Di recente sono apparsi sul “Manifesto” alcuni articoli che affrontano la situazione specifica dell’Unione Europea nel contesto della guerra in Ucraina, giungendo a conclusioni e a punti di vista per molti aspetti analoghi. Il 5 giugno Pasqualina Napoletano rileva «una non improvvisata convergenza d’intenti per una dissoluzione dell’Europa come soggetto politico autonomo» da parte sia degli Stati Uniti sia della Russia, a cui l’UE non sarebbe in grado di reagire a causa della mancanza di una politica estera condivisa e del suo assetto sostanzialmente intergovernativo. Solo un salto federale consentirebbe di uscire dall’impasse valorizzando e non mortificando il principio di democrazia: «La questione centrale è, quindi, come nei singoli Paesi si possa affermare la determinazione ad una cessione di sovranità garantita da una Costituzione che sancisca a livello europeo quei principi di democrazia che, per esempio, sono presenti nella nostra Costituzione». Ciò dovrà giocoforza comportare una distinzione tra la Federazione vera e propria, composta dai paesi disposti a effettuare tale salto, e un’Unione dai caratteri più chiaramente “confederali”.
Il tema della debolezza della UE e dell’inanità della sua politica appiattita sulla NATO è ripreso il 9 giugno da Marco Bascetta, secondo il quale l’Europa è minacciata e potenzialmente destabilizzata su questa sponda dell’Atlantico da politiche improntate a nostalgie e ad ambizioni imperiali: quella russa, quella turca e quella britannica – quest’ultima «va sviluppando nell’Est europeo una propria politica del tutto distinta da quella europea, e sta spingendo per una escalation della guerra in Ucraina che tende a forzare e sopravanzare la relativa prudenza dell’Unione, accreditandosi come partner più affidabile, deciso e solidale in molti paesi dell’ex blocco sovietico con l’intento, assai poco velato, di soppiantare l’ingombrante presenza tedesca che ha dominato la scena negli anni di Kohl e di Merkel».
Lo stesso giorno Gaetano Lamanna considera la condizione europea nel contesto post-pandemia e di guerra in corso soprattutto dal punto di vista economico: la UE appare politicamente inadeguata e inefficace per il suo impianto di fatto intergovernativo e per la riduzione sinora di tutte le sue politica a «una mission priva d’anima: il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita. Il mito della “stabilità” e il dogma della “crescita”». Ciò ipoteca sia la continuità del programma Next Gen.Eu, sia altri possibili «interventi economici e sociali da realizzare con un’ottica di “programmazione democratica”». Anche in questo articolo la conclusione è che il «futuro dell’Ue si gioca nel passaggio da un governo “tecnico”, qual è in sostanza l’attuale Commissione europea, a un governo politico di tipo federale. La sostituzione dell’unanimità con un voto a maggioranza nelle decisioni diventa questione dirimente per dare senso e contenuti nuovi all’Unione».
Si tratta di articoli non solo condivisibili, ma anche particolarmente significativi da un punto di vista europeista. Da un lato si contrappongono alla narrazione europeista “reale” che prospetta, in una stanchissima ripetizione dell’assunto di Jean Monnet. secondo il quale l’unità europea si sarebbe costruita attraverso le crisi, un’uscita positiva da questa crisi bellica da parte della UE, più bella e superba che pria a fianco degli USA, grazie alla solidarietà e all’unanimità di intenti e consensi manifestatesi in occasione della guerra (e pazienza se esse riguardano, se pure, solo i governi degli stati, e venga invece ignorato o coartato quanto si manifesta nella società). Dall’altro lato, essi (specie quelli di Napoletano e Lamanna) hanno il merito di rilanciare a sinistra la visione e l’obiettivo del federalismo, che diventata da quelle parti una “F-word” a causa dell’appoggio acritico dato dalla maggioranza dei suoi seguaci alle politiche di austerità della UE, e invero a tutto quanto proviene dalla UE, a prescindere. Certo, il difficile resta, oggi come ieri, definire i sotto-obiettivi e i passaggi concreti, nonché convogliare il consenso su di essi in modo da renderli quantomeno possibili, tenendo conto che mai come in questo momento le istituzioni europee sono apparse tanto maldisposte a fare almeno finta di appoggiare altri obiettivi che i loro propri.
Tuttavia l’invocazione del federalismo di per sé non basta. Ce lo fa ricordare, sempre sul “Manifesto” del 9 giugno, l’articolo di Luca Baccelli sul ritorno in grande stile del concetto di “guerra giusta”, che, riproposto dal filosofo liberal americano Michael Walzer sul finire del secolo scorso, ebbe il suo momento di maggior fortuna specialmente in occasione della guerra contro la Jugoslavia per il Kosovo (chiamata appunto “ingerenza umanitaria”) e della guerra in Afghanistan. Probabilmente non sono molti gli europei che concordano con il documento della Casa Bianca del 2002 citato da Baccelli, secondo cui «i valori di “libertà, democrazia e libera impresa” sono “veri e giusti per ogni persona, in ogni società” e per difenderli contro terroristi e Stati canaglia “our best defense is a good offense”» (dalla “guerra giusta” alla “guerra preventiva” il passo è molto breve). Ma sono in molti, comunque, in Europa, a pensare che la guerra sia un’opzione ineliminabile nella risoluzione delle controversie internazionali. Che sia essa, e non altro, a decidere l’esito di una crisi. Lo testimoniano i continui richiami, da trent’anni a questa parte, alla Seconda guerra mondiale, cristallizzatasi nel nostro immaginario quale archetipo della “guerra giusta”. Come se dal 1945 a oggi non fosse successo, non fosse maturato, non si fosse imparato null’altro. Soprattutto, come se proprio chi stava dalla parte giusta, in quella guerra, non avesse formulato la sua conclusione e non ce l’avesse lasciata scolpita, tra l’altro, nell’articolo 11 della Costituzione italiana, nella fondazione delle Nazioni Unite, nell’avvio dell’integrazione europea: “mai più guerre!”.
Il punto è: può un rilancio della prospettiva federale prescindere dalla ricerca di una politica specifica per la pace? È sufficiente chiedere che l’UE abbia un’unica politica estera, perché essa sia effettivamente improntata alla pace?
Da quando il processo di integrazione europea ebbe inizio nel secondo dopoguerra sotto il segno della guerra fredda e il sostegno degli Stati Uniti, l’europeismo e il pacifismo hanno proceduto su binari paralleli, incontrandosi solo raramente, in poche figure lungimiranti come Willy Brandt o Alexander Langer. Eppure sarebbe fondamentale una contaminazione reciproca delle idee, delle competenze e degli obiettivi per far fronte ai problemi e alle sfide che proprio la guerra in Ucraina ci pone. Per esempio: come contrastare la politica di potenza che viene ora perseguita non solo da USA e Russia, ma ora anche dalla UE (a fianco degli USA) con la nuova strategia militare dello Strategic Compass? Come far arretrare entrambi gli eserciti – l’esercito invasore e l’esercito abbaiante? Su quali basi lanciare una «nuova conferenza di Helsinki, per la pace», come proposto dal Centro per la Riforma dello Stato, per ridisegnare un altro sistema di sicurezza rispetto all’attuale, che è chiaramente fallimentare? Quali strutture e istituti perseguire per prevenire le guerre? Come introdurre nel dibattito politico europeo modelli alternativi di difesa come la difesa popolare nonviolenta? Finora è stato ben difficile che, ragionando di un possibile sviluppo verso una democrazia federale in Europa, si tenesse conto anche di tali questioni. Ma bisognerà cominciare. La democrazia non garantisce la pace, come abbiamo visto nella storia recente, tuttavia la pace aiuta di molto la democrazia.
Altre questioni, strettamente intrecciate alle prime, riguardano invece più da vicino la nostra esperienza di europei. Come contrastare gli esclusivismi nazionalistici e favorire la convivenza tra popolazioni che hanno storicamente condiviso molto, ma che si possono trovare in disaccordo sul progetto nazionale egemone? Non ci hanno insegnato nulla le guerre nella ex Jugoslavia? L’Europa dopotutto è un continente di confini e di aree di confine. Occorre allora ripensare ai vari conflitti nazionali che hanno punteggiato la storia dell’Europa, non per “trovarvi la soluzione” – ogni conflitto nazionale è un caso a sé e va visto nella sua specificità – quanto per conoscere, confrontare, riflettere, ideare, progettare. Per sfuggire a questa coazione a ripetere il tempo della Seconda guerra mondiale, o addirittura della Prima, ripetendo a nostra volta “armi, armi, armi”, come se non esistesse altro, come se non fosse esistito altro.
Il progetto europeo è stato pensato perché invece esistesse altro. Per questo pacifisti ed altereuropeisti devono interagire più di quanto abbiano fatto sinora. Se viene meno la ricerca della pace, l’“Europa” come progetto politico muore, riducendosi solo a una coordinazione delle varie élite. Se l’“Europa” come soggetto politico è debole, anche la pace sul continente è in pericolo, come vede oggi.
Francesca Lacaita