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La difficile relazione tra sinistra e nazione

di Franco
Ferrari

“Che cos’è la nazione per la sinistra? È vero che gli operai ‘non hanno patria’? Esiste un patriottismo ’di sinistra’? Che cosa vuol dire essere internazionalisti?”, sono queste le domande che guidano la riflessione di Jacopo Custodi nel suo libro “Un’idea di paese. La nazione nel pensiero di sinistra”, pubblicato da Castelvecchi (2023, 15 euro).

Custodi condensa, in un volume molto apprezzabile innanzitutto per sintesi e chiarezza, un lavoro di ricerca avviato già da diversi anni su un tema che presenta sia nodi teorici che problemi politici.

Già la definizione di “nazione” presenta non pochi ostacoli. Si può assumere come punto di partenza condiviso l’idea che essa non definisca dei caratteri eterni ed astorici ma sia un’idea la cui nascita si deve collocare in un ben preciso contesto. Certamente la rivoluzione francese vi ha dato un’impronta particolare, collegandola all’idea di popolo e anche alla nascita stessa del concetto di “sinistra”, che trova la sua origine casuale nella disposizione dei repubblicani contro i monarchici (grosso modo) nell’Assemblea nazionale.

Questa formazione ha portato storicamente a sovrapporre Stato e nazione, un intreccio che ha caratterizzato l’800 e che determinerà poi la disgregazione dei grandi imperi multinazionali a seguito della prima guerra mondiale.

Ma laddove lo Stato rappresenta un’entità definibile con una certa precisione, la nazione rimane qualcosa di vago. Custodi, richiamando le varie e classiche definizioni di nazione, privilegia in particolare quella dovuta a Benedict Anderson, il quale, in un testo molto noto e molto citato, parla di una “comunità immaginata”. Immaginata in quanto chi ne fa parte ritiene di avere un elemento di identità comune anche con persone che in realtà non conosce direttamente né conoscerai mai. Ma questa definizione tende a sottolineare la natura soggettiva dell’identificazione con la “nazione” alla quale si ritiene di appartenere e quindi anche il carattere estremamente mobile o, se si vuole, “liquido” del concetto.

Il marxismo si è trovato a fare i conti con l’idea di nazione fin dall’inizio della formazione del pensiero politico di Marx. È noto che nel Manifesto è scritto che gli operai non hanno “patria” ma anche in parte contraddittoriamente che essi devono far assumere innanzitutto alla loro azione politica una dimensione nazionale. Il pensiero di Marx ed Engels, come ricostruisce Custodi, è poi reso più complesso dai testi che dall’affermazione generale sono passati ad esaminare situazioni concrete (l’Irlanda, la Germania, la Polonia, l’India e così via). Essi ritenevano, almeno inizialmente, che la contrapposizione tra nazioni sarebbe andata progressivamente scemando con l’espansione del capitalismo che per sua natura è destinato a dissolvere nell’aria tutto quanto è solido. Ma anche qui si può fare di queste annotazioni una lettura più complessa, dato che sopprimere le contrapposizioni tra nazioni non coincide con la scomparsa dell’identità nazionale.

Le varie correnti marxiste hanno dato varie interpretazioni del tema “nazione” e ne hanno fatto derivare diverse strategie politiche. Per il movimento comunista divenne classico il testo scritto dal giovane Stalin a Vienna (probabilmente l’unico viaggio che compì fuori dalla Russia) nel quale si cercava una definizione oggettiva di nazione basata sulla condivisione di lingua, territorio, struttura economica e contesto culturale. Questa lettura si contrapponeva a quella di Otto Bauer che cercava di rispondere al problema politico che la socialdemocrazia si trovava di fronte nell’Austria-Ungheria di prima della guerra del ’14-‘18. Uno stato multietnico alle prese con spinte nazionaliste importanti che rischiavano di disgregare il movimento operaio. Come coniugare solidarietà di classe internazionalista con le spinte che si confermavano molto radicate a trasformare l’identità nazionale in stato-nazione? Per Bauer il socialismo non significava l’estinzione delle nazioni ma, al contrario, un loro pieno fiorire.

Per il teorico austriaco la risposta consisteva nel creare un meccanismo istituzionale che riconoscesse le nazioni come identità soggettive (“comunità di destino” era la sua definizione) all’interno di uno stato multinazionale che mantenesse saldamente il controllo della politica estera e dell’economia. Custodi sceglie di riprendere e valorizzare la visione di Bauer, uno dei massimi esponenti della corrente detta dell’austro-marxismo, ritenendola utile anche per l’oggi.

Lenin e poi il movimento comunista ritenevano invece che si dovesse riconoscere il diritto all’autodeterminazione di ogni nazione ma, contemporaneamente, battersi contro le tendenze separatiste. In questo modo nei paesi coloniali (il “terzo mondo”) i comunisti hanno unificato socialismo e nazionalismo, una combinazione che ha spesso consentito di conquistare il potere politico animando in prima persona la lotta per l’indipendenza nazionale. Una combinazione che non è riuscita nel mondo arabo e, al contrario, in Europa orientale ha aperto una profonda contraddizione nella base sociale del potere che si proclamava socialista.

Il rapporto internazionalismo-nazione non è mai stato pienamente risolto nel movimento operaio di ispirazione marxista e le spinte nazionaliste si sono continuamente riproposte. Ultimamente in reazione alla crisi di egemonia delle classi dominanti.

Custodi richiama due esperienze recenti che si sono dovute porre la questione in termini politici concreti e non solo teorici. Innanzitutto il movimento “no global” (meglio definibile come “altermondialista” o della “giustizia globale”). Al suo interno si sono espresse prevalentemente tendenze che hanno posto direttamente il tema dello scontro a livello globale e in qualche caso a valorizzare la dimensione nazionale ma non in funzione del rilancio dello Stato-nazione bensì come forma di pluralismo delle identità. A volte mettendo da parte la stessa idea di Stato come sede primaria del riconoscimento delle nazioni, come per gli zapatisti o per le elaborazioni più recenti del movimento di liberazione curdo.

Vi è chi ha teorizzato (sbagliando la previsione) che si potesse intravedere un conflitto aperto tra un Impero deterritorializzato contro una Moltitudine altrettanto priva di radicamento nazionale. Una lettura unilaterale di un marxismo che prevedeva in una qualche misura che lo sviluppo del capitalismo risolvesse il problema nazionale creando pertanto “oggettivamente” le condizioni del suo superamento. Una visione che riesce ad unire il massimo dell’oggettivismo con un altrettanto estremo soggettivismo.

Il movimento per la giustizia globale ha intravisto le contraddizioni della globalizzazione ma non è riuscito a modificare radicalmente i rapporti di forza, anche se ha avuto una significativa influenza nell’ondata dei governi di sinistra in America Latina.

Il populismo di sinistra, che Custodi tratta in un capitolo specifico, ha rappresentato in sostanza una riformulazione del tema della nazione all’interno di una strategia di contestazione del neoliberismo. L’esempio principale è evidentemente quello offerto inizialmente da Podemos con la sua idea di creare una controegemonia sul terreno del concetto di Patria. Molto della narrazione di Pablo Iglesias e degli altri leader della formazione spagnola era dovuto alle teorizzazioni di Ernesto Laclau. Essendo argentino e da giovane anche militante di una piccola formazione che reinterpretava, con molta elasticità, il trotskismo in versione di “sinistra nazionale” alle prese con quel singolare fenomeno che era il peronismo, Laclau considerava che il concetto di nazione fosse un “significante vuoto” e come tale integrabili sia da idee di destra che di sinistra.

L’esperienza di Podemos ci dimostra però che la possibile reinterpretazione di sinistra del patriottismo ha potuto funzionare fino a che il conflitto era aperto sulle questioni sociali (in particolare le politiche di austerità). Quando è entrato prepotentemente in scena un conflitto tra nazionalismi, catalanismo contro spagnolismo, la reinterpretazione di sinistra del “significante vuoto” non ha più fatto presa. E su questo insegnamento tornerò in conclusione.

Attraverso una rapida ricostruzione storica, Custodi ricorda come il rapporto tra la sinistra italiana e la nazione non sia mai stato di mero rigetto. Si devono ricordare la concezione del nazional-popolare di Gramsci come il richiamo ripetuto in diversi momenti storici ad una parte della tradizione risorgimentale e patriottica italiana. Il Battaglione e poi Brigata Garibaldi in Spagna, le Brigate Garibaldi durante la resistenza, il simbolo di Garibaldi nel Fronte democratico-popolare nelle elezioni del 18 aprile 1948. Ma agli esempi forniti da Custodi si può aggiungere il discorso radiofonico di Togliatti da Mosca, quando ricordava ai giovani italiani che il fascismo aveva inquadrato nei “Balilla”, che quel nome potevano portarlo con orgoglio perché era di un giovane popolano che si era battuto contro l’invasore tedesco (in realtà allora l’occupante era austriaco ma la forzatura era necessaria per adattarlo al contesto). Senza, evidentemente, aver letto Laclau, il quale invece aveva studiato il PCI togliattiano, metteva in atto un abile tentativo di cambiare di segno al richiamo patriottico strumentalizzato dal fascismo.

Ad un certo punto del percorso storico della sinistra italiana, il riferimento all’identità nazionale è stato totalmente dismesso dalla sinistra e assunto invece dalla destra che vi ha attribuito i propri connotati ideologici e sociali.

Custodi contesta le tesi di coloro che, a partire da questo dato di fatto, ritengono che vada interamente rifiutata ogni difesa o assunzione di un’identità nazionale, così come quelli che finendo nella deriva opposta, in nome di una sua ripresa, ne accolgono di fatto la declinazione ideologica che ne dà la destra. Gli uni abbandonano il campo del conflitto ideologico dichiarando la propria resa senza condizioni e gli altri assumono un atteggiamento codista e subalterno nei confronti di quella stessa destra.

Il tema sollevato e brillantemente esposto da Custodi richiede certamente un confronto nel merito, anche se restano in larga parte da definire le implicazioni politiche e le modalità concrete di un ripensamento da sinistra dell’idea di Paese (e quindi di nazione).

E certamente il suo rifiuto di una posizione nichilistica da un lato e subalterna dall’altro consente quanto meno di partire con il piede giusto. Fatto questo però di strada da compiere, teorica e politica, ce n’è ancora molta. Resta centrale a mio parere la questione che emerge dall’esperienza di Podemos, ma anche dalla vicenda storica della sinistra italiana: solo mantenendo stretta la connessione classe-nazione, questione sociale come elemento della ridefinizione dell’identità nazionale, che invece in Laclau si perde per strada con la sua “catena di equivalenze”, si può evitare di cadere nella trappola dell’etno-nazionalismo reazionario.

Franco Ferrari

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