di Alfonso Gianni –
Come era del tutto prevedibile la reazione della Commissione europea non si è fatta attendere. Appena il ministro Tria ha inviato una lettera al fine di aprire un dialogo in merito alle scelte di bilancio fra il governo italiano e le autorità della UE, Dombrovskis e Moscovici, a nome della Commissione europea, hanno fatto conoscere la loro senza peli sulla lingua. Alla loro lettera di risposta è stata data amplissima pubblicità, anche se avrebbe dovuto restare riservata. Ma a quei livelli è ben difficile che questo avvenga. Del resto accadde così anche per la più famosa lettera, a firma Trichet e Draghi, che la Bce inviò il 5 agosto del 2011 al governo italiano allora in carica. Il quarto governo di Berlusconi che nel novembre successivo si sarebbe dimesso, dopo un voto della Camera sul Rendiconto generale del bilancio dello Stato. Un provvedimento dal valore solo formale, ma la votazione evidenziava che il governo non aveva più la maggioranza assoluta di quel ramo del Parlamento. Anche quella missiva avrebbe dovuto avere carattere riservato, mentre venne pubblicata, non a caso, con grande evidenza dal Corriere della Sera.
Tra le due lettere c’è però una evidente diversità. Quella del 2011 conteneva delle imperiose e puntuali direttive su cosa il governo avrebbe dovuto fare. E infatti diventò di fatto il programma politico economico dei governi a seguire. Quella di pochi giorni fa è più morbida nei toni, ma minacciosa nella sostanza. Il motivo è che la linea è già stata tracciata dalla Ue, la quale non ha bisogno di riprecisarla nel dettaglio, ma ne esige il pedissequo rispetto. Quello che conta sottolineare che “gli obiettivi di bilancio rivisti dall’Italia sembrano puntare verso una significativa deviazione dal percorso fiscale raccomandato dal Consiglio”.
In sostanza alla Commissione non è bastato il vistoso passo indietro fatto dal governo pentaleghista sulla programmazione del rapporto deficit/pil. Con “orgogliosa sicurezza” e ostensione dai balconi di Palazzo Chigi i maggiorenti del governo Conte avevano dichiarato che tale rapporto doveva situarsi sul 2,4% per l’intero triennio. Con questo mandato Tria si era recato alla riunione di Ecofin, salvo non parteciparvi perché in realtà aveva in mano solo la cover della Nota di aggiornamento del documento economico finanziario, e quindi era dovuto tornare precipitosamente a Roma per riempire le pagine mancanti. Questo ha fatto sì che il documento governativo sia stato inviato con notevole ritardo alle Camere. Ma ciò che conta è che alla prima avvisaglia di turbolenza dei mercati e di cattivo accoglimento del testo italiano da parte delle autorità Ue, i contraenti il patto di governo hanno fatto subito marcia indietro, decidendo di non mantenere il 2,4% per tutti i tre anni, ma di attuare un decalage, prevedendo il 2,1% nel 2020 e l’1,8% nel 2021. Ma era evidente che questo non potesse bastare ai censori della Ue, anche perché ciò che conta in questi casi è la previsione più ravvicinata, cioè quella del 2019 lasciata al livello del 2,4%.
Da qui una vera e propria invasione di campo da parte Ue nella discussione che deve ancora formalmente aprirsi nella sessione di bilancio del parlamento italiano. Del resto le cosiddette regole europee derivanti dal Fiscal compact, chiedono al nostro paese una correzione in termini strutturali di 0,6 punti percentuali di Pil, mentre l’insieme delle misure previste, anche nella formulazione vistosamente corretta, farebbero peggiorare il saldo strutturale di 0,8 punti percentuali. La lettera della Commissione europea non è un semplice avvertimento, ma l’inizio di un’escalation che può portare all’apertura di una procedura di infrazione. Non solo, ma la missiva pubblica costituisce anche un assist alle agenzie di rating, le quali peraltro non avrebbero bisogno di particolari stimoli per fare danno, che si dovranno esprimere a fine mese sull’affidabilità finanziaria dello stato italiano. Un downgrade è un rischio concreto, con le conseguenze di un incremento, peraltro già in atto, dello spread e del costo dell’indebitamento, nonché di una fuga degli investitori dal nostro paese, anche questa già cominciata.
Non vi è dubbio che anche se si è trattato di incontri riservati, questi problemi e questi rischi siano stati al centro degli incontri fra Mattarella e Draghi. E’ evidente che negli ultimi tempi l’attivismo del Capo dello stato si è come risvegliato e attraverso questi contatti cerca di rendersi conto di quali siano gli effettivi rischi che può correre il nostro paese nell’attuale situazione. Una situazione appesantita dalla fine del Quantitative Easing. Anche se la Bce ha assicurato che i tassi non subiranno impennate, anche se continuerà a reinvestire il capitale rimborsato sui titoli in scadenza “finché sarà necessario”. Se l’Italia è certamente un paese too big to fail è pur vero il rovescio della medaglia per cui è anche too big to be saved. Quindi non c’è da aspettarsi una particolare benevolenza da parte della Bce, chiunque sarà il suo nuovo presidente che succederà a Mario Draghi alla fine del suo mandato in scadenza il 31 ottobre del 2019.
Il punto vero di debolezza del nostro paese non sta tanto e solo nell’elevato debito, oltre il 130%, quanto nel carattere asfittico della crescita. Le cifre previsionali fornite dal nostro governo non sono ritenute realistiche e non solo da parte dei mastini della Ue. L’1,5% per l’anno prossimo, seguito da un 1,6% per quello successivo e poi da un ripiegamento sull’1,4% nel 2021 paiono un miraggio in un quadro, non solo italiano, di percentuali di crescita da prefisso telefonico. Pesano sul pessimismo gli ultimi dati resi noti sul crollo della produzione industriale. Sperare quindi di ridurre il rapporto deficit/pil agendo sul denominatore della frazione è cosa vana. Ci vorrebbe, per farlo, una vera politica industriale, una politica economica che punti a investimenti pubblici in settori innovativi ed a elevato tasso occupazionale. Ma di questo non c’è traccia, malgrado Tria ripeta che bisogna puntare sulla crescita. Il keynesismo che persino in alcuni settori della sinistra di alternativa viene accreditato al governo – basta leggere le ultime dichiarazioni di Stefano Fassina, deputato di Leu – è solo una illusione. Infatti esso non si basa solo sulla spesa in deficit, ma sulla qualità della medesima; non solo sulla ridistribuzione ma sulla creazione in forme nuove di ricchezza sociale.
Del resto se si analizzano gli elementi fin qui noti che dovrebbero sostenere la manovra economica del governo, si vede che anche sul piano puramente redistributivo c’è molto da dubitare. Il salario di cittadinanza promesso, tale non è. Non solo perché si tratta semplicemente dell’estensione e del rafforzamento del reddito di inclusione già messo in opera da Renzi e da Gentiloni, ma perché oltre al condizionamento, dato dall’obbligo di scegliere almeno una tra le tre offerte di lavoro pena la perdita del reddito, Di Maio si è anche inventato un “imperativo morale” per chi lo riceve, in base al quale non lo può usare per spese giudicate voluttuarie. Siamo allo Stato etico, l’anticamera di un regime e il reddito diventa di sudditanza. Una presunta etica che è contraddetta in modo clamoroso dalla riproposizione di un generoso condono fiscale, chiamato “pace”. Al disoccupato si toglierebbe quindi il reddito in caso di rifiuto delle occasioni di lavoro che malridotti centri per l’impiego dovrebbero offrire; addirittura (dice Di Maio) il disoccupato rischierebbe in caso di dichiarazione non veritiera sulla propria condizione addirittura sei anni di prigione. Mentre gli evasori fiscali, specie se grandi, se la passerebbero liscia per l’ennesima volta.
Per quanto riguarda la tanto sbandierata quota 100 per le pensioni, questa si avrà solo nel caso di 62 anni e 38 di contributi. Ma quest’ultimo dato rimane rigido, per cui salendo l’età la quota diventa 101, 102 ecc. Per giunta i 38 anni di contribuzione potrebbero essere raggiunti usufruendo di solo due anni di contributi figurativi, il che ovviamente penalizza chi ha percorsi precari e in generale le donne, cioè i segmenti più deboli del mercato del lavoro. Non solo, ma il ricalcolo contributivo che si vorrebbe estendere a tutti i periodi lavorativi senza distinzione (in questo senso i provvedimenti sui vitalizi dei parlamentari fanno da battistrada) ridurrebbe considerevolmente la misura dell’assegno pensionistico. Infine vigerebbe il divieto di cumulo per chi fosse nella condizione di scegliere la quota 100.
D’altro canto bastava dare un’occhiata al “contratto” di governo per capire che non potevano stare insieme il miglioramento delle pensioni (figuriamoci la cancellazione della legge Fornero) e il reddito di inclusione con la diminuzione delle entrate fiscali che sono l’inevitabile conseguenza della introduzione della flat tax. Questa è già diventata una sorta di “trial tax” cioè di una tassazione a tre aliquote, ma se andasse in porto la misura nella sua interezza con una aliquota finale sensibilmente più bassa di quella che è la massima nel sistema attuale, la perdita per le entrate dello Stato sarebbe assai pesante. Visto anche che non vi è traccia di lotta all’evasione fiscale.
Da dove possono venire le risorse per mantenere le promesse dei pentaleghisti? Se ridiamo una occhiata alle cifre, vediamo che il 2,4% che fa tanto scandalo in Europa non è distante dal 2,3% del 2017. Quindi le risorse non verranno da un ampliamento consistente del deficit, quanto dai tagli alla spesa sociale. Infatti le prime cifre fornite a questo riguardo prevedono 5 miliardi in meno per il welfare tradizionale, come sanità e istruzione, come ha anche rilevato Chiara Saraceno. In sostanza quello che reddito di cittadinanza non è, ma di sudditanza, per di più verrà pagato dalle tasche dei contribuenti che non possono evadere, cioè i lavoratori. Si tratta quindi di uno spostamento dei redditi in basso, lasciando inalterate le posizioni economiche apicali. Siamo in una versione del capitalismo neanche troppo caritatevole.
Per tutte queste ragioni tra il rigore ottuso della Ue e la demagogia populista del governo pentaleghista bisogna cercare di costruire un’altra strada. Su questa si misura la capacità di ricostruire la sinistra nel nostro paese e, da subito, di fare una opposizione intransigente, ma intelligente ed efficace, a questo governo. Nello stesso tempo tutta questa vicenda ci ripropone con forza il tema di che fare nella Ue. Un’Italexit avrebbe conseguenze ancora più disastrose particolarmente per i ceti popolari del nostro paese. Un’osservanza pedissequa dei Trattati europei con il contorno delle misure assunte in questa Grande recessione, come il Fiscal compact, comporta conseguenze non molto dissimili sul piano interno, anche se meno deflagranti, ma prolungate nel tempo e contemporaneamente portano alla possibile implosione dell’unità europea.
L’esempio di una buona resistenza ci è venuto dalla Grecia e dal Portogallo. Paesi più piccoli del nostro, certo, ma la loro esperienza è tutt’altro che trascurabile. A proposito del Portogallo recentemente Boaventura de Sousa Santos, uno degli intellettuali di riferimento per il movimento altromondialista, ha sottolineato che quanto è successo nel suo paese, dopo durissimi memorandum, non è frutto di un miracolo, ma della capacità del governo socialista appoggiato da Unidos Podemos di svolgere un lavoro quasi artigianale, negoziando ogni punto con la Ue. Giustamente ha chiamato tutto ciò “il ritorno della politica”. Se il nostro paese, anziché gettarsi tra le braccia di Visegrad, costruisse una linea di resistenza con Grecia, Spagna e Portogallo, il Sud mediterraneo, le prospettive di combattere la tenaglia fra Maastricht e il ritorno alle piccole patrie predicato dai vari nazionalismi potrebbe ottenere risultati concreti. Pensare invece di creare una specie di fronte contro il sovranismo che vada da Macron a Tsipras, significa al contrario alimentarlo, mettendo insieme oppressori e oppressi. Naturalmente dovremmo avere in Italia un governo di altro colore e politica e in Europa l’affermarsi nelle prossime elezioni di una consistente schieramento di sinistra. Tutt’altro che facile, ma è l’unica cosa che valga la pena di essere tentata.