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Il caso italiano

di Roberto
Musacchio

Chi ha qualche anno ricorda come e quanto si parlasse in tutto il Mondo del “caso italiano”.

Il più grande partito comunista d’Occidente. Una egemonia culturale che rendeva Gramsci uno dei principali pensatori mondiali. Una Resistenza che aveva riscattato il ventennio fascista. Una magnifica Costituzione. Lotte straordinarie. Un biennio, il 1968/69, che si prolunga nel tempo. Tutti i gangli della società attraversati dal pensiero critico organizzato, dall’urbanistica alla psichiatria. Femminismo, pacifismo ed ecologismo d’avanguardia. La questione generazionale che irrompe come nuova linfa rivoluzionaria. Alcuni dei momenti più significativi delle lotte alterglobaliste.

Certo, a fronte di tutto ciò, anche quelle che Gramsci individuava come le “quistioni” del Paese.

A partire dal sovversivismo delle classi dirigenti, dal trasformismo. E poi le mafie. Una borghesia mai fattasi veramente nazionale. L’emarginazione e lo sfruttamento del Sud, delle donne, dei giovani. Una base produttiva sempre ridotta e segnata da contraddizioni. Un tasso occupazionale molto basso. Un sistema fiscale iniquo e permeabile a tutte le rendite.

Proprio queste anomalie, questo intreccio perverso tra arretratezza e modernità, tra rendite e profitti rendeva il “Paese nel Paese”, quel blocco sociale che ruotava intorno al movimento operaio, al Pci e poi ai nuovi movimenti, fortemente motivato, forte della propria diversità, indispensabile e fecondo.

Certo, aveva “confini” segnati dall’anticomunismo globale dell’atlantismo che si ergevano come barriere “a necessità e comando”, dal piano Marshall alla strategia della tensione. Si poteva segnare di sé ma non prendere il potere.

Ciò che però ha rovesciato il caso italiano nel suo contrario, l’essere il Paese tra i peggiori per livelli sociali e democratici, non sono stati quei confini e neanche lo sconfinare determinato dalla caduta del Muro. È stata la smobilitazione del Paese nel Paese che è andata ben oltre il raggio di azione di chi l’ha determinata.

Siamo diventati il Paese dove l’egemonia culturale neoliberale è più totalizzante e si accompagna ad un esercizio totalizzante del Potere che esclude in radice ogni elemento sopravvissuto della diversità mentre incorpora tutte le anomalie perduranti.

Un Paese in cui una parte di coloro che venivano dalla Storia del Pci, i DS, il giorno della morte di Carlo se ne andò da Genova, dove già stava a stento. E non è mai tornato, diventando, col Pd, parte integrante della governance.

Un Paese in cui, di questo voglio parlare, non si ha più il coraggio della alternativa come possibilità reale che prevede lo scontro e la sua durezza.

Elementi di resistenza politica sono stati in campo fino all’avvio della austerità e fino a quando c’è stata una soggettività politica che si richiamava alla diversità. Poi c’è la resa, l’esodo, la marginalità. E si vede. Non voglio certo negare importanza a quanto si e continuato a fare e a quanti hanno continuato l’impegno sociale e politico. Negherei me stesso, da militante politico e da volontario di associazione sociale. Ma non posso negare ciò che mi fa soffrire, il sentirmi in fondo impotente.

È vero, come si è detto a Genova 20 anni dopo: “avevamo ragione”. Ma averla mentre vincono gli altri è quasi peggio, di sicuro fa soffrire di più. Certo ciò che della politica che aveva resistito è rimasto ha tutte le sue colpe. Ma è altrettanto vero che, a differenza di tante altre parti del Mondo e della stessa Europa, nessuna proposta, forma, soggettività nuova ha riempito il vuoto. Si può aver curato la memoria, mantenuto qualche presidio, aver mostrato grande generosità sociale ma la lotta politica generale è rimasta sguarnita. “Vecchi” sconfitti e inaciditi. “Giovani” giustamente incazzati ma recalcitranti, tra il “fuori” e la “cooptazione”. Troppi “giovani” che dovevano essere il nuovo finiti a puntellare il vecchio. Politica fuori gioco o ridotta alle briciole ma movimenti che non mordono. Più triste ancora la parabola sindacale perché la paga direttamente la classe.

Se in tanti, io per primo, abbiamo responsabilità, non si è visto chi si assumesse l’impegno di riaprire la partita sul serio. E, purtroppo, anche con la pandemia le decisioni stanno andando in direzione opposta a quanto detto nei nostri seminari o negli avvisi comuni. A partire dal “diritto” a licenziare che come sempre segnala il chi comanda qui.

Ricostruzione ingenerosa e stizzosa? Corro il rischio perché sento peggio l’autoconsolazione.

E corro anche il rischio del dire la mia sul che fare. La dico per come l’ho maturata. Senza la ricostruzione della forza non c’è speranza alcuna. E la forza è pensiero, movimento, politica. Se questi tre aspetti non si reincrociano non c’è possibilità di invertire la tendenza. È così ovunque, dal Cile alla Croazia. Incredibile non lo sia in Italia da dove Gramsci lo ha insegnato a tutti. Si può discutere se con Genova si poteva andare politicamente oltre ciò che c’era. Si deve discutere oggi di a che punto sta la globalizzazione che denunciammo. Ma se non c’è il noi, autonomo e organizzato, non si va da nessuna parte.

A Genova il reincontrarsi è stato importante anche perché preceduto da un lavoro di ritessitura. Si è visto chi c’era, anche perché non se ne è mai andato, e chi no. C’era il Partito della Sinistra europea, che dopo Genova nacque e che, insieme al gruppo parlamentare già Gue e ora The Link e a Transform, ha dato mostra che quel rapporto tra movimenti e politica può continuare e rafforzarsi.

Sui grandi mass media c’è pure qualcuno che ci ha “dato ragione”. Peccato che intanto tra gli esperti del governo è arrivata anche Fornero. Soprattutto la catena di comando di quelle terribili giornate sta ancora nella governance di questo Paese. La Rivoluzione non è un pranzo di gala ci insegnavano da piccoli; in America Latina lo devono ricordare tutti i giorni. Lula è stato sbattuto in carcere ed ora invece può tornare Presidente. Noi lo abbiamo un po’ dimenticato.

L’ICE contro i brevetti ha raggiunto il primo obiettivo in Italia. il 18 ottobre c’è uno sciopero generale di tutte le sigle di base, fatto quasi incredibile.

E il 30 ottobre, data del summit dei capi di Stato del G20 a Roma, una grande mobilitazione. Scelta importante per chi come noi si è impegnato con la coalizione Move Up contro il G20 della ristrutturazione capitalistica dopo la pandemia.

Sono segni, ma certo non bastano. Incoraggiano ma devono portare a buttare il cuore oltre gli ostacoli e a rilanciare la sfida.

cultura neoliberale, G20, Genova, PCI
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