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Giacomo Matteotti, cento anni dopo

di Sergio
Dalmasso

Un socialista riformista –

Se il cinquantenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti era passato in sordina, anche a causa della complessa situazione politica italiana, se per decenni la sua figura è stata ricordata limitandola agli ultimi, drammatici, giorni (discorso alla Camera, rapimento, uccisione), il centenario permette una riflessione più ampia sulla sua figura e sulle vicende del socialismo italiano negli anni che vanno dal primo dopoguerra all’avvento del regime fascista.

Matteotti nasce nel 1885 a Fratta Polesine, da una famiglia benestante, di possidenti. La ricchezza della famiglia e i sospetti sulle sue origini, legati all’accusa di usura, gli costeranno attacchi e calunnie sino alla definizione di socialista milionario, legata anche al suo portamento aristocratico.
Il bisogno di giustizia e di solidarietà, in un’area geografica segnata da povertà del mondo contadino, malattie endemiche, disoccupazione, gli fanno considerare come privilegio la propria condizione e lo spingono, giovanissimo, ad iscriversi alla organizzazione giovanile del PSI e, nel 1904, al partito.
Laureato precocemente, nel 1907, è incerto tra la carriera accademica e l’impegno politico, ma scioglie l’incertezza con molti incarichi amministrativi, con l’assidua collaborazione al periodico polesano “La lotta”, nel 1914 con la partecipazione al congresso nazionale del partito, sino all’elezione al parlamento, nel 1919 (rinnovata, quindi, nel 1921 e nel 1924).
Nel PSI, Matteotti si colloca nella componente riformista. Questa perde la maggioranza nel 1912, al congresso di Reggio Emilia, quando viene espulsa la corrente di destra (Bissolati) accusata di appoggiare il governo Giolitti anche dopo l’inizio della guerra di Libia. L’accusatore più netto e reciso è il romagnolo Benito Mussolini, nominato direttore dell’“Avanti!” che modificherà nettamente nell’impostazione e nello stile giornalistico. Segretario politico è Costantino Lazzari.
Questo riformismo si caratterizza per il rifiuto del massimalismo, dell’estremismo verbale, per l’attenzione alle questioni amministrative, ai temi tecnici, economici, finanziari, per l’opposizione alla proposta dello sciopero generale che l’“Avanti” reitera con insistenza (prova generale della grande rivoluzione che sostituirà la classe dominata alla dominante).

È netta la sua opposizione all’intervento nella grande guerra. È durissimo contro il trasformismo di Mussolini, passato nel giro di breve tempo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante (fondo sull’“Avanti” del 18 ottobre 1914), ma anche critico verso l’atteggiamento ambiguo ed incerto del partito (Né aderire né sabotare) e verso l’appello di Turati, dopo la rotta di Caporetto (1917), per la concordia nazionale. Può sembrare contraddittorio, in lui socialista riformista,  ma non lo è, il sostegno a Karl Liebknecht, unico parlamentare tedesco a votare, nel dicembre 1914, contro i crediti di guerra: “Il figlio di Wilhelm Liebknecht raccoglie la lampada, il fuoco sacro del padre e solo contro tutto un parlamento… riafferma l’internazionale di lavoratori… Uno solo in un parlamento di centinaia. Ma quell’uomo salva l’Internazionale”1.
È singolare, nel corso della guerra, una sua previsione, preoccupata sull’esito della stessa e sull’apertura di nuove contraddizioni, che richiama quelle dello stesso Liebknecht e di Rosa Luxemburg, pure collocati in una componente socialista da lui molto lontana e- su posizioni del tutto diverse- di Keynes: “Il militarismo è essenzialmente violenza… La vittoria della Triplice Intesa preparerebbe inevitabilmente nuove guerre; il popolo tedesco non potrebbe non preparare la rivincita”2.

Il dopoguerra lo vede critico verso il bolscevismo, la rivoluzione russa di cui si conosce poco e che comunque non è proponibile in Italia. Le proposte dei massimalisti sono velleitarie, forzano la realtà. L’espressione dittatura del proletariato cela il rischio di dominio di pochi, senza la partecipazione di base dei lavoratori.
Le lotte contro il carovita e la disoccupazione, la protesta contro il peggioramento delle condizioni materiali, nella difficile riconversione dell’economia dopo la fine del conflitto, possono portare ad una rivoluzione socialista?
Possono farlo pensare la crescita esponenziale del Partito socialista e della CGIL, le organizzazioni di fabbrica, le lotte contadine, l’esempio di quanto accaduto in Russia e la popolarità di Lenin. Ancora, la crescita delle lotte operaie e contadine che hanno il loro culmine nel 1920 e si inquadrano nella spinta complessiva, a livello europeo, del “biennio rosso”.

Se la lettura dei fatti porta la componente comunista a scindere il PSI al congresso di Livorno, ritenendo che il partito non abbia dato risposta alle istanze rivoluzionarie e non sia, quindi, strumento utilizzabile per una politica di trasformazione, la componente riformista non crede possibile e matura una rottura rivoluzionaria, ipotizza come più credibile una scelta gradualista.
Matteotti in particolare teme che le proteste e la rabbia di massa, senza una direzione politica, possano essere usate dal crescente movimento fascista. Il crollo del regime borghese non è automatico e lo schema russo non può essere trasposto meccanicamente.
Le elezioni del 1919, le prime con sistema proporzionale, vedono un netto successo di socialisti e popolari. È l’affermazione dei partiti di massa, con base popolare e radicamento territoriale.
Matteotti è eletto nella circoscrizione di Ferrara e Rovigo, dove il PSI tocca il 72%. Si distingue sui temi, a lui cari, tributari, del bilancio dello Stato e del rapporto con i comuni.
Lo scacco seguito all’occupazione delle fabbriche (affermazione sindacale, ma sconfitta politica) e  la reazione padronale (agrari ed industriali) producono la crescita esponenziale del movimento fascista.

Il congresso di Livorno del PSI, nel gennaio 1921, segna la scissione che dà vita al Partito comunista d’Italia. Il parlamentare polesano insiste sull’unità del partito, sul fatto che il socialismo nasca dalla crescita della coscienza collettiva e non dall’atto di una minoranza che porti alla conquista violenta del potere politico. La volontà comunista e della terza Internazionale, accettata dai massimalisti, di espellere i riformisti è errata perché non compresa dai lavoratori e perché produce tronconi inefficaci: “Il comunismo, a chiacchiere, si è diviso da noi per esercitare un’azione più forte contro la borghesia; ma a fatti per essere ridotto a una minoranza, per incapacità di agire non ha servito ad altro che a dividere e danneggiare il proletariato”3).
Le elezioni del maggio 1921 avvengono in un clima di violenza: morti e feriti. Poche settimane prima, a marzo, Matteotti viene sequestrato, bastonato, minacciato. Gli si chiede di abbandonare qualunque attività politica e lo si lascia in campagna, costretto a raggiungere Rovigo a piedi.
Il PSI, per quanto in calo, resta il primo partito (24,7%). 4,6% al PCd’I, 20,4% ai popolari, 10,4% ai liberali, 19,1% al listone del Blocco nazionale. I fascisti entrano in parlamento con 35 deputati. Nel continuo alternarsi di governi, le loro violenze si moltiplicano, in un gioco delle parti tra la forza usata nelle piazze e le dichiarazioni tendenti a presentarsi come garanti dell’ordine contro il pericolo bolscevico. Il PSI resta paralizzato tra l’estremismo verbale dei massimalisti e la non volontà dei riformisti di collaborare, a livello governativo, con le formazioni moderate. I comunisti continuano ad ipotizzare prossima la rivoluzione (Fare come in Russia).

Segretario del PSU

Nuova rottura, nel partito, si ha nell’ottobre 1922, per paradosso proprio alla vigilia della marcia su Roma. Una stretta maggioranza del partito espelle i riformisti che formano il Partito socialista unitario (PSU). Su proposta di Turati, Matteotti è eletto segretario nazionale.
La sinistra, ormai con tre partiti (PSI, PdCI e PSU) è anche socialmente e istituzionalmente sconfitta dalla crescita esponenziale del movimento fascista che il 28 ottobre, con la marcia su Roma, ottiene l’investitura di Mussolini a capo del governo. Ultimo tentativo di resistenza è stata, ad agosto la proclamazione dello sciopero legalitario nazionale, fallito in modo tale da rafforzare le spinte eversive e da spingere ulteriormente a favore di Mussolini industriali e a monarchia.
Il nuovo partito si colloca come interprete della tradizione riformista italiana, raccoglie la maggioranza dei parlamentari, ma ha scarso radicamento territoriale. Ancora, non mancano, al suo interno, contraddizioni profonde. Se l’antifascismo del segretario è netto e totale, come testimonia una sua lettera a Turati: “Fino a quando occuperò il posto di segretario del Partito agirò obiettivamente come tale e pretendo di essere creduto. Se i compagni non credono, non hanno che un mezzo: sostituirmi”, alcune posizioni sembrano protendere al possibilismo4, a forme di collaborazione, in nome del passato socialista di Mussolini, della situazione emergenziale, di incertezza nello stesso sindacato che respinge l’appello comunista allo sciopero generale. Egualmente “attendista” è la Lega delle cooperative.
La sua gestione del partito tende ad una riunificazione dei socialisti, è contraria all’ipotesi di unione con il PCdI, guarda al socialismo europeo sino ad ipotizzare la Lega delle nazioni e gli Stati uniti d’Europa. La carta d’identità del PSU è definita nelle Direttive (1923) in cui si ribadiscono le caratteristiche di un socialismo democratico contrario al protezionismo, favorevole alla libera iniziativa, teso ad una politica di trasformazioni progressive, molto attento al tema dell’istruzione, volano per quella trasformazione delle coscienze, base di quella politica.
Da queste posizioni derivano la proposta di un fronte unico per riconquistare la libertà e la democrazia, che si accompagna, però, alla totale opposizione a qualunque accordo con il PCdI.
Quando, all’approssimarsi delle nuove elezioni, Togliatti, propone, a nome dei comunisti, un blocco elettorale dei partiti di sinistra, la risposta è immediata e negativa. Le condizioni poste da Togliatti sono vincolanti e assurde, non possono che essere rigettate. I comunisti, come i fascisti tendono ad una dittatura che nega le libertà politiche e civili e subordina le masse lavoratrici.
“Le vostre proposte , apparentemente formulate a scopo di fronte unico, sono in sostanza lanciate ad esclusivo scopo di polemica coi partiti socialisti e di nuove inutili dispute… Restiamo ognuno quel che siamo: voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze, noi siamo socialisti per il metodo democratico delle libere maggioranze… Perciò, una volta per tutte, vi avvertiamo che a simili vostre proposte non abbiamo nulla da rispondere!”5.
Così pure è negativa la risposta all’invito di manifestazione unitaria  il 1 maggio.

Le elezioni del 1924 e il discorso del 30 maggio

Le elezioni anticipate si svolgono con la nuova legge elettorale (Acerbo) che cancella il sistema proporzionale, in vigore dal 1919, e introduce il meccanismo maggioritario con forte premio di maggioranza (evito tristi paralleli con i sistemi elettorali attuali).
Il voto, il 6 aprile 1924, avviene in un durissimo clima di violenze. Il listone fascista ottiene il 60% dei consensi. Una seconda lista fascista ha il 5%. I popolari scendono al 9%. A sinistra, in una frontale sconfitta complessiva, il PSU è il primo partito con il 5,9%, il PSI- che ha rifiutato la fusione con i comunisti- è al 5%, il PCd’I (sotto la sigla Unità proletaria) al 3,7%.
Il 30 maggio, la camera si riunisce per convalidare il risultato e nominare i parlamentari.
Matteotti, che pochi mesi prima ha pubblicato Un anno di dominazione fascista, interviene per denunciare l’irregolarità delle elezioni e per chiedere che non vengano convalidate. Oratore di grande precisione, documentatissimo, ma di scarso fascino (il confronto con la “retorica” ottocentesca di Turati e con “l’appello ai sentimenti” di Nenni è d’obbligo), il parlamentare polesano  denuncia la legge elettorale e il risultato prodotto da una autentica truffa.
Anche alla Camera, il clima è teso. Il presidente Alfredo Rocco lo invita ad intervenire prudentemente. La risposta è: “Io chiedo di parlare non prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente”.
Le interruzioni e provocazioni sono continue. Il testo che non dovrebbe superare i trenta minuti, dura, per questo, circa un’ora e mezza.

Emilio Lussu narrerà i fatti accaduti nel suo Marcia su Roma e dintorni: “Contro le violenze elettorali prese la parola nell’assemblea il deputato Giacomo Matteotti… e sostenne l’invalidità delle elezioni. I deputati fascisti reagirono violentemente. Per un momento, sembrò che, nell’aula, il dibattito finisse tragicamente. L’on. Matteotti terminò il suo discorso fra gli urli minacciosi della maggioranza. Riprendendo il suo posto egli disse scherzosamente ai suoi amici: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. I giornali fascisti,commentando la seduta alla Camera, chiamano imperdonabile la tolleranza dimostrata dai deputati fascisti verso l’on. Matteotti”6.
Le elezioni non sono state libere. La forza e la violenza le hanno impedite nella maggior parte dei casi. La milizia fascista è stata presente nei seggi, la propaganda della minoranza è stata impedita, in alcuni casi non è stato possibile presentare le liste. Vengono denunciati puntualmente, tra continue interruzioni e minacce, le situazioni di illegalità (Melfi, Iglesias, Puglia, Genova…).
Roberto Farinacci sbotta: “Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto… Vi faremo cambiare sistema”.

La propaganda elettorale (manifesti, assemblee, comizi) non è stata libera. Conferenze sono state impedite da bande armate. Molti candidati non hanno potuto circolare liberamente neppure nella propria circoscrizione, né risiedere nelle proprie abitazioni. Molti non hanno accettato, per timore, la candidatura (avrebbe significato perdere il lavoro o dover emigrare all’estero).
“Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario che è al governo e dispone di tutte le forze armate”.
Nei seggi, presidiati dal partito dominante, non vi è potuta essere presenza di rappresentanti di lista delle opposizioni, unico controllo e garanzie per la regolarità delle operazioni. Nella più parte dei casi, il voto era controllato. Molti voti di preferenza sono stati scritti dalla stessa mano.
“Coloro che ebbero la ventura di votare e raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, la visita di coloro che erano incaricati di controllare il loro voto… Solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto… noi domandiamo l’annullamento in blocco delle elezioni… Non continuate più oltre a tenere la nazione divisa in padroni e sudditi, perché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta… Noi difendiamo la libertà sovrana del popolo italiano… e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza”.
La libertà può produrre errori, ma il popolo italiano può sapersi correggere da sé. Il governo vuole invece dimostrare che, nel mondo, solamente il nostro popolo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza.
Il caos è totale. L’onorevole Francesco Giunta risponde di essere “squadrista nel paese e squadrista a Montecitorio” e di non prestarsi al gioco della congrega che va da Amendola a Matteotti: “Noi quindi cercheremo di mettere a posto quella masnada di uomini”.
Altre e pesanti sono le minacce, in aula e fuori. Arnaldo Mussolini sostiene che la provocazione meriti una “risposta più concreta dell’epiteto di canaglia urlatogli alla Camera dall’on. Giunta”.

L’omicidio. L’Aventino

Alle 16.15 del 10 giugno Matteotti esce di casa per recarsi alla Camera. Il giorno successivo deve intervenire sul bilancio dello Stato per denunciare un “buco” che non compare nella relazione ufficiale.
Pochi minuti dopo, in lungotevere Arnaldo da Brescia, il parlamentare viene sequestrato, da una squadraccia capitanata da Amerigo Dumini, gettato all’interno di una limousine Lancia che parte verso ponte Milvio e la campagna. Reagisce all’aggressione, gettando sul marciapiede il tesserino da parlamentare e rompendo un vetro dell’auto. Gli vengono sottratti gli appunti (cartella, busta?) per il discorso che avrebbe dovuto tenere il giorno successivo. Gli aggressori lo pugnalano. Il corpo viene sepolto in campagna.
Già nel 1921 era stato sequestrato, nel suo Polesine, bastonato (forse violentato) ed abbandonato a chilometri da Rovigo che aveva dovuto raggiungere a piedi.
Esplode il caso. Fascisti e giornali non mancano di insinuare che la scomparsa potrebbe essere dovuta a “questione di donne”. Il 14 giugno, tre sospettati del sequestro vengono arrestati. Il 15, “L’Unità” pubblica la confessione di uno degli assassini.
Il 27 giugno, alla Camera, Turati tiene l’elogio funebre. Le opposizioni decidono di non partecipare più ai lavori parlamentari e si costituiscono in assemblea autonoma (l’Aventino).
Il 16 agosto, il corpo viene ritrovato nella macchia della Quartarella, sulla via Flaminia, a venti chilometri dalla capitale. La salma viene trasportata a Fratta polesine, in treno, in un viaggio che si svolge di notte, con l’ordine di evitare ogni manifestazione durante il percorso.
È la più grave crisi del fascismo, sino a quella del 1943. È l’unico caso, nel ventennio, in cui il governo Mussolini sembra sul punto di cadere. L’Aventino, però, mostra tutte le proprie contraddizioni. Le forze moderate temono il sovversivismo comunista e confidano in un intervento della Monarchia che sfiduci il governo in carica per una transizione dolce. Amendola confida, addirittura, in una azione militare di forze combattentistiche antifasciste. Viene respinta la proposta comunista di costituirsi in “antiparlamento”, come pure quella di uno sciopero generale. Pesa il timore di ripetere il fallimento dello sciopero legalitario del 1922. Il PCd’I, vista l’inutilità di posizioni attendiste, rientra alla Camera il 26 novembre. Già il 12, Luigi Repossi era rientrato per  commemorare il segretario del PSU.
Il 3 gennaio 1925, superata la tempesta, Mussolini interviene con durezza estrema. È il vero inizio del regime che si attuerà con le leggi fascistissime. Questo atto, nel 1944, verrà definito colpo di Stato: Assumo (io solo) la responsabilità (politica! Morale! Storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere a me la responsabilità di questo, perché questo clima, storico, politico e morale io l’ho creato… Il Fascismo, governo e partito,è in piena efficienza. Signori, vi siete fatti delle illusioni… Il governo è abbastanza forte, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa, gliela daremo con l’amore, se possibile, con la forza, se sarà necessario”.
Nel novembre 1926,  saranno dichiarati decaduti dalla carica tutti i parlamentari aventiniani e sciolti per legge tutti i partiti. Causa contingente l’attentato alla vita di Mussolini da parte di Anteo Zamboni (tre gli attentati precedenti: novembre 1925, Tito Zaniboni; aprile 1926, Violet Gibson; settembre 1926, Gino Lucetti). Il PSU era stato sciolto per legge, a fine 1925, perché ne faceva parte Tito Zaniboni.
L’assassinio ha una enorme eco, a livello nazionale ed internazionale. Se, in Italia, il regime trema per alcuni mesi, in tutti i paesi europei, viene teorizzata l’antitesi Mussolini- Matteotti, carnefice e vittima7. È noto il ritorno all’impegno di Gaetano Salvemini, dopo un periodo di crisi, tra il 1921 e il 1924.
Si moltiplicano i memoriali che accusano esplicitamente il capo del governo di essere mandante, o almeno complice, dell’omicidio. Il 28 dicembre 1924 è stato pubblicato il memoriale di Cesare Rossi; forte il suo impatto, certamente una delle cause della dura replica di Mussolini, pochi giorni dopo.
Il processo contro i rapitori, iniziato il 16 e terminato il 24 marzo 1926, si trasforma immediatamente in una farsa. Viene spostato da Roma a Chieti e deve avvenire, secondo il governo, evitando ogni aspetto politico e ogni coinvolgimento del governo e del partito dominante, nell’indifferenza generale (Mussolini: “Si deve evitare che l’Italia torni a matteottizzarsi dopo due anni di guarigione”. Scrive Dumini: “Un delitto da noi commesso, certamente, ma che ci fu imposto e che noi eseguimmo come tanti altri prima di quello, con cieca disciplina e dopo che ci fu garantita, in modo assoluto, qualsiasi immunità penale”.
Il difensore degli imputati è Roberto Farinacci che si propone di trasformare il processo in accusa ai veri imputati: gli oppositori al fascismo. L’accusa di omicidio volontario è modificata in quella di omicidio preterintenzionale. La sentenza è di condanna per Dumini e due soli complici, a cinque anni, undici mesi e venti giorni di carcere, ma l’amnistia di quattro anni riduce il periodo carcerario a pochi mesi8.
Il processo, dichiarato nullo quello del 1926, sarà riaperto nel dopoguerra. Il 3 aprile 1947, Dumini, Giuseppe Viola (latitante) e Amleto Poveruomo sono condannati all’ergastolo, poi ridotto a trent’anni di reclusione. Gli altri due autori del sequestro sono scomparsi nel frattempo.
Poveruomo morirà nel 1952. Dumini sarà scarcerato nel 1953, tornerà in carcere nel 1954, per essere definitivamente graziato nel 1956.

Perché il delitto?

Giacomo Matteotti, con un discorso tenuto alla Camera nel 1921, con la pubblicazione di Un anno di dominazione fascista (1924), ancor più con il discorso del 30 maggio 1924, rivolto anche ai “collaborazionisti” presenti nel suo partito, diviene il più netto oppositore del governo Mussolini. “Il popolo d’Italia” il 3 maggio 1924 definisce il parlamentare polesano mistificatore, vigliacco e ruffiano: “Che se dovesse capitargli di trovarsi, un giorno o l’altro, con la testa rotta (ma proprio rotta), non sarà certo in diritto di dolersi dopo tanta ignobilità scritta e sottoscritta”.
L’omicidio serve quindi a far tacere l’oppositore più reciso, a dare un esempio, a riproporre il ruolo del lato più militante  e intransigente del partito. Alcuni storici insistono sulla volontà del capo del fascismo di dare una lezione, senza arrivare all’assassinio. Dumini avrebbe ecceduto.
È testimoniata, al contrario, una riunione, la notte fra il 12 e il 13 giugno, tra Rossi (capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio), Finzi (sottosegretario), Marinelli (segretario amministrativo del PNF), De Bono (capo della polizia e della milizia), si parla espressamente della responsabilità diretta del duce e dell’esistenza di una “ceka fascista”. Confermano questa tesi anche i vari memoriali degli esecutori che minacciano di coinvolgere i vertici del partito.
Alla pista politica si aggiunge quella affaristica. Nell’aprile 1924 viene votata la concessione per ricerche petrolifere sul territorio nazionale alla statunitense Sinclair, legata alla Standard Oil che vuole impedire l’ingresso, in Italia, di una compagnia inglese.
È probabile che Matteotti abbia raccolto documentazione sul caso, grazie al rapporto con il Labour party inglese. Un quotidiano inglese scrive, il 17 giugno, che avrebbe inteso denunciare scandali legati a concessioni petrolifere e bische che avrebbero coinvolto anche la famiglia del capo del governo e la stessa monarchia. La bastonatura (poi trasformatasi in assassinio) di Matteotti sarebbe stata decisa anche per sottrargli documenti quanto mai pericolosi per il regime e per il re.
È questa la tesi fortemente sostenuta da Mauro Canali9 che sottolinea la precisa e diretta responsabilità del governo e del suo leader.
Una terza tesi, non comprovata, ipotizza che l’omicidio sia servito per impedire una svolta nella politica di Mussolini, che, anche a causa del suo passato socialista e sovversivo, avrebbe avuto l’intenzione, nell’estate del 1924, di modificare il governo, aprendo ad elementi socialisti e del sindacato. La mano libera agli squadristi avrebbe significato, al contrario, il ritorno al fascismo originario (De Felice teorizza la contraddizione tra fascismo movimento e fascismo regime).

Il mito. Le interpretazioni

Per tutto l’antifascismo, il segretario del PSU assurge al ruolo di martire contro la dittatura. In Matteotti, il mito (Pisa, Nistri Lischi, 1994), Stefano Caretti, ricostruisce le tante testimonianze che vengono inviate alla vedova, le lettere, le dichiarazioni… All’estero il nome diventa simbolo dell’antifascismo. Non è un caso che, nella guerra civile spagnola, operi un battaglione Matteotti e che nella resistenza italiana le formazioni socialiste assumano lo stesso nome.
La moglie10 e i figli sono fatti oggetto di controllo continuo, a cominciare dallo stesso funerale che avviene sotto stretta vigilanza poliziesco, sino al divieto di deporre fiori rossi.
Come ha sottolineato il grande Sebastiano Timpanaro, la personalità di Matteotti ha subito un danno dal culto seguito alla sua morte e continuato nei decenni. Il paradosso consiste, cioè, nella fama seguita alla tragica scomparsa, all’enorme numero di strade, piazze, edifici pubblici che portano il suo nome e la non conoscenza della sua attività partitica e del suo pensiero.
Matteotti è il coerente martire antifascista, ma non è conosciuto come socialista riformista.

Il primo giudizio è dato da Filippo Turati su “La Critica sociale” che usa l’espressione il nostro eroe. È articolato il giudizio di Gramsci che parte dal riconoscimento della grandezza personale e della coerenza, ma mette in luce i limiti della proposta riformista, la contraddizione della sua generazione: “L’azione loro, mentre faceva crollare i cardini di un sistema economico, non prevedeva la creazione di un diverso sistema, nel quale i limiti del primo fossero per sempre superati e abbattuti… Dava ad una classe coscienza di sé e dei propri destini e non le dava l’organizzazione di combattimento, senza la quale questi destini non si potranno mai realizzare”11.
Quel sacrificio può essere onorato solo attraverso l’impegno del partito comunista e dell’Internazionale. Non è un caso che lavoratori aderenti al partito riformista abbiano chiesto di militare nel PCd’I.
“Solo per essi (i militanti comunisti) la classe operaia cesserà di essere ‘pellegrina del nulla’, cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio”12.
Massimo L. Salvadori nota, polemicamente, due diversi giudizi di Pietro Nenni,  che nel 1924, presenta un Matteotti conscio dei limiti del riformismo, ma consapevole delle condizioni per vincere la battaglia e, nel 1954, in un clima ancora frontista ripropone una accentuazione appiattita su quella del PCI: “Fu suo onore, come del suo maestro Turati, porsi contro il fascismo con uno spirito di negazione totale e di intransigenza assoluta, il quale, però, nasceva da una disperazione inconciliabile col compito di organizzare le masse”13.
Piero Gobetti esprime lode per la fermezza di carattere, la cultura, il sacrificio, ma mantiene le riserve, sempre espresse, verso il riformismo turatiano, accusato di diseducare le masse e di mancare di spirito ideale, tanto che, nella sua parte politica, Matteotti spesso è stato isolato, tanto che la sua intransigenza ha cozzato con un socialismo italiano fatto di loquacità provinciale, di fiera delle vanità, di consolazioni da desco piccolo-borghese.
Nel dopoguerra, l’ennesima scissione in campo socialista fa sì che la figura del deputato socialista sia rivendicata soprattutto dalla socialdemocrazia e ridotta da PCI e PSI all’immagine di martire.
Tardano le pubblicazioni delle sue opere. I Discorsi parlamentari vedranno la luce solamente nel 1970, per iniziativa di Sandro Pertini. Scrive Salvadori, con intento fortemente polemico contro la sinistra massimalista, rivoluzionaria, socialista e comunista: “Matteotti fu il teorico e il rappresentante di quello che definiva ‘riformismo rivoluzionario’… rivolto sia contro il riformismo moderato di natura compromissoria, sia il velleitario estremismo rivoluzionario- finalizzato alla conquista di una società socialista e democratica… Il riformismo rivoluzionario di Matteotti rimane senza seguaci: attende ancora di essere capito e di diventare una fonte di ispirazione per l’azione”14. 

È indubbio che questa figura debba essere ricordata e valorizzata. È ancor più indubbio che l’iniziale sottovalutazione del fascismo (semplice variante del regime borghese) e più ancora la folle teoria del socialfascismo pesino sul movimento comunista. Il recupero di aspetti positivi della tradizione riformista non può e non deve, però, essere assunto come unica chiave di lettura, secondo quanto propone il senso comune oggi prevalente a sinistra.
La sconfitta nei primi anni ’20 (ma le similitudini con l’oggi non sono forzate) ha coinvolto tutte le anime della sinistra ed è sbagliato attribuirne la responsabilità ai soli comunisti e alla certezza di meccanica riproducibilità dell’ottobre sovietico nei paesi dell’Europa occidentale.
Riformisti e massimalisti si sono dimostrati incapaci di dare sbocco ed interpretazione al grande ciclo di lotte proletarie del biennio 1919- 1920, il cedimento davanti al fascismo è responsabilità collettiva, dal rifiuto comunista di adesione agli Arditi del popolo, alle speranze riformiste e democratico- liberali di arrivare ad un patto di pacificazione con il fascismo. Così, ancor dopo il 1922, albergano posizioni di attendismo, di collaborazionismo (si pensi al primo esecutivo Mussolini). La stessa gestione dell’Aventino dimostra la illusoria fiducia nella monarchia, nelle forze nazionaliste, il timore verso il piccolo PCd’I (la gestione gramsciana è breve e data dal 1924 al 1926) di cui vengono respinte le proposte di sciopero generale e di costituirsi in antiparlamento.
Così, se sono comprensibili le critiche di Matteotti sugli sviluppi della rivoluzione sovietica e le riserve sulla politica del PCd’I, è discutibile il rifiuto a forme di unità di azione (si pensi al categorico rifiuto di manifestazioni unitarie il 1 maggio 1924).
Simili cedimenti e simili semplificazioni (certezza di uno sbocco rivoluzionario o appiattimento sulle istituzioni) si manifesteranno nella drammatica situazione tedesca dei primi anni ’30.

Riferendomi ai testi recentemente pubblicati e alle manifestazioni giustamente organizzate nel centenario della morte del socialista polesano, credo che – se è giusto richiamare e rivendicare il suo riformismo attivo (rivoluzionario) – giudizi critici su altre matrici (in specifico quella comunista) siano motivati, ma dovrebbero essere maggiormente contestualizzati, evitando di farne oggetto di polemica politica che oggi non dovrebbe avere motivazioni (penso all’uso, nel quindicennio craxiano, della polemica storico-storiografica a fini di partito).

Sergio Dalmasso

  1. Giacomo Matteotti, Sul riformismo, a cura di Stefano Caretti,  Pisa, Nistri Lischi, 1992, p. 85.[]
  2. Giacomo Matteotti, Socialismo e guerra, a cura di Stefano Caretti, Pisa, University press, 2013, p. 94.[]
  3. Giacomo Matteotti, Sul riformismo, cit., p. 323.[]
  4. Gino Baldesi parla della necessità di un periodo di attesa. Nel dibattito sulla fiducia al governo Mussolini (novembre 1922) Ludovico D’Aragona riafferma la autonomia del sindacato rispetto ad ogni partito politico.[]
  5. Giacomo Matteotti, in Sul riformismo, cit., p.386. Il testo, con il titolo Alla Direzione del Partito comunista, è comparso su “La Giustizia” il 17 aprile 1924.[]
  6. Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Torino, Einaudi, 1965, pp. 154-155.[]
  7. È interessante, dopo la morte di Gramsci (1937), la riproposizione, in termini simili, di questa antitesi fra la personalità trionfante del Duce e quella del rivoluzionario sardo.[]
  8. La biografia di Dumini (si presentava: Dumini, nove omicidi), dallo squadrismo fascista ai comportamenti successivi, è esemplare dell’intreccio tra milizia fascista e criminalità.[]
  9. Cfr. Mauro Canali, Il caso Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Camerino, Istituto di studi storico- filosofici- giuridici- politici, 1996 e Il delitto Matteotti, Bologna, Il Mulino, 2024.[]
  10. Velia Titta (1890- 1938), poetessa e romanziera. Conosce Matteotti nel 1916, in vacanza all’Abetone. Il matrimonio è civile, nonostante i suoi sentimenti religiosi. Nasceranno tre figli. Negli anni ’30, la cattiva gestione del patrimonio causerà pesanti problemi finanziari, risolti grazie a prestiti, favoriti dallo stesso Mussolini, anche per evitare lo scandalo di un eventuale espatrio.[]
  11. Antonio Gramsci, Il destino di Matteotti, in “Lo Stato operaio”, 28 agosto 1924.[]
  12. Ivi. Mi permetto di notare come siano pretestuose, da parte di numerosi storici di oggi, le critiche a Gramsci, accusato di aver definito Matteotti pellegrino del nulla. La citazione sopra riportata dovrebbe chiarire l’errore, in alcuni casi pretestuoso, di questa forzatura.[]
  13. In Stefano Caretti, Introduzione a Giacomo Matteotti, Scritti e discorsi vari, Pisa, Nistri Lischi, 2014, p. 37.[]
  14. Massimo L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio cent’anni dopo (1924- 2024), Roma, Donzelli ed., 2023, pp. 91- 92.[]
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