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In Spagna “se puede”, in Austria no

di Franco
Ferrari

di Franco Ferrari

Il 2020 inizia con il varo, complicato, di due nuovi governi in altrettanti Stati europei: Spagna e Austria. Si tratta ovviamente di realtà che hanno un peso demografico, politico, economico e culturale assai diseguale ma possono essere lette come espressioni di tendenze che spingono i paesi europei in direzioni contrastanti.

Iniziamo dall’Austria dove il sistema politico è basato su cinque partiti presenti in Parlamento. Per molti anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si era assestato su un modello analogo a quello della Germania occidentale, detto dei “due partiti e mezzo”. Un partito popolare-conservatore di tradizione democristiana sul versante destro, un potente e strutturato partito socialdemocratico che non aveva del tutto disperso l’eredità dell’austro-marxismo sul versante sinistro, e infine un piccolo partito liberale che poteva svolgere la funzione di ago della bilancia tra i due. Quest’ultimo, a differenza del suo omologo tedesco, era però diventato lo strumento attraverso il quale erano rientrati sulla scena politica molti vechi simpatizzanti del nazismo. A sinistra il Partito Comunista, che aveva conquistato un certo peso per il suo ruolo nella resistenza antifascista, venne marginalizzato alla fine degli anni ’50 a seguito del ritiro delle truppe sovietiche dall’Austria orientale e dall’impatto molto negativo che ebbe tutta la vicenda ungherese.

Questo schema si è andato via via disarticolando, prima con la nascita dei Verdi che inizialmente si collocavano a sinistra della socialdemocrazia, e poi con la deriva nazional-populista impressa al partito liberale. Per effetto di questa ricollocazione dell’FPOe all’estrema destra è sorto un nuovo partito liberale, che resta liberista sul piano economico ma è più moderato sul piano sociale e culturale e aderisce all’ALDE (il partito di livello europeo che raccoglie il grosso della famiglia liberale).

Le ultime elezioni politiche del 2019, convocate anticipatamente a causa della crisi del precedente governo di destra organica composto dai conservatori dell’OeVP e dai nazional-populisti della FPOe, hanno visto il successo dei primi e la sconfitta dei secondi. Su questa ha pesato però non tanto un cambiamento di indirizzo dell’elettorato che l’aveva sostenuta, quanto gli effetti degli scandali che hanno colpito la sua leadership, in particolare la vicenda del video che mostrava il leader dell’FPOe, Heinz Christian Strache, disposto a promettere favori politici a dei presunti oligarchi russi, in cambio di sostegni economici e soprattutto di maggiore influenza nel mondo dei media.

Il parlamento uscito dalle elezioni è così composto: 71 popolari, 40 socialdemocratici, 31 nazional-populisti, 26 verdi, 15 liberali non populisti. I popolari hanno recuperato voti dall’FPOe non solo per effetto del discredito che aveva colpito questo partito ma anche per lo spostamento a destra impressogli da Sebastian Kurz su tutte le tematiche cavalcate dall’estrema destra su migranti, identità, nazionalismo ecc. Le elezioni sono state un successo anche per i Verdi che nelle elezioni precedenti erano rimasti esclusi dal Parlamento a causa di una scissione poi sostanzialmente rientrata. Con il 13,9% si sono collocati come quarto partito. Proprio i Verdi si erano caratterizzati come il principale partito anti-destra oltre ovviamente a beneficiare dell’attenzione crescente dell’opinione pubblica per i temi ambientali connessi al cambiamento climatico. Un loro manifesto denunciava le posizioni del leader dei popolari affermando che “nel cuore di Kurz c’è uno Strache”.

Ha quindi stupito qualcuno la decisione dei Verdi di formare un governo di coalizione con la destra conservatrice. Una decisione approvata dal Congresso straordinario del partito tenutosi ai primi di gennaio con la sola opposizione di una minuscola minoranza. In realtà l’evoluzione dei Verdi austriaci in senso moderato e il prevalere della componente “Realos”, come veniva chiamata in opposizione ai “Fundis” in analogia con l’esperienza tedesca, è un fatto consolidatosi da tempo. I Verdi in Austria tendono a convogliare il consenso di settori di nuovo ceto medio, fondamentalmente agiato sul piano economico, interessato ad una maggiore attenzione alle tematiche ambientali ma fondamentalmente soddisfatto della propria condizione economica. Una parte di società che ritiene di poter beneficiare degli effetti della globalizzazione senza subirne le ricadute negative. Una base sociale non così diversa da quella dei Verdi tedeschi per i quali c’è chi prospetta (o auspica) un analogo destino di puntello dell’egemonia democristiana.

L’accordo di governo in Austria prevede un maggiore spazio alle politiche ambientaliste, ma lasciandole subordinate all’impostazione economica dettata dai Popolari e con tempi di realizzazione sufficientemente dilatati nel tempo da essere soggetti a qualsiasi ripensamento. Restano intatte le politiche restrittive e identitarie sull’immigrazione e quelle liberiste nelle materie socio-economiche. La valutazione negativa dell’accordo è condivisa dai socialdemocratici (che restano però molto incerti nella ridefinizione della loro identità dopo anni se non decenni di moderatismo), come dai partiti della sinistra radicale, non rappresentati in Parlamento, i comunisti del KPOe e il movimento Die Wandel, ispirato a DIEM25 di Varoufakis. Purtroppo alle ultime elezioni politiche questi ultimi si sono presentati separatamente ottenendo entrambi risultati inferiori all’1%.

La scelta dei Verdi austriaci è stata motivata con il classico e sempre più logorante argomento del meno peggio, per il quale non basta più unirsi tutti contro la destra a prescindere dalle politiche che si applicano, ma bisogna compiere un ulteriore passo alleandosi con una parte della destra contro l’altra. Sempre meglio un governo dei popolari con i Verdi che con i nazional-liberisti ci viene spiegato – con il risultato però che le politiche di questi ultimi adottate dai conservatori, vengono ulteriormente legittimate. Ma, come ben sappiamo, al meno peggio non c’è mai fine.

Tutt’altra musica e ben più gradevole ci viene dalla Spagna. Nel Paese iberico si è formato un governo di coalizione che comprende la sinistra radicale in un ruolo non puramente decorativo e la presenza di due ministri comunisti, come non se ne vedevano dalla fine della guerra civile. Tre fatti di rilevanza storica, non sufficienti a risvegliare i media nostrani, forse perché in questo caso si è dimostrato che forse si può invertire la tendenza al meno peggio e alla rassegnazione. Dato il quadro politico di casa nostra, non sia mai che anche in questi lidi qualcuno possa pensare che forse, davvero: “Sì, se puede”.

Il governo nasce dopo un lungo periodo di difficoltà e con numeri ancora piuttosto precari. Il PSOE di Sanchez avrebbe potuto scegliere prima la strada della coalizione di sinistra con Unidas Podemos (a sua volta aggregazione di Podemos, Izquierda Unida, i Comuns catalani di Ada Colau e altre forze locali) anche se con rapporti di forza più sfavorevoli per i socialisti nei confronti dei potenziali alleati. In particolare la decisione di andare a nuove elezioni, dopo aver posto tutta una serie di veti e di condizioni irricevibili alla sinistra, è sembrato un azzardo assai rischioso. E indubbiamente le Cortes che ne sono uscite mostrano il volto esplicito di una destra rancida e aggressiva che ha tentato fino all’ultimo anche con le minacce (un parlamentare di un partito localista schierato per il sì al Governo ha dovuto dormire fuori casa per prudenza). Non sappiamo, e forse lo chiarirà solo la storia scritta in futuro, se Sanchez sia stato avviluppato dalle spire del proprio opportunismo o abbia dovuto tirare la corda fino all’estremo per convincere i “baroni” socialisti recalcitranti che non vi erano alternative al governo delle sinistre sorretto dall’astensione di alcuni partiti indipendentisti.

Il dibattito finale alle Cortes è stato molto teso, ma ha anche dimostrato un buon clima fra le forze di sinistra, unite nel respingere l’aggressione da destra e effettivamente aperte ad una prospettiva di cambiamento rispetto all’ortodossia neo-liberista. Fra i partiti indipendentisti o autonomisti si sono schierati a favore del governo i galiziani del BNG (all’interno del quale operano alcuni gruppi che si definiscono marxisti-leninisti), e i baschi moderati del PNV, che sono praticamente dei democristiani, per i quali però è perdurante una coscienza antifascista che risale agli anni trenta e che non mostra incertezze né pentimenti (avercene anche noi così, viene da dire). Si sono decisi per l’astensione i Repubblicani catalani e Bildu, la coalizione della sinistra abertzale (basca). Mentre il rappresentante di quest’ultima ha tenuto un discorso fortemente antifascista e classista (con ampie citazioni da Dolores Ibarruri a Che Guevara), la portavoce di ERC, sorella di una esponente del partito ingiustamente imprigionata, è rimasta molto più condizionata dalla visione territoriale, cogliendo poco a mio parere la possibilità di una svolta politica importante per uscire da uno stallo devastante per tutti. Per il no si sono schierati gli indipendentisti catalani moderati, che per altro a casa loro hanno sempre applicato politiche socio-economiche di destra dura, e l’anticapitalista CUP, che non è riuscita ad alzare lo sguardo un po’ oltre il proprio tradizionale settarismo nei confronti della sinistra spagnola (assai maggiore di quello espresso  nei confronti della destra catalana, in verità).

Nasce quindi un governo complicato che deve affrontare nodi politici aggrovigliati (come scrive Massimo Serafini in un altro articolo pubblicato su Transform Italia) ma che lascia intravedere la possibilità di offrire un’alternativa progressista ad un’Europa che altrimenti sarebbe schiacciata tra la destra nazional-populista, reazionaria fino al midollo ma che demagogicamente sembra attenta al disagio dei ceti popolari, e un centro-sinistra che resta avvinghiato al paradigma liberista e si chiude a difesa dei ceti garantiti. Sappiamo che aprire spazi per politiche di sinistra da postazioni di governo non è facile. Ma se ci si è arrivati e finalmente “se puede”, c’è il dovere di provarci e riprovarci.

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