di Marco Noris –
L’idea da parte di Transform! Italia di aprire uno spazio di discussione circa il futuro della Sinistra in relazione alla sua strategia è indispensabile e sicuramente l’articolo di Franco Ferrari[1] del 4 marzo costituisce un ottimo punto di partenza.
La questione, però, andrebbe ulteriormente ampliata; sebbene gli aspetti strategici siano centrali in questa specifica fase, vale la pena inserirli in un contento di lettura temporalmente più ampio nel quale individuare con maggior chiarezza le traiettorie storiche dell’intero processo, depurate dai tranelli della contingenza. In questo senso più che di strategia in senso stretto possiamo definire il dibattito come necessario a delineare un orizzonte progettuale all’interno del quale la strategia stessa scaturisca come una naturale declinazione nella prassi politica.
Detto questo perché tale dibattito possa risultare efficace ha bisogno di soddisfare perlomeno tre condizioni. La prima è quella sua continuità: a sinistra la mole della produzione culturale, dell’elaborazione e dell’analisi politica non ha, ancora oggi, corrispettivi da nessuna parte ma – allo stesso tempo – una buona parte dello sforzo intellettuale prodotto resta confinato in un ambito, per così dire, evenemenziale. Anche all’interno dell’elaborazione di Transform! Italia si possono individuare analisi e spunti di notevole spessore che però faticano a proporsi come punto di partenza di una costruzione più ampia e, soprattutto, collettiva. In questo senso l’invito esplicito all’apertura del dibattito da parte di Franco Ferrari va accolta e, soprattutto, messa in pratica.
La seconda questione è legata alla prima e connessa, appunto, alla dimensione collettiva del dibattito. Se da un lato Transform! Italia è da ritenersi uno dei soggetti più appropriati per svolgere un ruolo di contenitore e catalizzatore di tale pensiero, dall’altro sono ancora in pochi coloro che vengono intercettati da una mole di elaborazione e proposta culturale che meriterebbe un pubblico certamente più ampio. Non è scopo di questo scritto capire come valorizzare il ruolo di Transform! Italia e diffonderne l’operato ma, proprio a partire dalla sua importanza e specificità, più di un ragionamento andrebbe fatto in tale direzione.
Terzo, bisogna evitare la tentazione di scivolare nel corso di questo dibattito nella posizione più comoda dell’analisi dell’esistente a scapito della costruzione del dover essere in alternativa all’esistente stesso. Il dibattito inerente alla progettualità di Sinistra dovrebbe mantenere quella tensione necessaria ad utilizzare la critica del passato e del presente in termini strumentali finalizzata alla costruzione del futuro. Non è un’avvertenza di poco conto anche se può apparire scontata: le necessità di oggi ci devono portare in maniera più risoluta rispetto al passato a concentrarci e approcciare la questione in termini di costruzione progettuale perlomeno all’altezza dell’elaborazione della critica al presente.
Date queste premesse vale la pena utilizzare, per ragioni di continuità di costruzione progettuale e seppure a grandi linee, l’articolo di Franco Ferrari proprio come schema di riferimento: in buona sostanza l’articolo stesso mostra di aver toccato tutti i principali temi che vanno affrontati nel dibattito.
Sinistra e Sinistra radicale: non solo una sfumatura
Il riferimento alla definizione di Luke March per la quale la Sinistra radicale è quella cosa che si colloca “a sinistra della socialdemocrazia e non a sinistra nella socialdemocrazia” è fondamentale. Quello che forse va chiarito meglio è quanto questi due mondi siano distanti e quanto questa distanza sia frutto di traiettorie storiche divergenti e, quindi, strutturali, tutt’altro che legate alle contingenza. Questa considerazione diventa importante nella misura in cui si intenda liberare il campo dalla lettura semplicistica per la quale il processo di mutazione dei soggetti socialdemocratici sia frutto semplicemente di un percorso seguito con i criteri dell’opportunismo politico e di potere, dettato semplicemente dall’ambizioni di correnti e singoli uomini politici. Una critica, questa, di carattere etico ma insufficiente, se non fuorviante, nel suo spessore politico. Il percorso della Terza Via è anche frutto di una precisa analisi ed elaborazione politica che, sebbene, trovi spazio e successo nel sistema-mondo post 1989, aveva già gettato i semi nel decennio precedente. È difficile non individuare i primi segnali, ad esempio, nell’abrogazione della scala mobile in Francia nel 1982 da parte del governo del socialista di Pierre Mauroy nel quale Jacques Delors, artefice della costruzione dell’UE, era il ministro delle finanze. Sicuramente, al di là di questi segnali, fu però nel decennio successivo che il nuovo percorso storico delle Socialdemocrazie acquisì dignità culturale. Negli anni ’90 Anthony Giddens[2] delineò accuratamente gli elementi di questa traiettoria che possono essere schematicamente riassunti:
- la fine dell’ottica marxiana della lotta per il superamento del Capitalismo;
- il rifiuto della tradizionale visione di Socialismo superato da una dottrina basata sull’eticità redistributiva dell’intervento statale volto ad eliminare gli elementi di disparità insiti nel Capitalismo e la responsabilità etica e morale dei singoli individui;
- l’obiettivo dichiarato dell’egualitarismo grazie ad un’azione redistributiva e l’incentivazione di politiche volte a realizzare la massima redistribuzione tra le classi sociali;
- la decentralizzazione del potere statale e lo snellimento amministrativo e burocratico dello stesso;
- il superamento della dicotomia tra pubblico e privato attraverso l’incentivazione di forme di collaborazione economiche e funzionali tra le due sfere;
- l’attenzione al capitale sociale e la sensibilità ecologica.
È superfluo, ora, sottolineare come la storia degli ultimi tre decenni abbia certificato il totale fallimento di questa impostazione ma la sottolineatura di questo percorso ha un significato preciso per indirizzare la nostra progettualità che deve tener conto di almeno tre considerazioni. In primo luogo, la divaricazione delle traiettorie tra la sinistra socialdemocratica e quella radicale è strutturale e non contingente: è una divaricazione destinata a durare perché ormai consolidata storicamente. In secondo luogo la sinistra socialdemocratica, con questa impostazione, non ha ottenuto una sorta di “umanizzazione” del sistema, come forse era nelle intenzioni di Giddens, bensì è stata elemento portante e fondante del sistema neoliberista stesso negli ultimi tre decenni: le reazioni scomposte della SPD di fronte all’esperimento greco di Syriza o l’attuale esplicita ostilità nei confronti di Corbyn o Sanders sono solo alcuni tra gli esempi di come le Socialdemocrazie occidentali difendano dalle forze della Sinistra un sistema nel quale sono parte fondamentale e determinante, e qui sta anche il segnale di come classi e blocchi sociali di riferimento ormai divergano abbondantemente da quelli della Sinistra radicale e ne esprimano persino interessi contrapposti.
In terzo luogo, più importante e vero scopo di questa analisi, tutto questo non può non influire pesantemente sul “con chi” e “come” costruire il percorso, questione che verrà ripresa più in là.
Il contesto economico, sociale e culturale: non solo una questione politica.
È vero, come viene affermato, che né l’opzione “di centro”, né il Piano B neo-nazionalista sono in versione populista sono in grado di risolvere contraddizione né di rimuovere la precarietà intrinseca del sistema. Questo è vero anche perché la risoluzione di questi problemi necessita di un approccio politico antisistemico escluso da tutto l’arco politico che va dalle Socialdemocrazie all’estrema Destra. Come ho avuto modo di sottolineare sempre in questa sede[3], questo primo fattore, che già crea di per sé l’esigenza di una sinistra radicale, incontra ostacoli che vanno al di là della mera questione politica e investono un lungo processo storico che ha visto mutazioni culturali e antropologiche profonde nel tessuto sociale globale e dell’Occidente in particolare. Senza ripetere ragionamenti già sviluppati dobbiamo schematicamente, a mio avviso, tener conto di alcune considerazioni.
- La declinazione neoliberista del Capitalismo ha radicalizzato in misura maggiore rispetto al passato la distruzione non solo e semplicemente dell’identità di classe bensì di qualsiasi identità collettiva; tale distruzione è in opera da decenni è tutt’ora in atto e la cultura individualista non può essere pienamente compresa senza tale considerazione.
- Nel contesto post ’89 la destrutturazione dell’identità collettiva si inserisce su quella che Remo Bodei aveva definito come la fine dell’alleanza tra storia e utopia, un contesto nel quale “La concezione della storia sembra perciò attualmente scindersi e biforcarsi di nuovo in due tronconi: nel ritorno della storia sacra, riproposta dai cosiddetti fondamentalismi, che rifiutano il progetto moderno di una storia tutta immanente; nel ‘postmoderno’, che registra la fine delle illusioni emancipatorie e della spinta propulsiva della modernità.”[4]
- In una simile prospettiva il postmoderno rimanda molto a una condizione premoderna nella quale si perde il carattere progressivo della storia. È necessario, quindi, riattualizzare alcune categorie culturali e analisi che non possiamo più dare per scontato a sinistra: se, dopo la crisi del 2007/2008 è entrata in crisi l’egemonia del sistema, allo stesso tempo ne è entrata in crisi la sua componente individualista, però la ricomposizione della dimensione collettiva ha avuto caratteristiche sostanzialmente neotribali. Nell’assenza di un orizzonte progressivo della storia l’identità di classe non è affatto scontata né preferibile rispetto all’offerta di altre identità che meglio si adattano al paradigma della scarsità economica e, in buona sostanza, della scarsità dei diritti. La ricostruzione di un’identità su base etnica, nazionale, o religiosa, ad esempio, meglio si adattano ad un contesto depressivo nel quale le identità tribali non solo si riconoscono ma costituiscono l’elemento essenziale per agire un conflitto nei confronti delle altre. In questa particolare situazione la stessa coscienza di classe è insufficiente: anche quando è presente può portare non al riconoscimento identitario all’interno della classe, bensì ad una fuga dalla classe stessa verso identità diverse ritenute più funzionali alla difesa degli
interessi individuali e collettivi. In un sistema che appare senza alternative nel quale l’ascensore sociale se non è bloccato funziona quasi esclusivamente verso il basso, questa reazione ha una sua logica ed è totalmente appannaggio dell’influenza dell’estrema Destra.
Questo ragionamento è, a mio avviso, essenziale per delineare la costruzione di un’offerta politica della sinistra radicale: non basta lavorare sulla contingenza e neppure sugli aspetti mutualistici, entrambi legati alle risposte “qui ed ora”. Tutto questo serve ed è necessario ma se rimane slegato dalla riproposizione di progetto complessivo nel quale l’utopia torni ad essere l’orizzonte del reale, non verremo mai riconosciuti come quella forza e quel pensiero politico in grado di cambiare le cose: potremo ricevere anche molti grazie per il nostro impegno ma, politicamente, le persone continueranno a rivolgersi altrove.
Sicuramente, la sinistra radicale, al di là della critica al sistema non ha avuto la forza e l’opportunità di proporre una alternativa alla crisi del 2007/2008 e questo, oggi, pesa come un macigno sulla nostra credibilità.
L’offerta culturale e non solo politica della Sinistra radicale
Quanto finora sottolineato non può che incidere pesantemente nella concezione e costruzione di un’offerta politica: il nodo centrale della questione è la sua credibilità, collocata tra la Scilla di una radicalità enunciata, ma di impossibile realizzazione, e il risucchio della Cariddi della Socialdemocrazia. Entrambe queste opzioni, in questa condizione storica e culturale non risultano credibili in termini di possibilità concreta di cambiamento. Inoltre, le traiettorie storiche sopraccitate continuano non solo a sussistere ma appaiono sempre più divergenti. Oggi, un pensiero con una visione del mondo che possa avere un significato anche lontanamente “di sinistra” viene definito velleitario o addirittura settario anche da autorevoli studiosi: definire però settario un Sanders che propone la sanità pubblica e non un Biden, figlio di un sistema che questa cosa non la propone e che, ad esempio, non ha mai ripudiato lo strumento della guerra, non è solo un segno dei tempi. Chi la pensa in questo modo farebbe prima a certificare che la Storia abbia chiuso in maniera definitiva i conti con la cultura della Sinistra stessa, tuttavia se vogliamo dimostrare l’errore di questa posizione dobbiamo uscire dal pantano nel quale siamo sprofondati.
Ci sono perlomeno due questioni, però, da affrontare in proposito. La prima è che la radicalizzazione del sistema liberista comporta che una qualsiasi possibilità di alternativa genuinamente di sinistra si collochi non più nell’alveo della riforma ma della proposta antisistemica: la divaricazione definitiva della strada con le Socialdemocrazie occidentali non fa altro che ampliare il divario tra realtà e dimensione utopica dell’alternativa.
La seconda è collegata alla conseguente inevitabilità di conflitto che questa condizione crea.
La questione del conflitto risulta centrale nella dimensione postdemocratica della contemporaneità. Come alcuni anni fa aveva acutamente rilevato Canfora[5] la democrazia esiste in quanto processo storico e non come modello ideale, un processo, oltretutto, che segue l’andamento del conflitto politico-sociale e che si concretizza nel punto di equilibrio raggiunto tra diversi interessi di diversi gruppi sociali. Senza questo conflitto, in buona sostanza, la democrazia semplicemente muore. In questo senso, come già ho avuto modo di sottolineare, potremmo riconoscere una forte interconnessione tra il destino della Democrazia moderna e quello della Sinistra. Come è stato giustamente sottolineato, però, la componente del conflitto sociale se lasciata sola non porta a molto se non viene collocata all’interno di un progettualità e di una prospettiva politica credibile che non escluda le questioni attinenti ai rapporti e agli equilibri di potere. Detto questo, e prima di passare all’inevitabile “Che fare?” ci sono almeno un altro paio di elementi che rendono la situazione particolarmente problematica.
Una cosa che viene costantemente sottovalutata è il cambiamento al quale abbiamo assistito, in particolare in Occidente, nella gestione del conflitto sociale. In particolare la sua sostanziale elusione è una caratteristica fondamentale della nostra contemporaneità nella quale l’inesistenza e l’ineludibilità dei centri di potere non consentono, nella pratica, nessun assalto a nessun Palazzo neppure seriamente tentato. Se volessimo ricercare le origini di questa metodologia di gestione del conflitto potremmo risalire allo sciopero dei minatori britannici dell’1984- 85, passando attraverso l’indifferenza nei confronti della più grande manifestazione della storia del febbraio 2003 contro la seconda guerra del golfo, per finire ai giorni nostri nella guerra di logoramento nei confronti dell’attuale mobilitazione francese. Sono tre diversi esempi, non esaustivi ma importanti. Le sconfitte che ne derivano solitamente pesano come un macigno sul futuro e sulla credibilità di qualsiasi progetto a Sinistra. È per questo motivo che l’eventuale sconfitta delle mobilitazioni francesi andrebbe evitata in ogni modo, anche se quello che si sta profilando all’orizzonte non lascia ben sperare. Semplicemente, oggi il potere detiene tutti gli strumenti necessari per gestire i conflitti, eluderli e ottenere comunque gli scopi che si prefigge.
In tal senso, la questione del Potere torna ad essere centrale: se per cambiare il mondo non si è dimostrata sufficiente la presa del potere, possiamo affermare, oggi, che lo slogan degli anni ’90 del secolo scorso per il quale si poteva cambiare il mondo senza prendere il potere si è dimostrato altrettanto fallace.
Il secondo elemento riguarda, però, proprio la conquista del potere e, nello specifico, l’elemento elettorale e la partecipazione al governo.
Una volta il Marx giornalista a tale proposito scrisse in un articolo: “in politica, per raggiungere un determinato obiettivo, ci si può alleare con il diavolo in persona ma occorre essere sicuri di imbrogliare il diavolo e non di lasciarsi imbrogliare da lui”.[6] Scrisse questa cosa attorno alla metà del XIX secolo e, a ben guardare, in un certo senso, le condizioni per cui oggi si verifichi l’eventualità di imbrogliare il diavolo si sono ulteriormente assottigliate.
L’accesso al potere in termini istituzionali attraverso lo strumento elettorale viene sempre e giustamente salutato come una vittoria. È spesso il frutto di enormi sforzi e mobilitazioni di qualità politica e democratica ben diversa rispetto a quelle della parte avversa, nella quale l’intera macchina del consenso è appannaggio del capitale.
La questione, però, riguarda proprio la relazione tra governo e potere effettivo. Quanto le tradizionali istituzioni politiche sono realmente centri di potere e in che misura? In particolare, come considerare oggi il potere dello stato-nazione in termini di sovranità reale? Senza ricadere nel superficiale, fuorviante e sostanzialmente sterile schieramento tra globalisti e sovranisti potremmo affermare con Bob Jessop[7] che “…la sovranità è soltanto uno degli aspetti della forma dello stato moderno. Come forma politico-giuridica specifica, la sovranità certamente organizza aspetti chiave del potere statale, ma sono le lotte sul(i) potere (i) che sono in ultima analisi primarie, non le forme particolari in cui esso(i) è (sono) esercitato(i) […]non è lo stato in quanto tale (sovrano o altro) che è messo sotto pressione dalla globalizzazione. I processi che generano la globalizzazione possono soltanto esercitare pressione su forme particolari di stato con funzioni e responsabilità statali particolari, come il welfare keynesiano dello stato nazionale del fordismo atlantico[…]…In effetti mentre alcuni stati promuovono la globalizzazione altri possono essere considerati le sue vittime”
In una situazione come questa descritta è abbastanza facile intuire la problematica centrale:
Nella lotta per il potere la Sinistra radicale, anche all’interno delle compagini di governo, ha sempre serie possibilità di soccombere e di pagare il prezzo politico più altro e questo non solo in relazione ai compromessi insiti nelle alleanze di governo ma anche perché sottoposte all’azione di variabili di potere esterne al sistema dello stato-nazione stesso. La partecipazione al governo Prodi da parte di Rifondazione Comunista, l’esperienza di Syriza o le prime critiche all’attuale governo spagnolo andrebbero lette in questo contesto. Purtroppo, spesso, l’analisi e la critica si abbattono prevalentemente sulle compagini della Sinistra stessa, incapaci di realizzare quanto promesso, più che capire che in questa situazione, se non cambiano le cose, risulta molto difficile sfuggire a questo destino.
In buona sostanza, conflitto sociale e sinistra radicale al governo si trovano in una situazione pressoché identica: entrambi sono come cittadelle sotto assedio: la loro capitolazione è questione di tempo, le conquiste raggiunte non dureranno e la sconfitta certa è diretta conseguenza che dall’esterno non arriverà nessuno in grado di combattere e sbaragliare gli assedianti.
Quindi che fare? Occupare lo spazio e il tempo
C’è un’altra componente che accomuna conflitto sociale e la strada della conquista del potere statale ed è la dimensione nelle quali entrambe agiscono che non riesce a superare mai i confini dello stato-nazione mentre i centri apicali del potere agiscono e decidono ad un livello superiore.
Questa asimmetria dimensionale è la principale causa dell’elusione del conflitto e della mortificazione della partecipazione per la Sinistra e, quindi, principale motivo della nostra depressione. Questo non significa assolutamente che lo stato-nazione sia superato, sempre per dirla con Jessop lo stato-nazione rimane un contenitore e connettore di potere ma è anche semplicemente nodo di un reticolo funzionale al perpetuarsi dello status quo. Come ho già sottolineato, la conquista del potere nello stato-nazione non può assolutamente corrispondere ad uno stadio finale di un percorso politico di alternativa, non lo è oggi come non lo era neppure ieri: le vittorie di Stalingrado e lo sbarco in Normandia nella seconda guerra mondiale sarebbero state effimere e di breve durata se considerate obiettivo finale e non tappe rivolte alla liberazione dell’intera Europa e noi, per certi versi ci troviamo in una situazione molto simile, le vittorie nelle battaglie sono importanti se e solo se inserite in una prospettiva di vittoria complessiva della guerra.
Senza questa premessa diventa difficile pensare a soggetti politici funzionali in termini progettuali, soggetti che costituiscono lo strumento politico funzionale per rispondere in maniera credibile alle domande sociali. La dimensione attuale di questi soggetti, ad oggi, è totalmente inadeguata, tanto in termini politici quanto sindacali: c’eravamo illusi di cambiare la Grecia per cambiare l’Europa quando il reale cambiamento in Grecia, in Italia, Germania o altrove, passa necessariamente attraverso la dimensione, per certi aspetti, addirittura minima, della liberazione – qualcosa di molto più profondo del semplice cambiamento – continentale, così come speriamo che lo sciopero francese abbia successo ma non siamo stati mai minimamente vicini a proclamare e agire uno sciopero su base continentale. Certo, un progetto su basi continentali politico e sindacale è molto facile a dirsi e, ancora oggi, pressoché impossibile a farsi ma anche in considerazione a quanto detto in termini della necessità antisistemica del progetto e all’ineludibilità di un conflitto che si basi su rapporti di forza perlomeno accettabili, non appare all’orizzonte nessun’altra alternativa in grado di allontanare lo spettro della definitiva sconfitta storica. In questo senso l’occupazione dello spazio continentale in termini di unità e coerenza progettuale è indispensabile.
C’è però un altro modo necessario di occupare lo spazio. Come sottolineato precedentemente, gli ultimi trent’anni sono stati anni di cambiamento radicale anche in termini culturali, di percezione e visione del mondo e i danni sono immensi in tutto l’Occidente: nel XIX secolo i Polacchi venivano a morire in Italia nei moti del 1821, così come gli Inglesi per l’indipendenza della Grecia, oggi, nel XXI secolo la solidarietà tra i popoli europei è venuta meno.
Compito di un soggetto/progetto politico è anche e soprattutto culturale. È ampiamente condivisibile l’analisi di Franco Ferrari sulla scommessa nei confronti della classe lavoratrice, così come senza un cambio di egemonia culturale l’indeterminatezza di concetti come “società civile” e “popolo” rimangono appannaggio la prima delle Socialdemocrazie e la seconda della Destra anche estrema ma il problema, appunto, riguarda il recupero dell’egemonia di un’identità basata sulla comunanza della situazione materiale oggettiva sulle altre tanto care alla Destra. Anche qui la costruzione progettuale su base transnazionale è centrale sia per la credibilità del progetto, quanto per produrre quei cambiamenti culturali necessari alla sua realizzazione. Tornare a comprendere che la soluzione del proprio problema personale o di componente di una specifica tribù, passa attraverso la soluzione del problema dell’altro o dell’altra tribù è fondamentale per spezzare l’egemonia delle identità nazionale ed etnica le quali, non illudiamoci, non hanno la minima speranza di essere gestiti da sinistra. Contrappore la materialità oggettiva del concetto di classe è, quindi, indispensabile e, sotto certi aspetti, incompatibile e in conflitto con le altre identità e narrazioni politiche alternative.
Certamente trent’anni di destrutturazione culturale non si risolvono in breve. Accanto all’occupazione dello spazio, dobbiamo mettere in conto una costante e ostinata occupazione del tempo in relazione ai cambiamenti che intendiamo realizzare: i processi culturali rispondono ai tempi lunghi della sedimentazione non a quelli della rivoluzione, anche la devastazione culturale del neoliberismo ha impiegato qualche decennio per realizzarsi.
In questo senso l’occupazione della dimensione spazio-temporale non è affatto scollegata alla qualità dei soggetti coinvolti e al mosaico delineato da Franco Ferrari: quello culturale-simbolico, quello sociale-culturale e quello politico-elettorale che sono sì livelli di azione ma, forse, ancor prima elementi fondamentali e interconnessi della costruzione progettuale. Questo quadro coinvolge una pluralità di soggetti da quelli di partito, a quelli sindacali e di movimento che dovrebbero agire non solo in termini coordinati ma anche in maniera diffusa e capillare: abbiamo di fronte un nemico che non si è mai posto un limite nella conquista del potere, non solo a livello istituzionale ed economico ma anche in termini di conquista di ogni spazio agibile della vita materiale delle persone. L’atteggiamento dicotomico (o l’ambito elettorale, o il mutualismo, o il conflitto sociale, ecc.) di buona parte della Sinistra, movimenti compresi, non è solo errato ma anche perdente: dobbiamo superare i confini delle rispettive nicchie, perché siamo costretti ad operare su livelli diversi, nessuno escluso. Questo anche se le nostre risorse sono scarse, perché, in caso contrario, l’avversario avrà una porzione sempre maggiore di campo a disposizione per batterci. Al di là, quindi di tutte le critiche ed avvertenze non è possibile rimuovere neppure la questione del governo, a patto che queste eventuali avventure siano inserite in un percorso più ampio, e l’analisi di queste esperienze, anche qualora siano sotto certi aspetti negative, non vada, come prima ho sottolineato, nella direzione sbagliata. Non è possibile neppure rinunciare alle forme mutualistiche, necessarie a risolvere nell’immediato i problemi delle persone, ma anche a creare quel terreno fertile alla ricostruzione dell’identità di classe. Dovremo inoltre continuare a sostenere e integrare come elementi fondamentali del progetto, tutte quelle campagne e movimenti, capaci di porre questioni tanto sul piano nazionale che transnazionale (Stop TTIP, ATTAC, ecc.). Dovremo fare pressioni sui sindacati perché evolvano la loro dimensione progettuale in termini transnazionali. Dovremo fare tutto questo ed altro, eliminando la nostra naturale disposizione verso l’aut-aut, eliminando le nicchie autoreferenziali e, al contrario, capire come inserire, le singole realtà ed azioni in un progetto di orizzonte condiviso e più ampio.
Tutto questo, però, continuiamo a
ripetercelo, da tempo. È giunta l’ora di non lasciare cadere gli inviti alla
riflessione e alla progettazione e di dare continuità al percorso: sono sempre
di meno quelli che sono disposti a fare le fatiche di Sisifo. Confrontiamoci
per costruire.
[1] https://transform-italia.it/Sinistra-che-cosa-con-chi-come/
[2] Cfr. Anthony Giddens – La Terza Via – Il Saggiatore – Milano 1998
[3] https://transform-italia.it/la-ricerca-del-progetto-perduto/ e https://transform-italia.it/Sinistra-e-movimenti-nella-grande-regressione-le-convergenze-necessarie/
[4] http://www.treccani.it/enciclopedia/ideologia_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[5] Luciano Canfora, La democrazia, storia di un’ideologia, Laterza, Roma – Bari 2014
[6] K. Marx, Kossuth, Mazzini und Luigi Napoleone, New York Daily Tribune n. 3.627, 1852
[7] Bob Jessop, Globalizzazione, dinamiche spazio temporali del capitale in Spazi e tempi del capitale A cura di Massimiliano Tomba e Giovanna Vertova, Nimesis/Diacronie – Milano-Udine 2014