Nell’articolo1 della scorsa settimana avevamo lasciato aperto lo scenario elettorale alla possibile vittoria di entrambi i contendenti. In quel momento, i dati provenienti da molti Stati oscillanti potevano ancora pendere verso il democratico Biden o il repubblicano Trump. A questo punto dello spoglio che, per la verità, non è ancora concluso, i media americani, che storicamente si sono assunti questa funzione semi-istituzionale, hanno proclamato Joe Biden come quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti.
Trump non ha però ancora accettato l’esito dell’elezione e resta barricato dentro la Casa Bianca. Non sono stati attivati i meccanismi istituzionali previsti per il passaggio delle consegne. Vengono annunciati ricorsi legali ma finora le “prove” delle frodi sono risultate poco consistenti o frutto di fantasiose teorie cospirative. A differenza del 2000, quando lo scontro sull’esito del voto si giocava su poche centinaia di voti concentrate in una sola contea di Miami, questa volta sembrano troppi gli Stati il cui esito andrebbe capovolto per permettere a Trump di restare al potere. Il decisore in ultima istanza dei ricorsi, la Corte Suprema, per quanto a maggioranza conservatrice, sarà probabilmente più interessata a salvare la credibilità complessiva del sistema, piuttosto che l’ego del Presidente uscente.
Più inquietanti risultano le manovre di queste ore con le quali Trump ha nominato un nuovo segretario della Difesa e sostituito con propri fedelissimi alcuni dei principali funzionari civili alla testa del Pentagono. Contemporaneamente però i segnali che vengono dal mondo della finanza e da quello dell’industria sono di chiudere la partita elettorale e di procedere, senza scossoni e melodrammi, alla transizione tra il vecchio e il nuovo Presidente. Al massimo si riconosce il diritto del perdente di adire alle vie legali senza però credere veramente che la lotta fra avvocati possa davvero portare ad un esito diverso del voto.
Biden e la sua “locanda spagnola”
Biden ha impostato la sua campagna elettorale quasi esclusivamente con l’obbiettivo di raccogliere la vasta ostilità contro il Presidente in carica, soprattutto per la pessima gestione dell’epidemia di coronavirus. Ha promesso di unire gli Stati Uniti, superando la polarizzazione che è andata via via crescendo da alcuni decenni e lasciando abbastanza in ombra i principali contenuti della propria piattaforma programmatica.
Il Partito Democratico ha potuto così raccogliere un elettorato attraversato da aspirazioni diverse e in parte anche contrastanti. Le locande spagnole (“auberge espagnole”) sono quelle in cui, nella metafora, ognuno trova quello che ci porta. Lo stesso Biden ha cercato di tenere insieme la presa di distanza dall’anima più radicale del partito (quella che parla di “socialismo” alla Bernie Sanders o che fa riferimento ai movimento di base come il Black Lives Matters) con un programma politico che accoglie seppure moderandole alcune delle rivendicazioni di questa componente. Lo ha fatto soprattutto sfumando e scolorando, ma alla fine ha tenuto insieme un’ampia coalizione elettorale che gli ha permesso di superare il 50% dei voti e di conquistare una serie di Stati chiave.
Passate le elezioni e avviata la transizione, Trump permettendo, Biden deve iniziare a compiere delle scelte. Il profilo programmatico presentato nel sito web aperto dalla coppia presidenziale Biden-Harris conferma un certo spostamento a sinistra dell’asse politico del partito, rispetto a quello che si era affermato con la presidenza Clinton, dei New Democrats, liberisti sul piano economico e moderatamente progressisti su quello dei diritti civili.
Lo Stato torna ad essere protagonista più attivo dell’economia e della creazione di posti di lavoro, in particolare di posti di lavoro di qualità e sindacalizzati. Ci si propone di riequilibrare il peso fiscale verso i ricchi e – sicuramente con molta moderazione – verso le corporations economiche. Si parla di salario minimo a 15 dollari e di rafforzamento della presenza pubblica nei diversi settori del welfare. Per la Sanità si difende l’Obamacare, con qualche forma di estensione, e si pone l’obbiettivo di far sì che nessuno debba rinunciare alle cure per ragioni economiche. Si assume la priorità di operare per contrastare il cambiamento climatico. Si punta anche ad un moderato protezionismo, perseguito non a colpi di guerre commerciali, ma di rafforzamento dell’investimento pubblico e di ricostruzione di alcune filiere produttive. Non si esclude di sottoscrivere nuovi trattati commerciali internazionale ma ci si impegna a coinvolgere nella loro definizione sindacati e movimenti ecologisti. Non c’è dubbio che, almeno sulla carta, si delinei una netta correzione di rotta rispetto alle politiche trumpiane e, più in generale, di tutto il Partito Repubblicano.
La politica estera non è ancora esplicitata nelle priorità della transizione ma è stata prefigurata nei mesi scorsi. Di questo abbiamo già accennato in un precedente articolo. Oltre al ritorno ad una logica multipolare, nella quale ovviamente gli Stati Uniti si assegnano un ruolo di guida, si prende atto della necessità di una maggiore prudenza nel coinvolgere il paese in guerre locali che si rivelano interminabili e che, nonostante tutta la potenza militare disponibile, non si riescono a vincere. La Russia di Putin viene individuata come un nemico da combattere attivamente, mentre la Cina viene delineata come il vero avversario strategico di lungo periodo. Ed è soprattutto la prima opzione che può creare difficoltà all’Europa dove invece si ritiene che si debba mantenere una qualche forma di relazione con Putin.
Biden avrà di fronte a sè vari problemi non facilmente risolvibili. Da un lato si propone di portare avanti un’agenda politica che contiene alcuni elementi “rooseveltiani”, ma lo vuole fare allargando contemporaneamente la propria coalizione politica verso i repubblicani moderati. Una scelta sancita simbolicamente con l’inserimento della vedova McCain (ex candidato presidenziale repubblicano) nel comitato che deve collaborare col Presidente per gestire la transizione. Indebolire la presa dell’ala più reazionaria sul Partito Repubblicano diventa una condizione essenziale se, come sembra probabile, questo partito continuerà a controllare il Senato ma è in evidente contraddizione con gli obbiettivi programmatici più significativi.
L’altro problema di Biden è tenere insieme un Partito Democratico che contiene tendenze diverse. Il gruppo della Camera dei Rappresentanti uscente era articolato, se non diviso, in tre caucus. Quello tradizionalista dei Blue Dogs, che auspicano una politica fiscalmente prudente e la ricerca di convergenze bipartisan al centro, i New Democrats clintoniani che costituiscono il gruppo più forte, e i Progressisti, l’ala più avanzata ma nel suo complesso tutt’altro che radicale, alla quale aderiscono quasi il 40% dei parlamentari e dalla quale sono emersi sia la Presidente della Camera Nancy Pelosi che l’attuale capogruppo democratico, il newyorchese Hakeem Jeffries.
Questi equilibri politici ed istituzionali si innestano su una società attraversata da molte contraddizioni e su un capitalismo liberista nel quale si sono ridotti i margini possibili per politiche riformiste consistenti. Biden oltretutto sarà quasi inevitabilmente un presidente di transizione e uno dei suoi compiti dovrà essere quello di garantire una successione alla leadership del partito che metta in campo una nuova generazione. Dei due candidati che si erano proposti per le primarie democratiche, da cui poi lo stesso Biden è uscito fortunosamente vincitore, la scelta è per ora caduta su Kamala Harris, promossa vicepresidente, e Pete Buttigieg, inserito nel comitato della transizione. Le prime mosse di Biden saranno importanti per capire la possibile direzione di fondo e soprattutto la capacità di consolidare una coalizione politicamente ed elettoralmente maggioritaria per riuscire a conquistare il Senato nelle prossime elezioni di midterm. Obama non ci riuscì perdendo rapidamente per strada molti dei consensi inizialmente ottenuti in nome di un cambiamento che poi non si è concretizzato.
La sinistra cresce e finisce sotto attacco
L’anima più radicale del Partito Democratico ha dimostrato la propria vitalità riuscendo a riconfermare tutto il gruppo della Squad guidato da Alexandria Ocasio Cortez e ingrandendolo con tre nuovi eletti. Risultati positivi si sono ottenuti anche in elezioni locali e in diversi referendum (salario minimo a 15 dollari, più fondi per le scuole, più tasse per i ricchi, ecc.). La destra interna ha cercato di dare la colpa del cattivo risultato ottenuto dei democratici alla Camera dei Rappresentanti, con la perdita di alcuni seggi a favore dei repubblicani, alle posizioni politiche tenute dalla sinistra.
Ocasio Cortez ha dovuto rispondere con molta determinazione ricordando che i candidati che hanno sostenuto le posizioni di sinistra, ad esempio il Medicare per tutti, sono stati premiati dagli elettori e che diversi candidati democratici uscenti si sono dimostrati dei “sitting duck”, anatre sedute, ovvero facili bersagli delle campagne repubblicane. Questi notabili non hanno capito che dovevano puntare sulle nuove forme di mobilitazione, attivare giovani e minoranze, essere presenti sui social (la stessa Ocasio Cortez ha fatto campagna per spingere al voto utilizzando videogiochi e nuove reti molto utilizzate dai giovani).
Per ora il gruppo che ha gestito la campagna di Biden non si è unito al coro, anzi ha tenuto a sottolineare pubblicamente, attraverso un’intervista all’NBC, che il programma del Presidente eletto è decisamente progressista ed è del tutto determinato a realizzarlo. Molti notabili democratici, in un Paese in cui spesso gli eletti restano tali per decenni fino alla decrepitezza, vedono con timore l’emergere di una nuova generazione di politici che rompe non solo con la tradizionale routine politica ma anche con i rapporti incestuosi intrattenuti con le grandi imprese, puntando a rappresentare realmente la base democratica popolare e i suoi interessi più genuini.
Non sappiamo ovviamente se e quanto la nuova sinistra che è emersa sulla scia delle campagne di Bernie Sanders riuscirà a ottenere risultati programmatici significativi, ma è indubbio che è già riuscita ad emergere come un attore politico dalla quale è difficile prescindere, per amarla o per odiarla. Non più commentatrice a bordo campo delle partite altrui, né setta millenarista destinata ad accontentarsi di irrilevanti vaticini o di logori anatemi ideologici.
E poi c’è l’America di Trump
Il Presidente uscente (ma che per ora non vorrebbe uscire) ha dimostrato di avere consolidato ed ampliato il proprio consenso elettorale. Molti di coloro che quattro anni fa lo avevano votato turandosi il naso questa volta lo hanno fatto convintamente. Ha portato al voto milioni di nuovi elettori, non sufficienti però, a differenza di quattro anni fa, per conquistare alcuni degli Stati in bilico. Non convincono coloro che, all’annuncio della vittoria di Biden, hanno salutato il ritorno dell’America, quella “buona”, quella vera. Quella che un commentatore italiano ha definito come espressione del “genio americano”.
Trump è in realtà espressione dell’America tanto quanto Biden. Non solo perché geograficamente ne raccoglie più di metà, ovvero tutta quella interna, ma anche quella che in Stati nei quali ha prevalso Biden (come il Nevada, Pennsylvania, Georgia) prevale in tutte le contee rurali e perde per effetto del voto contrapposto delle metropoli. Le roccaforti democratiche si chiamano Atlanta, Filadelfia, Las Vegas: roccaforti blue (colore democratico) circondate da un mare rosso (colore repubblicano).
Nella composizione del voto di Trump non ci sono soverchie differenze rispetto al profilo di quattro anni fa. Resta un elettorato prevalentemente bianco, maggioritariamente maschile ed anziano e piuttosto di ceto medio alto che popolare. Attorno a questo nocciolo è riuscito però ad effettuare qualche significativa incursione nel voto femminile e delle minoranze. Gli resta invece largamente ostile, e questa è un’ottima notizia, il voto giovanile.
Non è certo pensabile che questo elettorato, che ha radici profonde nella storia e nella mentalità degli Stati Uniti, si sposti tutto sul versante liberal o progressista. Manca ancora però una vera strategia democratica che punti a distaccarne i settori popolari. I centristi pensano che con la moderazione e lo spirito bipartisan si potrà ripristinare una nuova normalità, che assomigli come una goccia d’acqua a quella vecchia. Sanders pensa che sia soprattutto sul terreno delle politiche economico-sociali che sia possibile frammentare il blocco conservatore-reazionario e anche andare a conquistare voti nelle terre tradizionalmente conservatrici. Biden si colloca per ora in una linea mediana, anche se sembra consapevole che qualche pezza al capitalismo finanziarizzato e liberista vada messa per non farlo implodere e per non accompagnare gli Stati Uniti al declino. Ma, se vorrà provare a lasciare un segno, qualcosa di suo nella “locanda spagnola” dovrà portarcelo.
- https://transform-italia.it/perche-ha-vinto-biden-perche-ha-vinto-trump/[↩]