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Intervista a Franco Berardi – Bifo

di Giuseppe Nicolosi
Franco Berardi

Vi proponiamo l’intervista del 20 giugno 2022 condotta da Giuseppe Nicolosi (rattus) a Franco Berardi (Bifo) su una serie di temi di stretta, meno stretta e avvenuta attualità.

Il testo stenografico segue il link al video

intervista a Bifo

20 giugno 2022 – Giuseppe Nicolosi intervista per transform! italia Franco Berardi – Bifo

 

Introduzione di Transform Italia

 

GS: Do il benvenuto, dalla redazione di Transform, che ho il piacere di rappresentare, a Bifo, che è un compagno antico, a cui vogliamo bene e che seguiamo spesso nelle riflessioni che ci regala. Lo intervistiamo attraverso la voce e le intenzioni di Pino Nicolosi, Rattus, che ora – come dire – riempirà il nostro schermo. Eccolo.

Presentazione

PN: Grazie. Allora.. faccio una brevissima presentazione di Bifo, di quelle che si possono definire “ordinarie”, che si fanno sempre. Si dice che Franco è tra i fondatori di radio Alice, una delle prime radio libere italiane e che è stato il principale ispiratore dell’ala creativa del movimento del ‘77. Oggi è un celebre saggista, ha pubblicato una serie di opere tradotte in moltissime lingue: quelle europee ma anche negli Stati Uniti, in Sud America, in Asia. Qualche anno fa ha scritto anche un romanzo insieme a Massimiliano Geraci che si intitola Morte ai vecchi1. Ha collaborato alla realizzazione di diversi film; vale almeno citare Comunismo Futuro con Andrea Gropplero. In generale, essendo una persona che si è laureata molto presto in estetica con il professor Luciano Anceschi, è anche un esperto d’arte e un artista. Spesso viene definito “agitatore culturale”.

Auschwitz on the beach

 Inizierei proprio da questo tuo ruolo, diciamo così, di artista e di agitatore culturale, prendendo come spunto un caso che risale a qualche anno fa ma che, come vedremo, sta tornando estremamente attuale. Una vicenda che parte nel 2016. Proviamo a ripercorrerla insieme. Tu ricevi nel 2016 un invito da parte di Documenta che è un’importante rassegna di arte contemporanea che si tiene a Kassel in Germania. Ricevi, dunque, un invito per presentare un’opera. Avresti dovuto presentarla nell’estate del 2017. Proponi loro una performance, un’opera, che ha come titolo Auschwitz on the beach. Un titolo che, quantomeno, suggeriva un’analogia tra le morti dei migranti in mare, che in quel periodo erano numericamente elevatissime e il tristemente noto campo di sterminio nazista. Questo titolo è stato sufficiente a scatenare una tempesta di reazioni: interviene il sindaco di Kassel, il ministro della cultura tedesco, i giornali… L’accusa mossa contro di te è stata quella che tu avresti “relativizzato l’Olocausto”. Questa è la formula che hanno utilizzato. In realtà la presentazione dell’opera non ci sarà; la sera del 24 agosto del 2017 tu fai un’altra cosa. Ecco, ci racconteresti un po com’è andata, che cosa hai fatto e che cosa non hai fatto?

FB: molto volentieri. L’accusa che mi venne mossa di aver “relativizzato l’Olocausto” in qualche misura non mi sorprese, perché il titolo che io avevo proposto, in un certo senso, era l’opera. Io intendevo dire – e intendo ribadirlo adesso – che quello che l’Unione Europea nel suo complesso e lo Stato Italiano in modo particolare, sta facendo nel mar Mediterraneo, in tutto il bacino mediterraneo, ha le caratteristiche dello sterminio a sfondo razziale: “sterminio razziale”. Auschwitz, dunque ! La costruzione di un vero e proprio arcipelago che va dalla Turchia all’isola di Muria, all’isola di Lesbo, al confine croato bosniaco, alla Sicilia, alla Puglia, a Ceuta, a Medilla, a Calais, eccetera eccetera. Un arcipelago di campi di concentramento per migranti, per quei migranti che hanno la fortuna di sfuggire alla morte per acqua. Morte per acqua o internamento. Questo è il destino che noi, europei, abbiamo riservato a coloro che fuggono da Paesi come la Siria, l’Afghanistan, la Libia. Paesi che noi bianchi europei abbiamo devastato, messo alla fame. Ecco io affermavo allora, e affermo oggi, che si tratta di un Olocausto. In questo mi accompagnava e mi accompagna una persona che si chiama Alex Zanotelli2. E questo mi basta. Il nome di Zanotelli mi basta per affrontare qualsiasi insulto.

Bene e cosa è successo dopo? E’ successo che quando ho saputo che c’erano dei gruppi di fanatici sionisti con la bandiera bianca e blu che protestavano contro quel titolo mi sono precipitato a Kassel e sono andato nella sede del Sara Nussbaum Zentrum, il centro ebraico della città di kassel. Là ho incontrato la signora Eva Jander Schulz che era (e credo sia ancora) direttrice del centro ebraico. C’erano anche sette suoi collaboratori. Con loro ho discusso le ragioni per cui avevo scelto quel titolo e Eva, che interloquiva con me, mi ha detto: “guarda che noi siamo d’accordo con quello che stai dicendo”. Anzi, mi fece notare che io avevo dimenticato un particolare importantissimo e cioè che nel 1939 100mila ebrei tedeschi erano fuggiti in barca per raggiungere le coste inglesi ed americane e vennero respinti con le stesse motivazioni con cui oggi noi respingiamo gli africani. Vennero respinti e rimandati nella terra di Hitler. Quindi, mi disse, “figuriamoci se non siamo d’accordo con te”. Però, mi disse Eva, quel nome, quel titolo, “per molti di noi è un titolo inquietante perché ci ricorda qualcosa che è troppo doloroso”. Io, che avevo già preparato la mia scenetta, risposi: “D’accordo. Cancello la mia performance, cancello quel titolo e questa sera spiegherò perché. Però, in cambio, chiedo a te Eva Schulz Jander di accompagnarmi al Fridericianum, nella sala convegni, e di parlare con me”. Eva mi accompagnò, intervenne accanto a me e quella sera per me fu la migliore risposta ai fanatici che appoggiano gli assassini colonialisti dello stato di Israele. Questo è quello che è accaduto in quella occasione. Purtroppo la storia non è finita perché oggi, in questi mesi, a Kassel si sta svolgendo un nuovo capitolo di questa interminabile persecuzione sionista nei confronti della libertà di pensiero. Un artista palestinese che si chiama Yazan Khalili è stato invitato esporre a Kassel entro Documenta 15. Bene: nella sua sala sono entrati degli intrusi, hanno devastato la sala con delle scritte che sono minacce di morte implicite. Ed è stata organizzata, per il 16 luglio prossimo, un’assemblea nella quale si condanna l’antisemitismo di Documenta che invita –orrore!- dei palestinesi, e contro l’antisemita Franco Berardi. Ecco, questa è la piccola storia che che vi ho raccontato.

PN: Grazie Franco. Ho letto (con il traduttore) questo testo in tedesco, che sta su Facebook, in cui si sostiene appunto che tu saresti un antisemita. Francamente suona a chiunque ti conosca come una vera enormità, una sciocchezza di dimensioni colossali ! Tu come pensi di reagire a una affermazione del genere ?

FB: Tanto per cominciare, io voglio ricordare che personalmente mi considero ebreo. Mi fanno pena coloro che credono che l’identità consista nel colore della pelle, nell’origine del territorio dal quale provieni, nel sangue della famiglia dalla quale provieni. Non credo che l’identità – ammesso che questa parola significhi qualcosa – si fondi sul sangue e sulla terra. Credo che si fondi, semmai, sulle scelte che una persona fa nel corso della sua vita. La mia scelta è stata non solo quella di leggere Gershom Scholem, Walter Benjamin, Amos Oz, Abraham Yehoshua e cento altri scrittori, poeti, filosofi, teologi ebrei, ma anche quella di imparare da loro una cosa essenziale e cioè che noi non siamo quello che il sangue fa di noi. Noi siamo quello che l’intelligenza, la cultura fa di noi. Io sto dalla parte dei milioni di ebrei che si sentivano già europei quando l’Europa non esisteva ! Dei milioni di ebrei che hanno fatto l’internazionalismo proletario e anche la democrazia borghese: senza quegli ebrei non ci sarebbe stata la democrazia e non ci sarebbe stato il socialismo. In questo senso io sono ebreo. E se c’è qualcuno che si prova a definirmi antisemita, a costui io riservo, non uno sputo in faccia, non una risposta, ma tutto il mio disprezzo. Ecco, con disprezzo rispondo all’accusa che questi signori fanatici hanno fatto nei miei confronti e nei confronti di Yazan Khalili, artista palestinese. A questo proposito ho scritto un testo che farò circolare nei prossimi giorni e mesi prima di tutto in Germania. Questo è tutto a proposito.

PN: Sì, volevo chiederti questo perché, appunto, Transform si è fatta promotrice l’anno scorso di un’iniziativa che si chiama Media Alliance che ha come obiettivo quello di costruire una opinione pubblica meno sensibile alla stampa nazionale. Perché nel caso di Auschwitz on the beach, per esempio, la copertura da parte della stampa nazionale è stata praticamente inesistente, mentre quella della stampa tedesca è stata del tutto ostile. Quindi credo che Media Alliance, che è appunto un network di giornalisti, di attivisti, di media attivisti, di direttori di testate, potrebbe essere un metodo per rendere sempre meno probabili casi di cattiva informazione come quello che è capitato a te.

FB: Dunque, Auschwitz on the beach e la polemica che seguì, ebbe la prima pagina del New York Times nel settembre del 2017. Come mai la stampa italiana non ne parla? Ma sai, “stampa italiana” è un’espressione che fa sorridere. Cos’è la stampa italiana? Cos’è? La Repubblica? Un giornale che mi vergogno di avere letto in alcune occasioni. Un giornale che non compro in edicola, perché mi vergognerei di essere visto comprare un giornale infame come La Repubblica. I giornalisti italiani… Esistono i giornalisti italiani? Certo alcuni esistono, quelli che scrivono su Il Manifesto essenzialmente e anche quelli che scrivono su L’avvenire, ma gli altri chi sono ? Chi sono coloro che non si vergognano di mettere la loro firma su un giornale come La Repubblica o come Libero ? O, per parlare del più spudorato di tutti, Federico Rampini, come fa a non vergognarsi di comparire sul giornale di casa Agnelli, Elkann, Stellantis e contemporaneamente su un giornale nazistoide come Libero? Vergognati Rampini ! (Se mi stai ascoltando. Certamente non lo farai perché hai molte più importanti cose da fare). Dunque, nella stampa italiana io non esisto, per mia fortuna, da tantissimo tempo. Credo di non esistere sulla stampa italiana dal settembre del 1977, più o meno. Perché? Non mi interessa, punto. Non mi interessa niente del fatto che la stampa italiana non si occupi di me. Deve occuparsi di Calenda e ho detto tutto.

La repressione e l’errore. Dal congresso di Bologna al terzo inconscio

PN: Bene. Adesso invece quelli che si sono occupati di te anche senza l’aiuto della stampa italiana sono contenti di farti alcune di domande più generali sulla tua storia e sulla tua vicenda di pensatore e di teorico, Quindi adesso occupiamoci un po’ di te e della tua opera come saggista e come pensatore. Inizierei con una domanda che volevo farti da tanto tempo. Dunque, una volta ti ho sentito dire che tu consideri un errore che, il famoso congresso del ‘77 di Bologna, avesse come titolo “congresso contro la repressione”. Personalmente, ho sempre avuto il sospetto che, almeno per l’ala creativa, l’espressione “contro la repressione” non fosse rivolta esclusivamente alla repressione di stato, alla repressione poliziesca, ma fosse rivolta anche alla repressione del desiderio, alla repressione della libido. Quelli erano tempi in cui questi argomenti erano molto frequenti sulla stampa alternativa e sulla stampa di sinistra. Oggi, nel tuo ultimo libro, che si chiama Il terzo inconscio3, fai una osservazione interessante che secondo me è il cuore dell’argomentazione di quel tuo lavoro: la trasformazione complessiva della vita sociale ha cambiato del tutto il panorama rispetto ai tempi di Porci con le ali,4 ai tempi del movimento del ‘77. Oggi non c’è più inibizione, non c’è repressione ma, al contrario, tu scrivi “c’è un eccesso di visibilità dell’inconscio”. Scrivi anche che “l’inconscio è tutto esposto”. Puoi spiegarci questa trasformazione, questo passaggio?

FB: La domanda che tu mi fai ne contiene per lo meno due e quindi io intendo rispondere ad entrambe, se posso farlo. La prima, che mi sta molto a cuore, relativa al convegno (o congresso) contro la repressione del settembre 1977. Per ricapitolare rapidamente a beneficio di coloro che magari non solo dettagliatamente informati su quello che accadde in quell’anno, ricorderò che nel febbraio-marzo del 1977, in molte città Italiane, particolarmente a Roma e a Bologna, ma non solo, si diffuse un movimento quantitativamente molto vasto ma qualitativamente “nuovo”. Perché era un movimento che poneva un problema decisamente più ampio della sfera politica, un movimento che metteva in questione la vita quotidiana, che metteva in questione la percezione del futuro, che metteva in questione, diciamo così, problemi essenzialmente culturali, psichici e non soltanto questioni politiche. Quel movimento aveva la pretesa e anche la capacità di svilupparsi su terreni che pochissimo avevano a che vedere con le forme stabilite della politica e dello stato. La ricchezza di quel movimento, io credo, fu nella capacità di evitare le risposte prevedibili. Fu la capacità di aprire terreni che non erano prevedibili per la politica dominante. Per esempio, nel Marzo del 1976, io mi trovavo in carcere, ero stato arrestato dopo l’inizio delle trasmissioni di Radio Alice. La risposta della politica e della polizia fu quella di arrestare qualcuno, tra gli altri, me. Bene. Come rispose Radio Alice? Forse organizzando una manifestazione “contro la repressione” ? No. Rispose organizzando una manifestazione che si chiamava “facciamo la festa alle repressioni”. Diecimila persone portarono il loro materasso in Piazza Maggiore: la città era piena di materassi e di corpi che si stendevano allegramente su quei materassi. Ecco un modo per rispondere ! Un anno dopo, nel 1977, il movimento aveva raggiunto la massima intensità e ottenne una risposta statale particolarmente violenta. Molti erano in carcere. Io ero latitante a Parigi e, insieme a Félix Guattarì e a Maurizio Torrealta (un amico e un compagno di Radio Alice), decidemmo di organizzare una risposta internazionale alla repressione che si stava manifestando in Italia e quindi convocammo, per il settembre del ’77, un congresso “Contro la repressione”. Ecco: io considero questa scelta il più grave errore politico della mia vita ! Perché? In primo luogo, perché stavamo accettando esattamente il terreno su cui quell’idiota assassino che si chiamava Francesco Cossiga ci aveva costretto a combattere. In primo luogo, dunque, accettavamo il terreno proposto dal peggior nemico che il movimento potesse avere. Errore ! In secondo luogo, stavamo convocando tutto ciò di cui il movimento di Bologna e il movimento autonomo e creativo a livello nazionale stava cercando di liberarsi e cioè le forze politiche tardo-leniniste che, come degli zombie, perseguitavano dall’interno il movimento. Mi riferisco a chi? Mi riferisco ai tardo leninisti delle Brigate Rosse, certamente, che vennero a Bologna per catturare qualche militante per la loro organizzazione tardo-leninista. Ma mi riferisco anche a quelle componenti della stessa Autonomia Operaia che scatenarono in quell’occasione la loro forza allo scopo di distruggere il movimento. Nei giorni subito precedenti il convegno del ‘77 ci fu una riunione – in Svizzera precisamente – diretta da uno dei leader dell’Autonomia Operaia. (Questo non l’ho mai detto negli ultimi 45 anni ma ho deciso di dirlo ora e lo ripeterò quando sarà necessario). Questi signori, della redazione di un giornale che si stampava a Milano, decisero di distruggere la possibilità politica che il movimento di Bologna aveva portato ad emergenza. Come? Scatenando il caos, fischiando tutti coloro che parlavano in quella assemblea. Ecco: loro distrussero il movimento di Bologna, loro aprirono la strada alle Brigate Rosse, loro aprirono la strada alla distruzione dell’ultima speranza politica e umana che si sia presentata sulla scena della nostra storia.

Poi c’è un’altra domanda – e mi scuso se rispondo troppo lungamente. Tu dici: “ma ne Il terzo inconscio, ci vieni a dire che il problema non è più la repressione ma…” ma cos’altro? Ecco: quel libro – che ho scritto quarantacinque anni dopo il ’77 e quindi molte cose naturalmente sono cambiate – cerca di elaborare una intuizione che però già nel ‘77 era presente. Quale intuizione? L’intuizione che c’è una storia dello psichismo collettivo. Non una storia dell’inconscio perché l’inconscio non ha storia ! L’inconscio non ha prima e non ha dopo non ha domani e non ha ieri, non ha un luogo. Questo lo sappiamo, ce lo ha insegnato Sigismondo Freud e non ce ne siamo dimenticati. Però la psicosfera – cioè la sfera collettiva in cui l’inconscio individuale si modella e con cui interagisce – quella sì che ce l’ ha una storia. Che storia ? Una storia che inizia nel momento in cui, come accadeva negli anni di Freud, la repressione sessuale produce effetti che Wilhelm Reich ha studiato molto bene nel suo Psicologia di massa del fascismo: repressione sessuale ovvero accumulazione di una energia che si esprime in forma aggressiva. Però poi la psicosfera si evolve e, negli anni Settanta, negli anni in cui Deleuze e Guattarì scrivono L’Anti-Edipo5, il problema già non è più, o non è più solo, la repressione, ma anche il caos psichico prodotto dalla iper-accelerazione della macchina mediatica che produce effetti sulla psicologia umana. Ora, in quel mio libro che tu hai citato, intuisco che oggi, dopo la pandemia, stiamo forse uscendo dalla sfera dell’ accelerazione neoliberale e stiamo entrando in una sfera in cui, dopo la repressione, dopo l’eccesso panico e schizoide prodotto dal neoliberismo, entriamo in una nuova fase che io definisco fase della psicodeflazione cioè dello sgonfiamento della iperenergia cui il neoliberismo ci ha obbligato. Ecco, questo è il senso di quella strana idea di un “terzo inconscio”.

Guerre identitarie e strategie dell’exit

PN: Un’altra cosa che volevo chiederti da un po’ di tempo: ho un tuo libriccino che si chiama Politiche della mutazione e che è del 1991 (e che, se ti interessa saperlo, è in vendita su ebay a 60 euro…)

FB (ridendo): …ma io non lo sapevo…

PN: Penso che tra dieci anni diventerò ricco perché ho questa copia… è una rarità come il Gronchi rosa. Ecco, in Politiche della mutazione ti chiedevi: “Come restare nomadi in un mondo di serbi e di croati?”. Erano gli anni della guerra in Jugoslavia e tu giungevi alla conclusione che l’unico consiglio che si potesse dare a serbi e croati (o ad ebrei e palestinesi) fosse quello di “andarsene”, “andarsene per mille strade”, fuggire alla tenaglia dell’identità. Recentemente hai scritto un articolo molto interessante che si intitola “Cantami o diva” dedicato alla guerra russo-ucraina e, anche in quel caso, usi questa espressione “occorre andarsene”. Bisogna dire che dal ‘91 ad oggi, le previsioni di Politiche della mutazione6 si sono rivelate preveggenti. Nel senso che abbiamo assistito a una serie di guerre con motivazioni di tipo nazionalista o identitario. Mi chiedo: la fuga, la sottrazione, l’exit, saranno pure gli strumenti per sciogliere il nodo identitario ma, come tu dici, spesso i fuggiaschi vengono respinti alle frontiere. E, a quanto pare, fin dall’Ottocento non ci sono più “terre incognite” in cui cercare rifugio. Allora, come possiamo immaginare delle nuove “politiche della sottrazione”?

FB: Anzitutto grazie per aver citato quel libriccino che non sapevo fosse così prezioso. Credo che nella prima edizione costasse forse duemila lire o mille lire, forse 500 perché è un libriccino di 60 pagine stampato male da un editore locale. Però mi piace ricordarlo quel libriccino, perché, fra le altre cose, lì si cercava di capire cosa sarebbe successo della Russia post-sovietica. In quegli anni la previsione che io facevo insieme a pochi compagni sopravvissuti alla storia del movimento bolognese (e quindi estranei alla tradizione leninista), era che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in contemporanea con l’emergere delle politiche liberiste, quello che dovevamo aspettarci era che sulla Piazza Rossa, prima o poi, Stalin e Hitler avrebbero marciato insieme. Che è quello che noi vediamo oggi: Putin è la sintesi di Stalin con Hitler ma sotto bandiera neoliberale. Ecco, Putin, con quello che sta accadendo oggi in Russia, rappresenta certamente la faccia più violenta della controrivoluzione che è cominciata con Thatcher e Reagan. Appartiene alla stessa storia anche se ne è in qualche modo il momento di svolta, di crisi, di collasso.

Io osservo con… disprezzo (è l’unica l’unica parola che mi viene alle labbra) il modo in cui l’intero mondo politico europeo ed Italiano reagisce e ha reagito negli ultimi mesi, alla guerra russo-ucraina: tutti coloro che fino a qualche mese fa consideravano Putin come un signore rispettabile del nuovo ordine del mondo, oggi hanno cambiato idea. Non so. Penso ad esempio al quel tizio che fa il Ministro degli Esteri, il quale forse è ancora convinto che il Venezuela sia stato governato a un certo punto da un dittatore che si chiamava Pinochet. Questo ha detto il nostro Ministro degli Esteri, il quale credo che non parli nessun’altra lingua se non quella che ha malamente imparato a Posillipo. Questo svergognato membro della casta degli ignoranti è oggi in prima fila nel celebrare l’eroismo antiputiniano. Io non chiamo a nessun eroismo. Considero l’eroismo come una malattia dell’anima umana. Io chiamo alla diserzione. Chiamo alla diserzione puntuale, in questo caso. I miei fratelli russi e ucraini sono quelli che disertano, che fuggono in tutte le maniere possibili, nascondendosi sotto letto, cercando un buco nella rete della frontiera o andando, come sembra facciano dieci ucraini ogni notte, in una parrocchia che si trova alla frontiera tra l’ucraina e la Polonia, dove c’è un prete intelligente che ospita ed aiuta i disertori. Ma la diserzione di cui dobbiamo parlare non è solo diserzione nei confronti della guerra, è diserzione dal lavoro, è diserzione dal consumo, è diserzione dalla procreazione, è diserzione dalla politica. E guarda: questa diserzione sta diventando il comportamento più importante della nostra epoca. Ci dicono che in Francia avrebbe vinto Le Pen o Melenchon o Macron. Non ho capito chi ha vinto !? Hanno vinto tutti. Ma, in realtà, ha vinto il 55 per cento di francesi che non sono andati a votare. Come in Italia qualche settimana fa. Chi ha vinto? Noi che non votiamo, abbiamo vinto! Ecco questa è la grande scoperta: che noi ci ritiriamo. E giustamente tu mi chiedi: ma dove andiamo? Qual è il territorio nel quale saremo salvi? Non c’è. Non c’è un territorio: non c’è perché in questo momento a Bologna ci sono 34 gradi, i fiumi sono secchi in tutta la penisola, in California bruciano le foreste, in Siberia bruciano le foreste in Spagna bruciano… Vuoi che vada avanti? No, non vado avanti perché dovunque punti il dito sulla carta geografica siamo oltre il punto di non ritorno. Dunque non c’è un territorio, quel territorio è nella nostra anima – mi scuso se uso delle parole ridicole – quel territorio è nella nostra amicizia, quel territorio è la nostra capacità di riconoscere le linee del divenire nulla. E’ salutare la morte come amica: questo è il territorio che dobbiamo abitare. Questo è ciò che diciamo ai -pochi per loro fortuna- sventurati che abbiamo avuto l’imprudenza di mettere al mondo. Il territorio nel quale dobbiamo convocarli è il territorio della consapevolezza del fatto che non c’è via d’uscita; ma una via d’uscita c’è ! Ed è nella nostra capacità di vivere in amicizia il tempo dell’estinzione.

Fine del lavoro o lavoro senza fine ?

PN: Ancora un paio di domande. Sei stato tra i primi in Italia a segnalare il processo di progressiva riduzione del tempo di lavoro necessario. Fu in un libro del 1994 che si chiamava Lavoro zero https://www.anobii.com/it/books/Lavoro_Zero/9788886232111/010faed1de442d1c02. Uscì con qualche mese di anticipo rispetto al famoso La fine del lavoro di Jeremy Rifkin. Leggo un passo di Lavoro zero. Tu scrivi in Lavoro zero: “uno spettro si aggira nell’Europa e non soltanto qui: la libertà del tempo di vita dalla necessità del lavoro. Gli economisti, i politici, i sindacalisti e i lavoratori non sanno chiamare con il loro nome la libertà e il tempo di vita e allora li chiamano disoccupazione”.

Va detto che, anche alla luce dei dati di cui oggi disponiamo sulla riduzione progressiva del tempo di lavoro necessario, sei stato di nuovo estremamente lungimirante. Pare che attualmente il tempo di vita dedicato al lavoro si aggira intorno al 16 per cento rispetto al restante tempo della nostra vita. Ai primi del 900 era il 40 per cento. Il problema è che c’è un’enorme massa di tempo libero che aumenta di giorno in giorno. Come è evidente perché, riducendo la necessità del tempo di lavoro, aumenta il tempo libero. Ma questo tempo libero pone interrogativi inquietanti. Ci sono processi che vengono definiti di “estrazione di valore” dal tempo libero. Tutta la Silicon Valley si regge in gran parte sul lavoro non pagato di milioni di persone. Qualcuno ha parlato di “lavoro implicito”, qualcun altro ha parlato di “lavoro ombra” e sono molti a sostenere che dalla “fine del lavoro” siamo passati “al lavoro senza fine”. Che cos’è che ci impedisce i di riscoprire il tempo libero come attività ludica, come attività politica, come attività artistica, culturale, estetica ? E che cos’è che ci rende, invece, schiavi degli automatismi digitali e “lavoratori impliciti” ?

FB: Dunque, quel librettino Lavoro Zero, del ‘94, ma anche un altro libro che avevo scritto qualche anno prima, nel 1970, e che si chiamava Contro il lavoro – libro del tutto incomprensibile… (mi dicono che si vende su ebay anche quello; ma non consiglio a nessuno di comprarlo perché io ho tentato di rileggerlo e non ci sono riuscito). La tesi che sostenevo in Contro il Lavoro e in Lavoro Zero era una tesi ortodossamente marxiana. Riprendevo le intuizioni di Marx nel Frammento sulle macchine e dicevo: lo sviluppo della intellettualità tecnico-scientifica, la potenza del sapere umano e della tecnologia rendono possibile una riduzione progressiva del tempo di lavoro. Ecco, questo ha dimostrato di essere vero ma, al tempo stesso, si è rivelato falso, come tu dici, se teniamo conto del fatto che quel tempo liberato dal lavoro è stato risucchiato da una figura nuova del lavoro che è il lavoro dell’ attenzione verso processi che sono totalmente estranei al nostro desiderio. Penso alle cifre che tu dicevi: il lavoro è sceso dal 40 per cento della nostra vita al 16 per cento della nostra vita. Sì, ma purtroppo l’ estrazione di valore da parte del capitale non si svolge solo in quel 16 per cento di tempo in cui noi facciamo gli operai, gli impiegati, o gli ingegneri. Si svolge anche in tutto il resto del tempo nel quale noi siamo costantemente chiamati a rispondere a stimoli che producono valore per il capitale ma che sottraggono intelligenza, vitalità, piacere, autonomia al nostro cervello e al nostro corpo. Questo noi operaisti del “rifiuto del lavoro” non lo avevamo previsto, non lo avevamo saputo capire. Il punto è che abbiamo mancato la possibilità di aggredire il capitalismo non solo là dove si esercitava visibilmente il suo potere e cioè sul posto di lavoro, ma soprattutto laddove il suo potere si stava costituendo. Per esempio perché non abbiamo mai condotto una campagna sistematica e radicale contro la pubblicità? La pubblicità è sempre apparsa come un fenomeno quasi marginale nella storia del capitalismo; in realtà è stata una delle armi di distruzione più violente, più pervasive che alla fine ci hanno ridotto nelle condizioni in cui la nostra attenzione non è più nostra e dunque la nostra libertà è sottoposta alla forma più stupida ed improduttiva di lavoro che si possa immaginare.

Adbusters: pubblicità e sofferenza mentale

PN: Ecco, allora farei riferimento a un altro libro importante che hai scritto insieme a Marco Magagnoli e a Lorenza Pignatti e che si chiamava Errore di sistema7. Era un libro dedicato ad Adbusters8 che è una rivista canadese che si occupava appunto di fare una critica politica alla pubblicità. Ma quello che è interessante è che, già nel 2003 – quindi stiamo parlando comunque di vent’anni fa – segnalavate (con Adbusters) il fatto che si rilevava un crescente disagio giovanile. Un disagio che si manifestava in disturbi in parte nuovi, come le crisi di panico, i disordini nell’attenzione e, soprattutto, nella crescita, nell’impennata della depressione e dei suicidi giovanili. Quindi anche in questo caso bisogna riconoscervi grande lungimiranza. Nel senso che avete immediatamente messo a tema un problema che poi negli anni successivi è completamente esploso. Le curve di crescita dei fenomeni di disagio sono sempre sempre più alte e sempre più preoccupanti. Situazione giovanile disastrosa, dunque. Ma, anche in questo caso, l’uscita non sembra a portata di mano. Tu ne il terzo inconscio scrivi che la sollevazione è terapeutica. Eh sì, la sollevazione è terapeutica, ma per avere la sollevazione forse sarebbe necessario che i giovani si dessero un po’ di obiettivi concreti, degli obiettivi realistici, di tipo politico. Per esempio quello di avere una scuola meno competitiva e, se possibile, più orientata agli aspetti relazionali; oppure la richiesta di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato. Ecco questi sarebbero sicuramente degli spunti utili per favorire la sollevazione terapeutica…

FB: Dunque, Adbusters è, a mio parere, la più grande impresa culturale degli ultimi 30 anni. Adbusters inizia a Vancouver nel 1993. Mi capitò di trovare una copia di Adbusters in una libreria di San Francisco nel ‘93 e, da allora, ho letto questa rivista ogni mese o comunque quando usciva. E’ una rivista fatta da un gruppo di pubblicitari e di grafici canadesi che avevano deciso di abbandonare il loro lavoro considerandolo come un lavoro nocivo per la sopravvivenza del genere umano. E’ guidato da un signore che si chiama Kalle Lasn, un lituano che viveva allora a Vancouver. Beh, questa rivista mi fece molta impressione perché riusciva a collegare il tema dello sfruttamento capitalistico come sfruttamento economico, come sottrazione di valore, con la sofferenza della mente umana, con la produzione massiccia di sofferenza mentale e perché vedeva nella pubblicità il nucleo essenziale di questa connessione patogena. Nel 2003 insieme a Lorenza Pignatti e Marco Magagnoli scrivemmo questo libriccino (Errore di sistema. Teorie e pratiche di Adbusters) che Feltrinelli pubblicò molto male e che recentemente è stato ripubblicato un po’ meglio da Meltemi. Va be’ lasciamo perdere… Ecco: il punto su cui tu richiami però la mia attenzione è oggi come possiamo trovare una via di sollevazione psichica, sollevazione mentale e indichi due campi: quello del reddito di cittadinanza e adesso non mi ricordo quell’altro ma lo condividevo…

PN: …. la scuola…

FB: Ah ! Ecco certo la scuola e tanti altri ce ne sarebbero… Ora, naturalmente, io condivido interamente la battaglia per il reddito di cittadinanza o per una scuola che corrisponda alle esigenze delle nuove generazioni. Tutte cose che diciamo da 50 anni e continueremo a dirle. Però il punto essenziale mi pare sia: dentro quale contesto di aspettativa noi collochiamo le nostre rivendicazioni, le nostre battaglie e così via ? E questo è importante, è diventato importante perché altrimenti tutto suona falso. Se noi continuiamo a credere che sia possibile un ritorno della democrazia politica, un ritorno della crescita economica, un ritorno della fertilità procreativa, allora intanto ci prendiamo in giro, accettiamo di essere presi in giro da cretini come quelli che leggiamo sulla stampa Italiana o che ascoltiamo nella politica Italiana. Quindi, prima di tutto, ci facciamo prendere in giro e, in secondo luogo, otteniamo soltanto sconfitte politiche. Perché o comprendiamo che la promessa moderna è fallita -non c’è più, non c’è più- o comprendiamo questo o non possiamo ottenere niente. Allora, per prima cosa, dobbiamo dire: non ci sarà la prossima generazione di europei perché noi non la metteremo al mondo ! Come stanno facendo le donne dappertutto, dalla Cina all’Europa al Giappone agli Stati Uniti. L’umanità bianca è finita perché le donne hanno deciso che l’umanità bianca non si riprodurrà. Questa è una vittoria che stiamo ottenendo. Due: la politica, la democrazia politica, questa trappola in cui il capitalismo ci ha fatto cadere, non si riproduce perché noi non andiamo maggioritariamente a votare. Tre: la grande rassegnazione di cui parlano i giornali americani consiste nel fatto che, dovunque, milioni di lavoratori hanno deciso una cosa semplice: “se devo venire a lavorare per il salario di merda che mi date sai che ti dico? Io me ne sto a casa”. Per esempio, gli aerei di Ryan Air sono nel disastro perché c’è il caos in tutti gli aeroporti. L’altro ieri il New York Times avvertiva i turisti americani che se vengono in Europa piomberanno nel caos più assoluto perché, durante la pandemia, Ryan Air ha licenziato dei piloti. 20.000 persone sono state licenziate dalle compagnie aeree europee. Adesso stanno cercando di assumerne dei nuovi, ma nessuno ci vuole andare. Ma tu vorresti fare il pilota quando sai che il salario è la metà di quello che prendeva un lavoratore dell’aria 20 anni fa e gli orari di lavoro sono quattro voli al giorno cinque giorni alla settimana ?! Attenzione ragazzi ! Prendere un aereo è molto molto pericoloso.

Ecco questo è ciò che mi fa pensare che possiamo condurre l’ultima battaglia. Una battaglia per vivere felicemente l’agonia della civiltà capitalistica. Noi possiamo vivere felicemente ! Di loro non mi importa niente.

Fine dell’utopia digitale e logica dei giochi infiniti

PN: Un’ultima, soltanto un’ultima. Un’ultima domandina sull’informatica, sulla infotelematica, sul digitale… perché negli anni in cui scrivevi Politiche della mutazione, Lavoro Zero e quasi anche Errore di Sistema, eri relativamente ottimista rispetto alla possibilità che le nuove tecnologie usate correttamente avrebbero potuto fornire opportunità nuove di elaborazione, di invenzione, di emancipazione, di organizzazione. Progressivamente – ricordo ad esempio, la polemica con Pierre Levy sulla rivista Cyberzone in cui già tu dicevi: eh no! bisogna tenere conto anche del corpo ! Progressivamente, questa posizione in cui sostieni che la rete penalizza il corpo, la qualità della relazione, l’affettività e produce spesso fenomeni di isolamento, è parsa quasi scalzare il tuo ottimismo precedente. O no? Anche la distinzione che hai operato tra connessione e congiunzione sembra suggerire che la dimensione connettiva è una dimensione infelice e che quindi tu abbia rinunciato a qualsiasi ipotesi di trasformazione basata sulle tecnologie digitali. E’ così?

FB: Grazie per questa domanda, come per tutte le altre, ma particolarmente per questa. Perché tu richiami la mia attenzione (e quella di chi avrà la cortesia di starci ad ascoltare) su un… non voglio definirlo un “errore”, ma su una contraddizione vera, nella quale noi ci siamo trovati a un certo punto della nostra vita negli anni Novanta. Gli anni Novanta sono un decennio straordinario, perché è il decennio più contraddittorio che io possa immaginare: è il decennio in cui sembra sul punto di concretizzarsi l’utopia libertaria e comunista. C’è un libro di Federick Turner che si chiama From Counterculture to Cyberculture, in cui Turner racconta molto bene come nella cultura americana degli anni ‘60 e poi degli anni ‘90, si manifesti la consapevolezza del fatto che l’intelligenza tecno-scientifica può letteralmente liberarci dalla schiavitù del lavoro e del capitalismo. Mario Savio negli anni ‘60 chiamava il movimento studentesco a battersi contro l’uso capitalistico della tecnologia. Ed ecco che, negli anni ’90, sembra che un esercito di ingegneri, di poeti, di softwaristi, di artisti, di pazzi di ogni genere stia realizzando quell’utopia. E noi la chiamavamo internet. Nel 1994, mi capitò di organizzare un convegno che si chiamava Cibernauti, con un po’ di soldi dell’università di Bologna. Mi diedero la possibilità di chiamare a Bologna Pierre Levy, Derrick De Kerckhove, Kim Weltman, Alberto Abruzzese e tante altre persone ! Franco Piperno e Franco Bolelli per citarne altri due. Persone che, in una maniera o nell’altra – in maniere molto diverse – stavano ragionando sulla possibilità di fare dell’intelligenza tecnica il grimaldello che rendesse possibile una liberazione delle energie erotiche come energie produttive. Ecco questa era diciamo… l’utopia o, se vogliamo, la possibilità. Quella finestra di possibilità durò soltanto pochi anni. Già nel 1995 Bill Gates, l’ottimo Bill Gates, lanciò Explorer che significava (adesso non racconto tutta la storia ma chi ha memoria se lo ricorda) che una corporation economica si impadroniva contemporaneamente di due accessi alla mente umana: l’accesso alla infrastruttura di rete e l’accesso al browser che rende possibile la navigazione all’interno di quella infrastruttura. Bene. Noi subito comprendemmo che si trattava di una cosa pericolosa (io scrissi un libro che si chiama Neuromagma proprio per denunciare il fatto che Explorer era un passo pericoloso verso la corporativizzazione dello spazio libero di internet). Da quel momento in poi la battaglia si fece sempre più dura e, in qualche modo, durò fino al 2000-2001, quando il cosiddetto dotcom crash, la crisi delle piccole aziende informatiche, distrusse l’imprenditoria libera, l’imprenditoria proletaria e cognitaria, e impose il dominio delle grandi corporation. Ecco, da quel momento in poi la storia l’abbiamo vista svolgersi: oggi Internet non esiste più. Oggi esistono delle grandi corporation centralizzate che permettono l’accesso a degli agenti passivi che utilizzano quelle tecnologie per fare i fatti di loro ma, in ultima analisi, per produrre profitto. Questo vuol dire che è chiusa la storia? Naturalmente no: la storia non si chiude mai. La storia non si chiude perché Internet è un gioco infinito; è uno di quei giochi nei quali chi ha vinto tutto in realtà non ha vinto niente e chi ha perso tutto in realtà è alla vigilia di una nuova possibilità di invenzione. Sono i cognitari, sono coloro che creano quotidianamente la rete con le loro parole con il loro software, con le loro immagini e con le loro tecnologie. che hanno la possibilità di rendere felice il breve periodo che resta da vivere al genere umano.

PN: Grazie Franco. Ti ringrazio a nome di transform per questa bella intervista che ci hai concesso e spero che ci rivedremo o risentiremo presto.

FB: Grazie a voi

  1. https://www.baldinicastoldi.it/libri/morte-ai-vecchi/[]
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Alex_Zanotelli[]
  3. https://www.edizioninottetempo.it/it/il-terzo-inconscio[]
  4. https://www.ibs.it/rocco-antonia-porci-con-ali-libro-marco-lombardo-radice-lidia-ravera/e/9788845270710[]
  5. https://it.wikipedia.org/wiki/L%27Anti-Edipo[]
  6. https://www.maremagnum.com/libri-antichi/politiche-della-mutazione/163700323[]
  7. https://www.goodreads.com/book/show/10279836-errore-di-sistema[]
  8. https://www.adbusters.org/[]
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