Gli eventi degli ultimi giorni hanno confermato che le guerre in corso possono rapidamente allargarsi e diventare sempre meno controllabili negli esiti militari e nelle implicazioni politiche. Non sappiamo, al momento di scrivere, quali saranno i prossimi sviluppi ed anche gli analisti tendono a brancolare nel buio.
In Ucraina il salto di qualità del conflitto è stato determinato dalla decisione di Kiev di compiere un’azione militare a largo raggio sul territorio russo. Operazione avviata in un contesto dalle rilevanti reminiscenze storiche, perché Kursk fu il luogo della più grande battaglia di mezzi corazzati tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista. In termini militare quello scontro, che coinvolse due milioni e mezzo di uomini, non è certo paragonabile a quello odierno, ma l’evocazione di un attacco diretto alla Russia apre scenari non facilmente prevedibili.
L’esercito russo, come avvenuto molte volte in questi due anni, è stato preso di sorpresa anche se poi ha sempre dimostrato di avere capacità e risorse per adattare la propria strategia e capovolgere seppure gradualmente la situazione sul terreno. Da parte ucraina l’azione è certamente rischiosa perché sposta uomini e mezzi su un ulteriore fronte di combattimento, quando già questi (ed i primi soprattutto) scarseggiano nella già lunghissima linea di battaglia del Donbass. Ma, evidentemente, Zelensky, forse da solo ma più probabilmente con qualche suggeritore occidentale, aveva bisogno di cambiare almeno la percezione dell’esito della guerra. Sia per tenere mobilitati i suoi concittadini sempre più stanchi di guerra che per far affluire soldi e armamenti dalle retrovie occidentali.
Le precedenti incursioni, attribuite a formazioni dissidenti russe con una forte caratterizzazione di estrema destra, erano state limitate e occasionali. Ora invece è direttamente l’esercito ucraino a mettere piede sul territorio della Russia. Le conseguenze militari saranno probabilmente scarse ma quelle politiche sono sicuramente importanti. Per il fronte interno di Putin potrebbe essere un problema e nell’immediato certamente l’opinione pubblica può chiedersi se l’invasione del febbraio 2024 sia stata una mossa saggia, ma anche un’opportunità. Viene confermato che la militarizzazione dell’Ucraina e il suo inserimento nel blocco militare occidentale, data la lunga di linea di confine esistente tra i due Stati, rappresenta un effettivo pericolo per la Russia e la sua sovranità.
Contemporaneamente si è alzato il livello dello scontro possibile sul fronte mediorientale. Ed è sempre più evidente che, sebbene vi siano ragioni specifiche all’origine della guerra in Ucraina e del genocidio dei palestinesi a Gaza, queste si inseriscono ormai in un’unica linea di conflitto tra l’Occidente e il resto del mondo. Parte di un processo di militarizzazione crescente dei rapporti internazionali e di costruzione di nuove linee conflittuali con all’orizzonte un possibile scontro globale con la Cina. La crisi dell’egemonia del capitalismo liberista e lo sviluppo delle sue contraddizioni interne hanno portato ad un processo di deglobalizzazione tutt’altro che virtuoso con il rafforzamento di nazionalismi a sfondo etnico e/o religioso.
In Medio Oriente si attende una possibile reazione dell’Iran all’omicidio mirato del leader politico di Hamas operato da Israele, del tutto illegittimo dal punto di vista del diritto internazionale ma non condannato da chi pure si arroga la rappresentanza di un ordine globale “basato-sulle-regole”. Gli stessi governi che hanno sempre garantito l’impunità assoluta ad Israele, qualunque sia il crimine di cui esso si macchia, invocano ora la prudenza al regime degli ayatollah. Indubbiamente Tehran di pazienza ne ha dimostrata molta quando agisce sulla scena mediorientale, molto meno di quanto ne riveli nella repressione interna dei comunisti e dei movimenti di opposizione.
In occasione della precedente provocazione israeliana, il bombardamento dell’ambasciata a Damasco, ha reagito con una risposta militare predisposta volutamente per non fare danni. Avvisando preventivamente tutti quelli che si potevano allertare e poi sparando droni e missili che avrebbero potuto essere facilmente intercettati. Doveva essere una mossa tesa a limitare il bellicismo dello Stato ebraico (o che tale si autodefinisce), ma in realtà da questo punto di vista si è dimostrata del tutto inefficace.
È evidente che da anni il governo israeliano punta a coinvolgere l’Iran in un conflitto militare di vaste proporzioni, contando sulla propria superiorità militare e sul sostegno attivo degli Stati Uniti. Anche in questa occasione Washington ha schierato le proprie portaerei a garanzia dell’impunità di Tel Aviv. Contemporaneamente ha deciso l’invio di una grande quantità di armamenti. Finora gli Stati Uniti di Biden hanno lasciato trapelare, attraverso la stampa, l’insoddisfazione per certe scelte di Netanyahu e del suo governo di fanatici religiosi e razzisti, ma alle telefonate non sono mai seguiti fatti concreti. Ad ogni passaggio si è riproposto il mantra del diritto all’autodifesa di Israele che si è tramutato in una illimitata licenza di uccidere palestinesi e diritto a bombardare qualsiasi paese mediorentale.
I due fronti dell’unica “grande guerra” in corso mettono in evidenza l’ipocrisia occidentale e di quello che è stato chiamato “il complesso militare-intellettuale”: i vari Bernard Henry-Levi in Francia o Paolo Mieli in Italia.
È evidente che quando si invoca il diritto internazionale si parla in realtà di due diversi sistemi di regole. Uno che viene applicato agli amici ucraini contro il nemico russo ed uno opposto che viene evocato a tutela degli amici israeliani contro il nemico palestinese, arabo o islamico o comunque lo si voglia definire.
In questo quadro si delinea sempre più chiaramente il ruolo bellicista di chi guida l’Unione Europea. Anche in questi giorni è stato espresso pieno sostegno alla pericolosa escalation militare ucraina in territorio russo. In prima fila si è collocata la Von der Leyen, in questo del tutto coerente con l’impostazione data alla sua campagna elettorale per la rielezione alla guida della Commissione europea. Il fronte dell’oltranzismo bellicista è variegato. I paesi baltici, la Polonia, gli scandinavi sempre in prima fila benché siano quelli che pure avrebbero da guadagnare da una inversione del processo di escalation militare. In Germania ci sono i liberali e i verdi, mentre i socialdemocratici sembrano militaristi riluttanti e ormai quasi indecisi a tutto. I francesi si sono esposti con Macron per un impiego diretto di militari europei sul campo, ma dopo la sberla elettorale hanno smorzato i toni guerraioli.
Una parte dell’estrema destra si trova invece fra i sostenitori della limitazione del conflitto in Ucraina e di una possibile soluzione contrattata. Non bisogna confondere queste posizioni, ad esempio degli ungheresi di Orban, per un sentimento pacifista. Gli stessi sono accanitamente favorevoli all’azione israeliana di sterminio dei palestinesi.
Non c’è contraddizione in realtà perché a guidarli sono simpatie ideologiche, oltre che interessi di politica interna. Sono passati dal razzismo antisemita, che pure continua a serpeggiare sottotraccia, al razzismo antiarabo che alimenta la xenofobia e le ossessioni antimigratorie. Si aggiunga una certa simpatia per gli aspetti più reazionari delle politiche putiniane. La, presunta, guerra di civiltà, nella quella in realtà viene sconfitta ogni forma di civiltà, funziona in modi diversi in entrambi i casi. Israele viene sostenuta in quanto territorio di frontiera nello scontro anti-arabo e anti-musulmano. Per giustificarlo si è via via costruita una revisione della storia reale con l’invenzione di una comune civiltà “giudeo-cristiana”. Con Putin si può concordare nella difesa di una altrettanto inventata “famiglia tradizionale”.
Pur avendo ben chiaro ragioni e contenuti delle posizioni assunte da settori di estrema destra sulla guerra in Ucraina (ma non sul conflitto mediorientale), si tratta di capire se questi conflitti e contraddizioni possano comunque favorire una messa in discussione dell’ultrabellicismo dell’Unione Europea.
Purtroppo, finora, la guerra in Ucraina (e ora anche in Russia) ha aperto profonde fratture nel campo della sinistra alternativa che hanno impedito a questo arco di forze di svolgere un ruolo politico significativo. Nei giorni scorsi il quotidiano tedesco Neues Deutschland, vicino alla Linke, ha pubblicato un lungo articolo che equiparava il conflitto in corso all’est dell’Europa con quello del Vietnam. Il succo del ragionamento era che chi si era battuto per il Vietnam, e si citavano i movimenti degli anni ’60, doveva ora collocarsi nello stesso modo a difesa dell’Ucraina.
Paragone assai discutibile per molti motivi. Per citarne solo alcuni è evidente che siamo di fronte a due diverse letture dello scenario e delle tendenze globali. Da un lato chi vede all’opera l’imperialismo russo che vuole appropriarsi dell’Ucraina e poi magari estendere la sua presa su altri Stati. Dall’altro chi cerca di cogliere le ragioni più complesse del conflitto e il suo collocarsi dentro ad una tendenza, in cui l’Occidente e l’UE hanno un ruolo primario, a costruire un nuovo conflitto globale sempre più militarizzato. Per questo i rischi globali di una guerra in Ucraina sono assai più elevati di quelli della guerra in Vietnam.
In secondo luogo si sottovaluta la capacità politica dei comunisti vietnamiti di capire quali erano le effettive condizioni di forza e i possibili esiti del conflitto. Si dimentica facilmente che il Vietnam combatté contro i francesi e accettò la divisione in due del paese per trent’anni. E nella successiva guerra con gli Stati Uniti mise fine al conflitto con un accordo che non prevedeva l’unificazione del Paese. Fu il ritiro americano e il tracollo del regime del sud ad aprire la strada alla riunificazione del Vietnam.
Infine non si può ignorare che Usa e Vietnam sono lontani migliaia di chilometri, mentre Russia e Ucraina saranno vicini per sempre e che in Vietnam non c’era una minoranza di milioni di statunitensi così come in ucraina esiste una consistente minoranza russa alla quale Kiev ha teso a togliere progressivamente a sopprimere qualsiasi diritto. Una situazione di conflitto permanente anziché una soluzione contrattata che tenga conto dalle esigenze di tutte le parti può produrre una serie di guerre senza fine.
Venendo all’Italia, il tema di maggiore riflessione dovrebbe essere come costruire un ampio schieramento di forze politiche e sociali che faccia emergere un diverso posizionamento del nostro Paese sulla scena europea e globale, sia sull’Ucraina che sul Medio Oriente. Ovvero esattamente quello che gli editorialisti del Corriere della Sera non vogliono. In Italia hanno operato diverse tradizioni che si poste in termini nuovi il tema della pace della guerra. Quella comunista innanzitutto, dalla togliattiana riflessione sul destino dell’umanità in presenza delle armi atomiche fino alle forti mobilitazioni guidate da Berlinguer contro gli euromissili, frutto di una più ampia e innovativa visione globale.
Queste riflessioni e mobilitazioni politiche si sono confrontate con altre che si basavano sull’antimilitarismo socialista, sull’universalismo cattolico e sulla rivendicazione laica della nonviolenza (del tutto mistificata e tradita dall’iperatlantismo radicale).
I posizionamenti delle forze politiche, come si è visto nelle recenti elezioni europee, erano in parte legati ad esigenze di occasionale propaganda. Ma la votazione sullo specifico punto dell’ordine del giorno dell’uso delle armi europee in territorio russo, avvenuta al Parlamento europeo e che ha visto gran parte degli italiani dissociarsi, indica quanto meno l’esistenza di sensibilità o anche solo di esigenze di mantenimento del consenso che sarebbe sbagliato accantonare.
La sinistra alternativa (per i comunisti questo dilemma non dovrebbe nemmeno porsi) può scegliere se puntare sull’agitazione settaria che si accontenta di ritagliarsi il ruolo degli unici vari pacifisti contro tutto il resto del mondo. Oppure essere il motore della costruzione di un vasto fronte unitario, che agisca anche sulle contraddizioni esistenti nelle varie forze politiche, ma non per “smascherarle” quanto per costringerle a dire parole più nette e soprattutto a far seguire alle parole i fatti.
A partire da coloro che si sono riconosciuti in Pace Terra Dignità e che per ciò stesso hanno colto più chiaramente le implicazioni di ordine generale delle guerre in corso e la necessità di farne oggetto di conflitto politico e non solo di invocazione morale, dovrebbe essere possibile sollecitare l’azione di coloro che a parole si sono detti per la pace. Si tratta di AVS (malgrado la decisione dei Verdi italiani di votare per la Von der Leyen esprimesse una evidente contraddizione), del Movimento 5 Stelle che ha assunto posizioni condivisibili sia sull’Ucraina e che su Gaza, e della parte meno atlantista e bellicista del PD. Ma è necessario anche far scendere in campo senza ambiguità quelle organizzazioni di massa che in queste settimane hanno dimostrato di poter favorire una importante movimento di opinione pubblica contro l’autonomia differenziata. Una mobilitazione che finora non c’è stata o è stata limitata e che dovrebbe definire alcuni obbiettivi intermedi e raggiungibili. Agendo in questo modo anche per allargare le contraddizioni che già esistono nel campo della destra, soprattutto per la linea di ossequio a Washington e Bruxelles in materia di guerra che la Meloni punta a perseguire per avere più margine di manovra in politica interna.
Franco Ferrari
2 Commenti. Nuovo commento
Apprezzo lo spostamento nel campo dell’azione costruttiva e non identitaria rispetto ad articoli precedenti. Per quanto riguarda sindacati, arci, anpi, sara’ necessario puntare sui sentimenti pacifisti e sociali presenti negli stessi quesiti referendari
Interessante rassegna di fatti e spiegazioni che mobilitano o dovrebbero mobilitare tante persone perché stiamo assistendo alla realizzazione di una guerra mondiale a pezzi.
Io non trovo giustificazioni a questo stato di cose.