Nei giorni precedenti allo sciopero del 17 novembre il ministro dei trasporti ha lamentato che il diritto dei lavoratori a scioperare sia in conflitto con il diritto al lavoro, con quello alla salute e con quello alla mobilità, fraintendendo volutamente il significato degli articoli 4 e 32 della Costituzione ed elevando al rango di diritto (quindi giuridicamente tutelato) un principio che dovrebbe invece servire a orientare le politiche dei trasporti. Un rovesciamento in chiave strumentale, ovviamente, con l’obiettivo di indicare i “colpevoli” delle situazioni di disagio che uno sciopero inevitabilmente comporta, fingendo di ignorare che non siano poche ore di sciopero a impedire che una visita medica o un esame strumentale siano disponibili (se lo sono) a mesi di distanza dalla richiesta, che il trasporto pubblico sia quotidianamente un incubo per i pendolari e comporti innumerevoli ritardi nel raggiungere il luogo di lavoro o di studio, che il lavoro sia scarso, povero e insicuro.
In questo modo i lavoratori (i “pochi”) che scioperano per un po’ di giustizia sociale, salari un po’ più dignitosi, qualche garanzia in più per la vecchiaia diventano gli avversari, se non i nemici, dei “molti” che non scioperano.
E ci sono poi altri nemici, individuati e combattuti a suon di decreti e pacchetti intitolati alla “sicurezza”. La lista si allunga ogni pochi mesi: prima i partecipanti ai rave, i genitori di bambini nati dalla gestazione per altri in un Paese nel quale è legale, gli istigatori all’anoressia, i minori imputati di reati di lieve entità connessi alle sostanze stupefacenti, i genitori che non mandano i figli a scuola… ora chi occupa un appartamento (senza alcuna distinzione tra chi prende possesso di un immobile sfitto da anni e chi approfitta del ricovero in ospedale di un anziano per occupare il suo appartamento), i detenuti che resistono anche passivamente agli ordini impartiti e gli immigrati che protestano nei centri per il rimpatrio (facendo, per entrambe le categorie, di ogni protesta, anche pacifica, anche di resistenza passiva, una “rivolta”), chi effettua un blocco stradale, chi imbratta un bene pubblico, le autrici di reati minori contro il patrimonio incinte o con figli piccoli.
Una concezione della società, quella del governo, in base alla quale solo alcuni soggetti titolari di diritti sono meritevoli di tutela. Le norme di volta in volta promulgate si dimostrano in gran parte inapplicabili, inefficaci rispetto all’obiettivo enunciato, in contrasto con altre norme anche costituzionali, ma questo non sembra essere minimamente rilevante, perché il loro scopo fondamentale è quello di disegnare lo spazio dei diritti come limitato, come una coperta corta che per coprire le spalle di qualcuno deve inevitabilmente scoprire i piedi di qualcun altro.
In realtà è ancora peggio, perché l’infilata di misure punitive non tutela alcun diritto, ma ne cancella molti, in una logica bellica in cui se non ci sono vincitori ci sono senz’altro vinti, che è il vero obiettivo.
Prendiamo per esempio la norma che rende facoltativo il differimento della pena per le donne incinte o madri di bambini che non hanno ancora compiuto un anno nell’ipotesi che vengano riconosciute colpevoli di furto. La previsione normativa tutt’ora in vigore (differimento obbligatorio) è a tutela della maternità e dell’infanzia, termini mai così ricorrenti e così vani nelle parole della politica come negli ultimi tempi. Rendere discrezionale il differimento significa, nei fatti, negarlo nella maggior parte dei casi, con l’effetto di avere più madri (povere, nella maggioranza dei casi) e più bambini dietro le sbarre, mentre i furti diminuiranno di poche unità, perché non sono solo le donne a rubare e perché non tutte le donne che lo fanno sono incinte o sono madri.
Si utilizza il codice penale anche come strumento per “dare soddisfazione” a categorie che lamentano di non essere adeguatamente tutelate.
Prendiamo per esempio i sindacati degli agenti di polizia penitenziaria che lamentano la carenza di personale (anche se l’Italia è in media europea e sono invece insufficienti dirigenti, psicologi, educatori e assistenti sociali), la difficoltà delle condizioni di lavoro e il rischio di essere aggrediti. Senza intervenire non dico su misure di riduzione della popolazione carceraria (costantemente in aumento, scandalosamente al di sopra della capienza e che è al denominatore del rapporto con il numero degli agenti) ma sull’organizzazione penitenziaria, si struttura invece uno strumento ulteriore di intimidazione nei confronti dei detenuti. La risposta non è coerente con la domanda, ma serve a segnare un punto nella “partita” tra detenuti e personale di custodia: non si migliorano le condizioni di lavoro ma si effettua uno scambio tra diritti degli uni e potere attribuito agli altri. Rivelatasi vana la promessa dell’abolizione del reato di tortura (in modo da mettere gli agenti al riparo dai processi in corso e dagli eventuali futuri), anche perché entrerebbe in conflitto con la Convenzione europea dei diritti umani, si sceglie di dar loro il potere di denunciare i detenuti che resistono anche passivamente agli ordini impartiti, non importa se legittimi o no.
Praticamente dopo ogni episodio di cronaca che arrivi all’attenzione generale si sente parlare di “certezza della pena” (e non solo da parte del governo). Si intende certezza che l’eventuale condanna sia espiata in carcere fino all’ultimo minuto, senza permessi e misure alternative. Non è questo, però, il significato dell’espressione, che origina invece dall’idea illuminista che la minaccia della sanzione certa (cioè che ogni reato venga punito) funzioni da deterrente più della minaccia della punizione crudele. Insieme ai principi di legalità (un reato è definito tale da una legge dello Stato) e di proporzionalità (non si possono punire allo stesso modo reati di diversa gravità), la certezza della pena è cardine del sistema penale moderno (sebbene abbia mostrato di non essere, in realtà, efficace), non la definizione politicamente corretta della vendetta.
Maria Pia Calemme
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Brava, tutto ben collegato. Sento spesso contrapporre la certezza della pena alle colpe della mentalita’ patriarcale( e’ meglio evitare la semplificazione sloganistica), scusa molto fuorviante. Prima facciamoci carico di tutta una mentalita’ pervasiva, poi occupiamoci dell’allontanamento dalla vita pubblica di chi la usa per impossessarsi dei beni altrui