In queste elezioni amministrative a Milano come altrove l’affluenza è stata la più bassa di sempre, con solo il 47,72% degli aventi diritto che si è presentato alle urne. La cosa curiosa è che a votare di meno, con il 44,6% degli elettori ai seggi, è stato il Municipio 1, ossia il centro storico più benestante. Quindi nel caso di Milano è vero sino a un certo punto l’assunto che “gli abitanti delle periferie sono delusi e scoraggiati e non votano più”. Perché tanti residenti nel Municipio 1 non sono andati a votare? È stata disillusione? Scetticismo nei confronti dell’offerta politica? Disinteresse? O è stata piuttosto la certezza della vittoria di Beppe Sala, per cui molti elettori, suoi sostenitori e no, non hanno ritenuto necessario “sbattersi” per recarsi ai seggi? Gli altri municipi si allineano più o meno per affluenza alla media cittadina; in uno solo si supera il 50%. Per indagare le motivazioni del non-voto occorrerebbero indagini più approfondite, dato che tutti i municipi tranne l’1 comprendono sia zone residenziali di livello socioeconomico medio-alto sia i palazzoni di edilizia popolare delle periferie più problematiche. In ogni caso, per quanto variegate e molteplici possano essere le ragioni di chi non è andato a votare, esse si perdono nella schiacciante vittoria di Sala al primo turno. I non elettori costituiscono la maggioranza dei milanesi, sociologicamente rappresentano forse uno spaccato non troppo dissimile da chi ha esercitato il diritto di voto, ma questa scelta li rende indefiniti, indistinti e invisibili. Fantasmi.
Il Consiglio comunale che s’insedia dopo queste elezioni appare in molti aspetti più “omogeneo” di quello precedente. Oltre al PD, il partito più votato, c’è ovviamente l’opposizione di Sua Maestà, che sui fondamentali del governo della città converge di fatto con la maggioranza. Fuori i 5 Stelle, fuori la sinistra, sia quella in coalizione con il primo cittadino (con la lista La Sinistra per Sala Milano Unita, che occupava lo spazio politico di Sinistra per Milano, rappresentata nel 2016 da due consiglieri), sia quella autonoma di Milano in Comune (in alleanza con Civica Ambienta Lista) che perde il suo consigliere. Entrano i Verdi, nella coalizione del sindaco (che da parte sua avrebbe aderito ai Verdi Europei), con tre consiglieri. Entrano esponenti delle liste in sostegno a Sala; cinque dell’omonima lista civica, due della lista Riformisti Lavoriamo per Milano (che raggruppa Azione, Italia Viva, +Europa e altri) e un consigliere di Milano in Salute (i “medici” di Sala). Appare chiaro un lavoro mirato di promozione dei candidati. I giovani del PD, per dire, sono riusciti a far eleggere 19 candidati sotto i venticinque anni d’età in Comune e nei municipi. Invece non è stata eletta, ed è un vero peccato, l’attivista Rom Dijana Pavlovic, che era candidata al Consiglio comunale nelle liste del PD.
Come si vede, non solo viene riaffermato lo schema bipolare con l’“espulsione” dei terzi incomodi, ma almeno nel polo della maggioranza si percepisce un’impressionante omogeneità di fondo e assenza di pluralità. Non una nota dissonante, nulla che si prevede possa increspare il placido fluire di un corso già tracciato. Un corso che parte dalle istituzioni della governance europea, si estende senza soluzione di continuità a livello governativo italiano con Draghi ed Enrico Letta, il più draghiano di tutti, colui che si può considerare a buon diritto il vincitore di questa tornata di elezioni amministrative, per giungere a Milano, dove Sala appare come un Re Sole a livello cittadino, con una corte adeguatamente foggiata. Ma è questa Milano, è questa l’Italia, è questa l’Europa? Queste le complessità delle situazioni, le pluralità dei soggetti che costituiscono il loro tessuto sociale, è questo il contesto per articolare ed esprimere le istanze che vengono dal basso? Quanto viene espulso o ridotto a fantasma silenzioso e invisibile per modellare la società politica a propria immagine, per assicurare questo flusso senza increspature?
A Milano, come si è detto, la sinistra è scomparsa dalle istituzioni cittadine, sia il raggruppamento in alleanza con il sindaco, sia quello indipendente. Questo ha evitato le prevedibili irrisioni a colpi di ditini alzati e di “ve l’avevamo detto noi”. Il ditino alzato ce l’aveva invece la direttrice del Manifesto Norma Rangeri, che nel suo editoriale del 7 ottobre accusa di «estremismo autoreferenziale» e di ideologismo passatista la sinistra non alleata del PD che ha subito l’ennesima sconfitta in queste elezioni. È sorprendente che Rangeri ignori le elezioni politiche del 1976 che videro l’ingresso in Parlamento, con 6 deputati, di Democrazia Proletaria, il raggruppamento che comprendeva il PDUP, Avanguardia Operaia e Lotta Continua. In quell’anno, che segnò il culmine di una forte mobilitazione e presenza pubblica della sinistra, DP conseguì l’1,5% dei suffragi, più o meno quanto ha preso ciascuno dei due maggiori raggruppamenti milanesi a sinistra del PD, Milano Unita e Milano in Comune, pur entrambi in caduta libera. Nonostante la delusione da parte di DP, nessuno si permise di deridere Lucio Magri o Luciana Castellina quali «4 amici al bar che volevano cambiare il mondo».
Potrei provare a dire qui quanto sia ingiusto e offensivo l’editoriale di Rangeri nei confronti della lista che ho sostenuto, Milano in Comune, lista alternativa al governo di Sala, ma tutt’altro che autoreferenziale o “trinariciuta”, e non aveva nemmeno alcun simbolo riconducibile a un partito o a un indirizzo ideologico. Mi preme di più però sottolineare come anche a sinistra si tenda a ignorare il contesto in cui maturano i risultati delle elezioni e le loro conseguenze. Anche Rangeri cioè identifica la sconfitta con l’inutilità, senza considerare le condizioni strutturali che hanno portato alla sconfitta. Ciò non significa ovviamente negare i risultati delle elezioni, sfuggire alle proprie responsabilità, attenuare i rigori dell’Autocritica, piagnucolare sui presunti torti subiti dagli altri. Significa però essere consapevoli che per le leggi elettorali e il sistema mediatico dominante una proposta politica di sinistra alternativa ai Poteri che Contano semplicemente non deve esistere. Che nelle grandi città gli spazi di aggregazione e di confronto sono sempre più rari, precari e frammentati; il lavoro e il quartiere da tempo non svolgono più questa funzione e il COVID ha dato il colpo di grazia a un tessuto sociale sempre più sfilacciato. È appunto in questo contesto che la sinistra si deve ricostruire, ma non andrà molto lontano se non affronterà i suoi condizionamenti chiamandoli per nome. Far finta che non esistono significherebbe in fondo accettare un sistema in cui la maggioranza degli individui vengono ridotti a fantasmi per preservare una determinata società politica.
Francesca Lacaita