E’ la riscossa del Sud ad entrare nella condizione sociale di questa terra segnata dall’umiliazione del lavoro negato, dalla favola del proprio destino, dalla disperazione delle migrazioni forzate, dalla devastazione del territorio, dalla rassegnazione del vivere, dall’ accettazione dell’esistente? Noi (Laboratorio Sud) pensiamo di si, perché di fronte all’assordante silenzio, riportare al centro del dibattito politico e sociale la condizione del Mezzogiorno d’Italia, è una straordinaria consapevolezza che deve spronare le coscienze e strutturare risposte. Siamo dunque partiti, per questo lungo viaggio. Il Laboratorio ha attraversato la Calabria, la Puglia e la Sicilia, puntando verso Salerno e la Campania. Ed è stato e dovrà essere ancora un confronto tra soggettività politiche e sociali per riscoprire un lavoro dimenticato, per tornare a parlare di quel “estremo confine, luogo tragico di interrogazioni sul senso di ogni distinzione e di ogni oltrepassamento” (cit. La Terra del rimorso, Ernesto De Martino), di quel Mezzogiorno d’Italia, scomparso nelle agende politiche dei governi.[1] In ogni realtà che abbiamo percorso, in ogni appuntamento del nostro Laboratorio, in ogni tema affrontato siamo finiti per confrontarci direttamente col male di vivere: nelle sue forme di ieri e di oggi, dentro la quotidianità di donne e uomini, persone con la propria dignità, le proprie relazioni sociali e familiari, in questa terra che non rivendica confine alcuno. In questo sud segnato dalla memoria “del lamento funebre” e dalle diverse tradizioni “tra l’impellenza del disagio e del potere sui corpi” sotto pressione di un materialismo isterico, il nostro lungo viaggio intende continuare con l’ambizione di affrontare l’asfissiante modernità liberista e patriarcale di questo tempo. Con lo sguardo rivolto al passato, in Finibusterre (romanzo di Luigi Corvaglia, Firenze 1936), traspare il senso del carattere estremo di questa terra: «in tempi in cui era d’obbligo essere in branco con qualcuno, contro qualcuno». Il romanzo – che fra l’altro nella sua trama dà largo posto al tarantismo – riflette, appunto lo stato d’animo del ribelle, che nel vuoto scavato negli anni dall’oppressione, si ripiega sulla propria terra e sulle proprie memorie, nel disperato tentativo di raggiungere le minacciate radici del vivere umano: «senso di esistenza, fame, sete, mio, tuo, sempre, morte… Cioè la vita sino ai limiti che la fanno tragica» (cit. La terra del rimorso, Ernesto De Martino). Nella terra del lavoro di povertà, dove il lavoro era ed è fatica per l’economia domestica e per la costruzione del futuro, dalle aie nelle campagne ai call center ad 1 euro l’ora, ai campi della schiavitù meticcia e femminile, la modernità ha trasformato le relazioni umane. C’era una vota un sud scandito del ritmo cupo e frusciante dei tamburi, suoni della terra, dell’acqua e del vento, storia di un popolo in lotta, “la lotta degli oppressi contro gli oppressori” (Carlo Pisacane, La Rivoluzione), dove il sudore della danza si mischiava a quello della fatica, dove in ritmo della trance, tra sacro e profano, liberava i corpi dall’oppressione. C’è ancora un sud ribelle, ritmato da “A tara, a tara, a tarantella, a tara, a tara, a taranta” di “un ragno letale, infinitesimale, virus bionico, informatico globale, nel panico totale, facendo la guerra, in nome della pace, si muove di fame, di bombe e tristezza, menzogne e falsità, tra vita e morte tra sogno e realtà, miraggio e visione, sogno e possessione, possessi da fantasmi, odi e amori” (Antonio Infantino Tara’n Trance). Nel nostro viaggio portiamo dentro di noi la suggestione della memoria dei canti popolari, che hanno in sé un grande rilievo storico e scientifico non solo per la loro bellezza, per la nascita dal basso, ma soprattutto per la loro connotazione, per quel legame con classi sociali e il loro concepire la protesta, la ribellione contro il dominio. Sottolinea Gramsci: “ciò che contraddistingue il canto popolare nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale. In ciò e solo in ciò è da ricercare la collettività del canto popolare e del popolo stesso” (in Quaderni dal carcere 679 – 680) Nel Mezzogiorno il canto popolare ha l’importanza della rappresentazione socio-culturale della concezione del mondo e della vita di un popolo. La popolarità dei testi di protesta è corposità, condivisione concreta delle conflittualità sociali in contrasto con ogni forma di società dominante finora esistita. In questo quadro lo studio dei canti popolari, nel ristabilire un nesso con le radici, con forme di rivendicazione politica e sociale, sposta l’attenzione dall’ originario terreno estetico – letterario a quello socio – culturale ed antropologico, radicandolo saldamente nel contesto storico-sociale. Arriva a noi, in chiave gramsciana, dunque, l’idea del folklore come forza ideologica tra la sua radicata tenacia ed il rapporto con le classi subalterne, con le quali Gramsci solidarizza ed affida il compito di futura egemonia. Il folklore, un mezzo di opposizione sociale alla cultura dominante, quando si fa elemento costituente di innovazioni – spesso creative e progressive – identificate spontaneamente in forme e condizioni di vita, in processi di sviluppo e di cambiamento, assume quella forza dirompente capace di mandare in frantumi ogni velleità apologetica di un passato devitalizzato in chiave difensiva e reazionaria[3] . Uno spontaneismo di valori e di opposizione sociale come avveniva nelle campagne del Tavoliere, e non solo, nei momenti dello sfruttamento più aspro, agli albori del secolo scorso, dove i braccianti cantavano al calar del sole strofette isolate, per lo più in sequenze libere e non organizzate in senso narrativo, che potrebbero essere definite canti sociali, forme linguistiche di contrapposizione culturale al padrone, in cui l’ironia dei versi, e talvolta la violenza verbale espressa, era causa e contemporaneamente effetto della presa di coscienza, allora appena avviata. Al termine della giornata nei campi i braccianti di Cerignola cantavano: «U sol’ o fatt’ russ’/ u patroun’ appenn’u muss’ / curatele e curatloune / mann’a mmett’u calaroune / u sol’o calaite / appundangill’ la sciurnate / u sol’o fatt’ bianghe / u patrone vè sopr’a la banche“; “U sé che disse u pòdece alla furmèich /che nou ce n’amm’a scej, ch’am’a scapelèjo». A questi versi, che quasi timidamente indicavano il limite invalicabile del tramonto per il lavoro avviato sin dall’alba, si accompagnavano altri stornelli nel mondo bracciantile, che indicando la convenienza di scegliere, potendo, una o l’altra masseria in base alla paga e alle condizioni di lavoro migliori: «Chi vuo’ venì a fatega’ vin’a Curnite / è aria fin’e non si cad’ malat’ / quande figliole venn’ tutt’ zite/ all’ulteme se ne vanne maritato // Aria aria de stu pagliare bell’ / a fatega’ ch’ stu patrun’ ghè nu dann’ / fatiga assai e poch’ vol’spenn’ / la ggend’ com’ nind’ se ne vanno», Strofette che venivano inserite in maniera casuale all’interno di lunghissime sequenze cantate spesso per ore, quasi a voler mimetizzare i versi contestativi tra quelli apparentemente simili ma innocui. In alcuni casi la violenza verbale invece si faceva invettiva e promessa di vendetta e rivolta per quanto si era subito in precedenza: «Patrone te la lasse la cunzegn’ / pigghj’ i chigghiuni e ti li mett’ ‘n maine / m’ha’ fatt’ mangè lu ppain’ di li caine / m’ha’ fatt’ veve l’acque du pantaino». Giuseppe Di Vittorio cantava, intuendo l’importanza della musica e del canto collettivo organizzando nel suo Circolo Giovanile un primo coro, cosi che i giovani militanti cantando di notte per le strade deserte di Cerignola si ponevano l’obiettivo di affascinare i loro coetanei e di far colpo sulle ragazze, dimostravano così che la militanza politica era anche vita di gruppo e conquista del diritto al divertimento e al tempo libero, manifestando, contemporaneamente, alla cittadinanza di estrazione borghese e benpensante la loro forza collettiva e la loro capacità provocatoria. Accanto ai canti del mondo bracciantile i loro canti appartenevano principalmente alla tradizione anarchica e socialista, canti politici divulgati in tutta Italia dai libretti a stampa e dai fogli volanti circolanti già dai primi anni del ‘900 e diffusissimi a Cerignola. La fascinazione dei canti, strumento di opposizione sociale, come elemento condiviso tra le classi subalterne nelle realtà meridionali, fatte in maggioranza di “comunità di fedeli” potrebbe aprirsi sia ad un lavoro di approfondimento del passato che ad una riflessione dell’oggi. Un oggi che nella condizione del lavoro moderno porta in sé ancora sfruttamento, mercificazione, migrazioni. Lungo il nostro viaggio ogni stazione è luogo di partenza e di ritorno, ogni abbraccio è espressione di un incontro o di una separazione ed ogni treno è affollato da pensieri, ricordi, riflessioni dell’oggi, speranze e timori del domani. Non più valigie di cartone, adesso, ma trolley, non più poche lire addosso ma euro e carte di credito, non più un giornale sotto il braccio ma smartphone e computer: ma la storia sembra non cambiare. Quella maledetta storia di migrazioni, in questa modernità capitalistica, che determina le sorti della periferia dell’impero, tra disagio sociale e precarietà di vita. E quel saluto allude ancora alla ricerca permanente del riscatto, di una speranza, di un sapere. E se “l’avvenire è di coloro che non sono disillusi” (cit. Georges Eugène Sorel) forse il compito è quello di creare “comunità ribelli” partendo proprio dal Sud, per una nuova forma di soggettività conflittuali. La contraddizione capitale/vita può aprire ad un agire collettivo che parta dalla difesa del territorio e dai bisogni individuali e vada nella direzione della autorganizzazione collettiva, per l’organizzazione del conflitto contro ogni insulto del potere ad un popolo e alla sua Terra. Comunità ribelli luogo di critica biopolitica e autorganizzazione, di costruzione del contropotere in contrapposizione alle relazioni sociali dominanti e al modello di sviluppo capitalistico. Comunità ribelli tra chi e per chi non accetta “l’eutanasia del Mezzogiorno” e, servendoci metaforicamente del testo di E. Bennato – Taranta Power, perchè: “La Taranta muore quando tu Colpita al cuore dal tuo sud Per ore ed ore ballerai Il ballo che non finisce mai Sempre più in alto fino a volare Per liberarti del male d’amore Così ballando meridionale Comme la taranta ca te pizzica lu core” e per chi ha il coraggio di rimanere e la speranza di tornare in questa terra. |
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Il sole è diventato rosso
di Loredana
Marino