“Noi rivoluzionari siamo romantici”, disse una volta Che Guevara, “ma lo siamo in modo diverso. Riusciamo a dare la vita per ciò in cui crediamo”. Votare la propria vita a un concetto, ribellarsi all’ingiustizia a costo di tutto. Eccoli, gli ideali cristallini e senza tempo di cui parla Rita Borsellino nella prefazione de Il Demonio di Sant’Andrea, scritto nel 2012 dall’esordiente Gaetano Allegra. Sì, è un romanzo storico e sì, racconta l’Unità d’Italia. Lo fa però in modo diverso, per dirla alla Che Guevara. Lo fa dal punto di vista dei più deboli, degli oppressi, dei poveracci, dei briganti. Dal punto di vista di quelli che hanno perso, di quelli che la meravigliosa Italia l’hanno subita, di quelli che dalla nascita di questa grande nazione sono stati travolti e uccisi, umiliati, massacrati, sterminati.
Totore Iodice, giovane contadino lucano, nonché protagonista di questa favola storica, è un personaggio di fantasia (uno dei pochi inventati in questo romanzo), ma forte, fortissimo, definito e strutturato come fosse il destinatario di una biografia. Il libro ne racconta l’intera esistenza, a partire dai suoi prodigi di fanciullo capace di ribellarsi a ogni sopruso con quello schietto candore dei bambini, fino al momento in cui diventerà il più grande leader della rivoluzione armata dell’intero Meridione italiano contro l’esercito Savoia. Passando per il momento più importante, quello in cui Totore capisce, ancora ragazzino, che la risposta, la base di ogni concetto anarchico, non parte dalla violenza ma dalla conoscenza. L’incontro di Totore con i libri segna la svolta vera di questo romanzo, il passaggio da un ideale fanciullesco alla consapevolezza del rivoluzionario. “Ecco, cosa distingueva l’aristocratico dal pezzente. Sotto il vestito d’alta sartoria o la coltre di stracci, lo stesso è celato un uomo di carne, e tutti hanno simili fattezze. Ma è la conoscenza che rende liberi e forti, ed è l’ignoranza che fa dell’uomo umile un servo”.
Deciso a non essere mai più servo, il protagonista della nostra storia arriverà a ricattare un prete pur di imparare a leggere e a scrivere, ed è da lì che partirà la sua grande epopea. Lì Il Demonio di Sant’Andrea comincerà a popolarsi di uomini che la Storia l’hanno fatta per davvero. Come i briganti Crocco e Ninco-Nanco. I generali Garibaldi e Borjes. I politici Cavour e Rattazzi. I leader dell’esercito piemontese Cialdini e De Sonnaz. I martiri dimenticati come Giuseppe Maria Tardio. E in questa sinfonia di Storia e finzione, ci sorprendiamo a divorare una pagina via l’altra per scoprire ogni volta un nuovo segreto, una nuova svolta, un altro accenno di un’Italia dimenticata, dimenticata non per incuria, ma per una precisa scelta, per necessità. Perché a nessuno fa comodo ricordare i massacri di Casalduni e di Pontelandolfo, o le battaglie di Gaeta e Ruvo del Monte.
Il Demonio di Sant’Andrea è un grido onesto. Racconta la Storia leggendola sui giornali dell’epoca, e non sui libri di testo. Allegra si è documentato nelle biblioteche della Basilicata. Ha letto i diari dei protagonisti di quella guerra, come Carmine Crocco e José Borjes. E in questo libro, quella guerra, la racconta serenamente, senza revisionare nulla, senza tifare per nessuno. Ma senza, per questo, rinunciare agli ideali, di cui questo romanzo trabocca dalla prima all’ultima pagina. Ideali nobili e spesso dimenticati, come l’amore per la propria terra, per il proprio popolo.
Totore, col formidabile fratello Gerardo e il rude parroco Patania, ci restituisce la bellezza di una vita votata all’amore per la giustizia, al sacrificio per un ideale. La sua è la storia di tanti grandi del passato, da Peppino Impastato a Giovanni Falcone, e chissà quanti di questi giganti sono andati perduti fra le pieghe disoneste del cronismo storico. La bellezza di questo romanzo, scritto bene e architettato ancora meglio, sta proprio qui: ci restituisce l’identikit del coraggio, la consapevolezza di ciò che proprio Paolo Borsellino disse poco prima di venire ammazzato. E cioè che chi ha paura muore ogni giorno. Chi ha coraggio, invece, muore una volta soltanto.
Giuseppe Musolino