Nell’articolo pubblicato il 15 novembre 2023, ho cercato di smentire , con argomenti e citazioni inconfutabili, la propaganda che ha accompagnato quella che il Presidente Ehud Barak definì “la generosa offerta” proposta ad Arafat nel 2000 a Camp David.
Una recente pubblicazione 1curata da Marco Travaglio sembra accettare la versione di Barak e, tuttavia, pubblica a corredo del testo, una mappa che parla da sola, infatti, le parti in bianco separate fra loro da insediamenti israeliani e confinanti tutte con Israele; senza accesso al Giordano e al Mar Morto , con il controllo israeliano del mare di Gaza, mostra quattro enclaves, (tre in Cisgiordania più Gaza) in cui avrebbero dovuto essere rinchiusi i palestinesi. Come se non bastasse, quei puntini che si vedono nelle aree in bianco, sono tutti insediamenti coloniali interni alle stesse enclaves palestinesi.
La mappa della “generosa offerta” di Ehud Barak
da Marco Travaglio, “Israele e i palestinesi in poche parole”, Paper FIRST, il Fatto Quotidiano, 2023
Nella mappa non compare Gerusalemme, tuttavia, anche di questo ci si occupò , proponendo ad Arafat di accettare come Capitale del nascente “Stato”, il villaggio di Abu Dis, alle pendici della collina su cui sorge Gerusalemme.Tale proposta, pare sia stata ripresa ultimamente dal piano Trump nell’ambito degli Accordi di Abramo, in particolare nei negoziati con l’Arabia Saudita, anche se non viene lì specificato il nome del villaggio prescelto (potrebbe essere lo stesso Abu Dis) che avrebbe la facoltà di chiamarsi Al Quds ( la Santa) come Gerusalemme.
Il 26 novembre scorso, il Fatto Quotidiano, ha ospitato una intervista all’ex Presidente israeliano Olmert in cui sostiene di essere stato ,invece, lui a prospettare ai palestinesi e, in loro rappresentanza ad Abu Mazen, la proposta più generosa che fosse stata fino ad allora avanzata, riconoscendo allo Stato Palestinese la parte non colonizzata della Cisgiordania ( è bene ricordare che la costruzione del muro aveva già sottratto ai palestinesi l’ 8% della Cisgiordania, con tutte le conseguenze sulla vivibilità); egli tace su molte aspetti, soprattutto sulle circostanze in cui quel tentativo di negoziato avvenne; tace sulle condizioni poste ai palestinesi e su chi, dopo di lui, avrebbe potuto gestirle, visto che nell’agosto 2008 era già dimissionario a causa di quattro inchieste giudiziarie a suo carico. Olmert parla anche dell’operazione “Piombo fuso” di cui fu fautore, dopo che la tregua seguita all’operazione detta “Inverno caldo” era stata interrotta con accuse e recriminazioni reciproche tra Hamas e Israele. Oggi egli rimpiange il fatto di non essere andato fino in fondo (praticamente quello che sta tentando di fare Netanyahu), a causa della contrarietà dei vertici militari, a cominciare dal Ministro della Difesa dell’epoca Ehud Barak (Ex Primo ministro Israeliano ai tempi di Camp David 2000, il quale, come si è detto, si era attribuito il merito della migliore offerta fino ad allora avanzata ai Palestinesi).
Sarebbe inutile contestare i ricordi di un uomo che, sia prima che dopo le dimissioni, affrontò processi e una condanna con conseguente carcerazione di 18 mesi che scontò nel 2016 ; quello che invece è doveroso fare, è smontare la sua semplicistica versione e chiarire le circostanze, il contesto e le reali condizioni di quell’ennesimo tentativo di accordo. A questo proposito, una persona che fu testimone e protagonista di quegli eventi è Mustafa Barghouti, autorevole esponente della società civile palestinese, il quale potrebbe aggiungere un altro punto di vista, non certo consolatorio, e, oltre al giudizio sulla proposta” Olmert”, potrebbe inquadrare quel passaggio nella drammatica situazione interna ai Palestinesi nel “dopo Arafat”, anche a seguito della vittoria elettorale di Hamas nelle elezioni politiche del 2006, non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Andando con ordine, si potrebbe partire dal documento detto “dei carcerati” del Giugno 2006, elaborato nelle carceri israeliane da esponenti delle varie formazioni palestinesi dopo la vittoria di Hamas.
Il lavoro nelle carceri sopperiva alla mancanza di comunicazione tra le diverse componenti sul terreno e prospettava posizioni utili su vari aspetti del conflitto a cominciare dalle frontiere, con un indurimento sulla questione del ritorno dei“rifugiati” che Israele non voleva neanche più prendere in considerazione. Tra queste posizioni vi era anche il riconoscimento di Israele, sia pure in modo indiretto e subordinato al buon esito di eventuali negoziati di pace. Nonostante ciò, il conflitto tra le varie fazioni palestinesi era iniziato e si era fatto violento e insanabile, mostrando anche un interesse esplicito di USA e Israele a fomentare una vera e propria guerra civile.
Diversa la posizione europea più propensa a facilitare un accordo che, in effetti avvenne, grazie alla mediazione dell’Arabia Saudita, accordo sottoscritto solennemente da ANP e Hamas l’8 febbraio 2007 a La Mecca.
L’accordo prevedeva un governo di Unità Nazionale presieduto da Hanyett (Hamas) con ministri di Fatah e indipendenti e, poiché una delle ragioni del conflitto aveva riguardato il peso delle rispettive forze di sicurezza, la questione fu risolta con il rafforzamento di entrambe le formazioni militari (Guardia Presidenziale e Milizie di Hamas).
L’accordo aveva, però, nemici interni molto potenti, a cominciare da Mohammed Dahlan, comandante militare, leader di Fatah a Gaza, oltre a frange militari radicali di Hamas.
L’UE sostenne l’accordo al punto di prevedere che la prima visita del neonato Governo sarebbe stata a Londra. Pare, tuttavia, che, nel frattempo, lo stesso Dahlan scoraggiasse l’UE da erogare finanziamenti per una causa che sarebbe da lì a poco fallita.
Così fu. Il Governo durò in carica due mesi, sabotato dalle ali estreme; seguì un periodo di scontri con più di cento morti e cinquecento feriti, terminato con la presa del controllo della Striscia da parte di Hamas (Giugno 2007). Questo drammatico percorso è analizzato in ogni passaggio nel libro di Paola Caridi, “Hamas”, recentemente riedito in una versione aggiornata 2, la cui lettura è fondamentale per chi voglia approfondire la conoscenza del complesso “arcipelago Hamas”, dalla sua nascita ad oggi.
In questo quadro, nel Novembre 2007, prese il via la Conferenza di Annapolis, nel Maryland, con l’obiettivo di raggiungere un eventuale accordo alla fine del 2008. Già a settembre di quell’anno Olmert fu costretto a dare le dimissioni annunciando che non si sarebbe ricandidato. Dopo il fallimento dell’ipotesi di un Governo di transizione guidato da Tzipi Livni, le elezioni politiche in Israele si tennero nel febbraio del 2009, con la vittoria del partito Kadima, guidato dalla stessa Tzipi Livni; tuttavia, quest’ultima non riuscì a formare una coalizione maggioritaria che, invece, Netanyahu realizzò anche con l’appoggio esterno del partito Laburista.
Tornando ad Annapolis, e consultando varie fonti dell’epoca, i giudizi convergono su due termini: “prudenza” e “debolezza”.
Prudenza, a cominciare dalla scelta della data, un anno esatto prima delle elezioni presidenziali americane, con un conflitto aperto in Iraq da cui Bush non sapeva come venire fuori.
Debolezza, perché ciascun interlocutore era gravato da problemi che ne condizionavano l’autorevolezza e la rappresentatività: Bush, le elezioni e l’Iraq; Olmert, i problemi giudiziari e la fine del suo mandato; Abu Mazen, la difficoltà a rappresentare il popolo palestinese dopo la frattura con Hamas; l’Arabia Saudita, da parte sua, attribuiva a Israele la responsabilità del fallimento dell’accordo sul governo a Gaza, era però interessata alla fornitura di armi promessa dagli USA ma non voleva discostarsi dalla posizione assunta dalla Lega Araba sul conflitto Israelo- Palestinese basata sul ritiro dei Territori occupati nel 1967 e su Gerusalemme Est Capitale.
Entrando, poi, più dettagliatamente nei termini dell’accordo, esso riproponeva, al pari del piano Barak, di mantenere gli insediamenti illegali, nel frattempo cresciuti, “scambiandoli” in parte con una compensazione territoriale costituita da una porzione di deserto del Negev. Le altre condizioni introdotte erano dirompenti; come la richiesta, non solo del riconoscimento di Israele, ma del riconoscimento di Israele come Stato Ebraico. Il che significava un processo di disconoscimento della cittadinanza per i palestinesi residenti in Israele.
Quest’ultima questione, che Netanyahu risolverà con una legge di rango costituzionale approvata dalla Knesset nel 2018, era già nella testa di Olmert a dimostrare che, sia la colonizzazione che l’idea di Stato etnico-confessionale, siano stati una costante dei Governi israeliani ancorché espressi da maggioranze politiche diverse, e che il governo Netanyahu, il più a destra di sempre, cerca di portare, oggi, fino alle estreme conseguenze.
A ciò va aggiunto che, in ogni caso, l’ipotetico Stato palestinese nascente avrebbe dovuto essere de-militarizzato (sarebbe stata una grandiosa idea se ciò fosse valso per lo stesso Israele), e invece, all’esercito israeliano era concessa mano libera in tutti i Territori palestinesi, con libertà di sorvolo per l’aviazione, controllo delle frontiere e mantenimento delle truppe. In più, mentre la parte del territorio della Cisgiordania, che avrebbe dovuto essere scambiato, sarebbe stato immediatamente ceduto a Israele, mentre le compensazioni territoriali ai Palestinesi, sarebbero state, invece, subordinate alla sconfitta di Hamas e del suo Governo a Gaza.
Abu Mazen ha continuato a vedere Olmert fino alla settimana delle dimissioni di quest’ultimo ribadendo, con qualche ragione, che la eventuale soluzione negoziale, avrebbe dovuto essere sottoposta a referendum popolare.
Ciò al fine di non sprofondare in una guerra civile, anche ispirandosi alla frase attribuita ad Arafat dopo il fallimento di Camp David nel 2000 : “Se devo morire preferisco sia per mano dei miei avversari che non per mano amica”.
di Pasqualina Napoletano