di Imma Barbarossa – ♥
A volte esigenze immediatistiche e politicistiche giocano brutti scherzi e rischiano di generare trappole teoriche e culturali che sfiorano il grottesco. Credo sia accaduto agli autori (spero solo maschi per il bene che voglio alle donne) del neonato soggetto a “sinistra”, “Patria e Costituzione”. L’intento, quello di sottrarre il “sacro” termine di patria ai sovranisti e alle destre xenofobe e fasciste, e di collocarlo sotto lo scudo tranquillizzante della costituzione, di fatto cade nella trappola della rincorsa a chi arriva prima. Una trappola oggi di moda in una certa “sinistra” che tenta di smarcarsi in qualche modo dal PD (e dalle sue colpe “europeiste”), immolandosi sull’altare della patria, la cui “difesa” ha provocato e provoca le guerre più sanguinose tra tribù, etnie, ”nazioni”, quasi sempre con l’identificazione della patria con il gruppo al potere e, in epoca moderna, con il capitalismo, con gli affari, con il petrolio ecc. Né vale collocare le patrie nell’alveo delle Costituzioni, le quali necessariamente contengono il ricorso alle armi come strumenti per lo meno di difesa.
Ma andiamo con ordine: bastava una veloce lettura di testi femministi (da Virginia Woolf a Christa Wolf, a Hanna Arendt, a Rada Ivecovic a Judith Butler) per acquisire un dato fondamentale antico e moderno, anzi un elemento costitutivo della modernità. La patria è una costruzione sociale, politica, simbolica del patriarcato, è il precipitato formale e “istituzionale” dell’egemonia maschile, dell’ideologia del dominio, del territorio, della proprietà sul corpo delle donne. E della conseguente costruzione di recinti, muri, frontiere, dell’identità, del diritto di sangue. Legami che vengono difesi con la formulazione di costruzioni ideologiche, quali onore, sangue, sacrificio, eroismo fino a un rassicurante “spirito di corpo”. Un semplice dissenso, al contrario, viene stigmatizzato come tradimento, diserzione, vigliaccheria, da demonizzare. La parola “patria” in letteratura spesso si accompagna alla parola “madre”, in una formula ossimorica che non tiene conto dell’etimo “paterno” che sancisce la formalizzazione del dominio patriarcale nella relazione tra i sessi, ma non solo. Si tratta di un vero e proprio assoggettamento del corpo-mente delle donne al dominio del padre (o fratello o marito), in quanto la donna sarebbe l’anello “debole” e secondario della comunità identitariamente intesa. La patria è costruita sulla primazia del clan dei maschi nella comunità. Anticamente una tribù di maschi conquistava una città, uccideva i maschi importanti, faceva schiavi i “popolani”, stuprava le donne dividendosele in ordine di importanza (“Le Troiane” di Euripide). In epoca moderna, durante le guerre nell’ex Yugoslavia alle donne bosniache musulmane stuprate dai cetnici serbi veniva impedito l’aborto perché nel loro ventre c’era un piccolo cetnico. E non c’è bisogno di andare al mito o alla storia della fine del Novecento. Basta stare all’oggi, a quello che accade nei lager libici sotto gli occhi della “civile” Europa dei diritti umani. Il precipitato sociale delle nazioni è la cittadinanza che si può concedere o negare, il precipitato sociale delle patrie è l’appartenenza alle comunità identitarie, il rispetto del diritto di sangue, il suolo, il recinto da difendere con le armi. L’appartenenza diventa complicità, lo spirito di corpo obbedienza, odio per lo “straniero”, la trasformazione dello straniero in nemico.
E poi, gli inni nazionali… Come nelle partite di calcio internazionali, nelle cerimonie ufficiali si usa ascoltare con la mano sul cuore, come in Usa, un inno italiano che parla dell’elmo di Scipione, la cui vittoria sull’africano Annibale fu voluta da Dio, una vittoria creata appunto come “schiava di Roma”; un inno che esorta a stringersi in una coorte, un’unità di combattimento dell’esercito imperiale romano. I patrioti del Risorgimento italiano vollero tramandarci un canto marziale per accompagnare il “nostro” amor di patria, secondo una storia che è storia maschile di eroi e di guerrieri.
Alla patria si obbedisce, chi non obbedisce è disertore, è traditore, può essere punito con la morte. Ma la storia delle donne è ricca di traditrici. L’Antigone di Sofocle disobbedisce alle leggi della città, la Cassandra di Christa Wolf osa criticare la sua patria assediata che si stava assimilando alla ferocia degli assalitori. E non solo le donne hanno disobbedito alla patria: i “refuseniks” dell’esercito israeliano si sono rifiutati di distruggere le case dei palestinesi e sono stati duramente puniti. Hannah Arendt e Judith Butler sono state prese di mira dai sionisti e accusate di connivenza con il nemico. E i più grandi critici del governo militarista israeliano sono artisti, intellettuali, storici che hanno fatto della critica dell’occupazione dei territori palestinesi il nucleo teorico delle loro amarissime riflessioni. Dalla patria si deve dissentire, dunque.
Potrei continuare, ma può bastare. Il tentativo, non so se ingenuo, disperato, patetico, di pensare a una “Europa delle patrie” è una gravissima forma di subalternità alle chiusure identitarie, alle appartenenze chiuse e – in ultima analisi – agli egoismi proprietari. Se un’altra Europa è possibile, lo potrà essere se mettiamo al centro del nostro progetto politico la trasformazione dei sudditi in soggetti liberi, se impariamo dal movimento internazionale delle donne la critica al dominio patriarcale e alle sue costruzioni simboliche. Solo così spazzeremo le ciance sui “flussi” dei migranti, sulla gestione del “fenomeno” delle migrazioni, sui permessi di soggiorno da concedere o negare, sulla divisione tra profughi e migranti economici, sulle proposte che hanno costituito il cuore delle sinistre di governo e delle socialdemocrazie europee. Solo così potremo affacciarci al Mediterraneo senza vergognarci. Le patrie sono destinate a scontrarsi proprio come i padri proprietari. Facciamo del Mediterraneo un luogo di transito, non una pericolosa frontiera, mettiamo al centro del nostro agire la critica e il superamento delle patrie. Che il guerresco “amor di patria” sia superato dalla relazione con gli umani e le umane, che il nostro orgoglio si espliciti nell’abolizione del prefisso “extra” al termine “comunitario”. Non si tratta semplicemente di una questione semantica e morale: oggi è una questione altamente politica perché affronta i fondamenti e le modalità della costruzione della polis.