battaglia per i diritti dei lavoratori legati al territorio, in un cinema d’impegno sociale.
Continuando il continuo gioco di rimandi tra letteratura e cinema, Midena fa anche un approfondimento importante sugli autori letterari che meglio di tutti hanno rappresentato e descritto le tematiche dell’ecologia ovvero Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini (con la sua denuncia contro il capitalismo omologante e l’avanzata della modernità) e Mario Rigoni Stern: di quest’ultimo viene segnalato il documentario di Carlo Mazzacurati, “Ritratti: Mario Rigoni Stern” (1999).
L’ultimo capitolo, “Appunti per una definizione della Green Generation” non va spoilerato perchè è una miniera di informazioni e dettagli sugli ultimi decenni che arrivano fino ai giorni nostri, con le generazioni di registi che operano negli anni post Chernobyl (segnate dal trauma degli esiti del disastro della centrale nucleare del 1986) e post Kyoto (legate all’entrata in vigore nel 2005 del protocollo sulle emissioni climalteranti), e che indagano la natura nel cinema come elemento di complessità. Dai documentari al cinema di animazione, dai film distopici a quelli di denuncia, è tutto un brulicare di festival, eventi e premi (con importanti fondi messi a disposizione) dove il fattore Green è preminente e cruciale.
Insomma una lettura densa e dettagliata, che ci restituisce una mappa preziosa, diacronica e sincronica, dell’Ecocinema italiano, settore più che mai vivace e in evoluzione creativa.
Leonardo Ragozzino