di Paola Boffo –
Il 9 marzo 2020 è stata una data importante, segna un cambiamento nella vita degli italiani, determinato dalla situazione di emergenza causata dalla diffusione dell’epidemia da coronavirus e descritto nei provvedimenti inseriti nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n° 62, che contiene due soli decreti, il primo di disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale e il secondo per misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale.
Le confederazioni sindacali hanno scritto una lettera ai presidenti delle associazioni datoriali e per conoscenza al Presidente del Consiglio dei Ministri Conte, chiedendo una “riduzione modulata (dal rallentamento fino alla sospensione momentanea) dell’attività lavorativa manifatturiera e dei servizi, utilizzando al tal fine gli ammortizzatori sociali legislativamente disponibili o che saranno resi disponibili dai provvedimenti che sono in discussione e, ove se ne conviene, gli strumenti previsti dai CCNL.” E che nel prossimo decreto siano prese adeguate decisioni sul sistema degli ammortizzatori sociali e tutti gli interventi di sostegno al lavoro, alle famiglie e alle imprese.
È di poco fa la notizia che FCA per consentire una riorganizzazione utile ad applicare le misure del ministero della salute per la salvaguardia della salute e sicurezza per i lavoratori procederà al fermo degli impianti di assemblaggio da giovedì a lunedì. È un passo importante visto che è la prima multinazionale a farlo. (comunicato stampa della FIOM), mentre la sede di Pomigliano, dove c’è stato ieri uno sciopero spontaneo a fronte dell’insoddisfazione degli operai per le misure prese dall’azienda, si fermerà già oggi.
Il Consiglio dei ministri di oggi dovrà assumere tutte le necessarie misure a sostegno delle imprese che rallentano o fermano la produzione, e dei lavoratori che sospendono l’attività lavorativa.
In effetti nel DPCM del 9 marzo, che estende a tutto il paese le limitazioni alla mobilità ai casi di necessità, crea un’area di “immunità” per coloro che devono andare a lavorare, quasi che le aziende siano bolle dove il coronavirus non si diffonde e il Lavoro non sia un veicolo di contagio. Proprio Conte, nella conferenza stampa, ha detto che non vi sono limitazioni nei trasporti “perché le persone devono andare a lavorare”.
La situazione si evolve velocemente, e già oggi potrebbero essere prese misure di ulteriore contenimento, e molte imprese potrebbero rallentare molto le attività, o addirittura sospenderle, come auspicato dai sindacati. Intanto il decreto del 9 marzo raccomanda l’adozione dello smart working, o, laddove non attuabile, si raccomanda la fruizione di ferie, permessi e congedi.
Bisogna allora che fra i provvedimenti del Governo sia previsto innanzitutto il blocco dei licenziamenti e la rapida adozione di modalità alternative per i lavoratori dipendenti che restano a casa, finanziate con risorse straordinarie, come fa il Giappone, che dà alle imprese 80 euro al giorno per ogni lavoratore che si congeda dal lavoro a causa delle chiusure temporanee delle scuole.
Il ricorso alle ferie è inaccettabile, e sarebbe molto opportuno definire cosa si intende per “comprovate esigenze di lavoro”, esplicitando e circoscrivendo, in un provvedimento di esecuzione, quali attività sono davvero necessarie, tenendo presente tutti i fattori di valutazione nei vari settori, e la necessità primaria, oltre al contenimento del contagio, della continuità del reddito senza che si stravolga il concetto di ferie.
L’epidemia, oltre ai danni diretti che sta causando, ha portato alla luce e agli onori delle cronache in maniera ancora più cristallina questioni note, sulle quali si levava l’allarme da anni / decenni da parte di pochi, ma che ora sono diventate ancora più esplosive, come l’inadeguatezza di un sistema sanitario falcidiato da tagli di risorse economiche, numeri chiusi, spostamento verso la sanità privata e il welfare aziendale; il sovraffollamento e le condizioni di vita nelle carceri, con la mancanza di sicurezza e di tutela per i detenuti, e anche per gli operatori; le condizioni delle persone che sono “contenute” nei centri di accoglienza per migranti.
Ma in queste settimane emerge pure con evidenza la separazione e la discriminazione fra chi ha un lavoro dipendente, pubblico o privato, con un contratto che garantisce dei diritti e delle misure anche straordinarie di tutela, come la cassa integrazione, e una rappresentanza sindacale, e chi invece è al di fuori di questo sistema.
L’istruttore di pilates, l’estetista, l’addetto alle pulizie della palestra che ha chiuso, il barista, l’interprete di conferenza, il consulente aziendale, l’hostess dei convegni, l’attore teatrale, e tutti gli altri che possono venirvi in mente sono nella maggior parte dei casi lavoratori indipendenti, professionisti con partita iva, collaboratori continuativi, oppure a chiamata, o ancora finti “imprenditori di sé stessi” che aspettano una chiamata dall’algoritmo, come i riders, e questi ancora sono registrati su una piattaforma. O infine sono semplicemente lavoratori al nero.
Servono misure e ammortizzatori sociali anche per queste figure che hanno reso “flessibile” il mercato del lavoro.
Alcune iniziative sono state prese da associazioni o gruppi spontanei: “La cultura non viene (mai) dopo”, che sostiene l’urgenza dell’istituzione di un reddito garantito, “di quarantena” anche attraverso l’ampliamento dell’attuale reddito di cittadinanza che continua a escludere troppe figure; Lavoratrici e Lavoratori dello Spettacolo per il sostegno al Reddito, che avanzano rivendicazioni precise, riportate in coda a questo articolo; Pretendi il reddito di quarantena, che ha tenuto un’affollata assemblea (a distanza) con precari di vario tipo, educatori, lavoratori dello spettacolo, partite IVA, riders di diverse città che si stanno mobilitando per pretendere il reddito di quarantena;l’Associazione interpreti e traduttori, che chiede al Governo provvedimenti a favore di tutti i professionisti del settore con codice ATECO 74.30.00 per perdite stimate in 10 milioni di euro in 1 mese, le cui attività sono vietate e inibite dal Decreto.
Ma tutte queste ipotesi devono essere messe in campo subito, perché il lavoro può essere intermittente, ma il reddito no. E andrebbero evitate procedure complicate per la concessione e per il controllo, la macchina burocratica del cosiddetto reddito di cittadinanza è molto costosa. Ancora una volta emerge la necessità di un reddito di base, ci voleva il virus per rafforzare questa evidenza.
Le rivendicazioni delle Lavoratrici e dei lavoratori dello Spettacolo per il sostegno al Reddito
1) La sospensione immediata di tutti i pagamenti quali mutuo, prestiti personali, consumi (acqua, luce, gas, energia elettrica), tasse, 2) L’ istituzione di un fondo per un Reddito di “Quarantena” che garantisca continuità salariale a chi è costretto allo stop dell’attività rivolto ai lavoratori e alle lavoratrici in partita Iva e, in generale, a tutte le categorie prive di tutela. 3) Chiediamo che le misure previste per i lavoratori autonomi a gestione separata valgano anche per i lavoratori autonomi con gestione Inps ex-Enpals. 4) Che l’indennità di malattia sia finalmente riconosciuta fin dal primo giorno, mentre ora è richiesto il versamento minimo di 100 giornate di contributi INPS dal gennaio dell’anno precedente: chiediamo semplicemente i diritti dei lavoratori degli altri settori. 5) Chiediamo, per l’accesso alla Naspi, l’abolizione del “ticket” licenziamento in caso di licenziamento per giustificato motivo a causa della crisi Covid 19. 6) Chiediamo che l’indennità di disoccupazione Naspi sia riconosciuta agli intermittenti dello spettacolo per tutti i periodi di sospensione di attività, anche in costanza di rapporto di lavoro, per un periodo almeno pari a quello lavorato, considerando anche le giornate di lavoro per prove. Deroga per “evento imprevisto e imprevedibile” integrando all’80% il salario realmente percepito. 7) Chiediamo che la durata dell’indennità mensile torni ad essere minimo di 8 mesi, di 12 mesi per i lavoratori di età superiore a 50 anni e di 16 mesi per i lavoratori over 55. Com’era in regime Aspi, abolita con il Job Act e l’introduzione della Naspi, provvedimento totalmente inadeguato rispetto alla situazione lavorativa.