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I Verdi europei e il “soffitto di cristallo”

di Franco
Ferrari

I Verdi europei hanno potuto intravedere la possibilità di diventare protagonisti di primo piano nei due maggiori stati europei: la Francia e la Germania. Particolarmente clamorosa la loro crescita in quest’ultimo paese, con la ragionevole prospettiva, visto anche il previsto abbandono della Mekel dopo le elezioni del prossimo settembre, di poter conquistare il ruolo di cancelliere in un futuro governo di coalizione. In Francia alcuni appuntamenti elettorali avevano consentito a EELV, il partito ecologista, di svettare all’interno di una sinistra in crisi dopo la fallimentare presidenza Hollande.

In altri Paesi europei, soprattutto nordici (Svezia, Finlandia, Irlanda, ecc) da diversi anni i partiti ecologisti si sono insediati nel sistema politico e partecipano, anche se in ruoli secondari, in varie coalizioni di governo. In alcuni casi le esperienze di governo sono state poi sonoramente bocciate dagli elettori, come avvenuto in Irlanda. Questa famiglia di partiti europei ha subito una decisa evoluzione che ne ha fortemente attenuato i caratteri di partito, se non anti-sistema, quanto meno anti-establishment. La spinta originaria, almeno in Paesi nei quali si sono formati i primi partiti verdi, è venuta dai nuovi movimenti sociali, che alcuni sociologi hanno definito come post-materialisti1. Questi movimenti innestavano sulle tematiche ambientali anche elementi di femminismo, di pacifismo radicale e di ricerca di forme di democrazia diretta.

In Paesi nei quali la tradizione comunista era diventata progressivamente sempre più marginale a livello elettorale, hanno dato espressione istituzionale a orientamenti di “nuova sinistra” (Germania, Austria, Belgio). In queste realtà, dopo una fase di conflitto interno tra “fundis” e “realos” sono andati prevalendo sempre più questi ultimi. Il risultato di questa parabola è stata la tendenziale trasformazione di queste forze politiche in formazioni di sinistra liberale piuttosto che di sinistra alternativa. La loro base elettorale si è andata identificando con quei settori di ceto medio che hanno potuto avvantaggiarsi delle trasformazioni del sistema produttivo in ambiti post-industriali e legati alle innovazioni tecnologiche subentrati ai classici insediamenti industriali fordisti.

In paesi come la Francia, l’ecologismo politico è stato dall’inizio dominato da componenti che negavano la distinzione tra destra e sinistra e rifiutavano l’ipotesi di un allineamento all’interno degli schemi bipolari esistenti. Questa collocazione veniva sintetizzata nella formula retorica secondo la quale “l’ecologie n’èst pas a marier”. L’ambientalismo non deve sposarsi con nessuno degli schieramenti esistenti.

Abbiamo visto che nel corso degli anni, con il prevalere delle tendenze “realiste”, i partiti verdi possono invece tendenzialmente allearsi con chiunque. È il caso dell’Austria dove hanno accettato di entrare in coalizione con il Partito Popolare, che non solo rappresenta la tradizionale tendenza conservatrice e pro-business dominante nel Paese, ma ha spostato a destra il proprio asse per recuperare voti che erano rifluiti verso le formazioni populiste radicali.

In Germania, dato anche che i rapporti di forza attuali non sembrano lasciare spazio alla formazione di una coalizione rosso-rosso-verde (SPD, Verdi, Linke) soprattutto per la crisi che sembra ormai irreversibile della socialdemocrazia,  i Verdi sono spendibili per qualsiasi tipo di alleanza, tranne con l’estrema destra dell’AfD. L’ipotesi più probabile è una convergenza tra l’unione dei due partiti conservatori CDU-CSU e il partito ambientalista.

Queste aspettative di una forte crescita ecologista si sono però raffreddate nelle ultime settimane. In Francia, l’EELV si è incamminato nel percorso delle primarie, aperte a chiunque sia disposto a versare un modesto obolo, e già si profila un confronto tra diversi candidati. Il favorito è Yannick Jadot, parlamentare europeo, che si propone come possibile aggregatore di tutto il campo del centro-sinistra. Il suo profilo è piuttosto moderato e finora non ha prodotto una dinamica significativa nel consenso dell’opinione pubblica. Il campo della sinistra resta frammentato con almeno due candidati già in campo, Melenchon e il segretario del PCF. Per il leader di France Insoumise (dal quale è difficile aspettarsi la disponibilità ad una retromarcia, tanto più in presenza di un candidato così poco connotato in senso alternativo) il principale ostacolo sembra delinearsi nella raccolta delle 500 sottoscrizioni di sindaci, condizione minima per la formalizzazione di una candidatura. Dato lo scarso radicamento istituzionale del movimento di Melenchon, la garanzia del raggiungimento della soglia era venuta, nel 2017, dal sostegno dei comunisti. Questa volta i loro patrocinii (con qualche eccezione) dovrebbero andare alla presentazione di Fabien Roussel e il candidato di France Insoumise dovrà rivolgersi ad altri amministratori di incerta provenienza. Nel campo socialista, rafforzato dalle recenti elezioni regionali, si consolida l’ipotesi della candidatura della sindaca di Parigi Anne Hidalgo.

All’interno del campo ecologista, l’alternativa a Jadot è rappresentata dal sindaco di Grenoble Eric Piolle che ha un profilo più spostato a sinistra ma ancora poco conosciuto a livello nazionale. Non si esclude l’ingresso di qualche candidatura femminile come Sandrine Rousseau, che dispone di un forte sostegno delle reti femministe vicine al partito o la deputata Delphine Batho, più vicina alla linea storica di un ecologismo integrale e ostile ad una strategia di unione delle sinistre.

Nelle recenti elezioni regionali, gli ecologisti hanno guidato una coalizione di sinistra, formatasi fin dal primo turno nella Haut de France, al termine di un percorso piuttosto contrastato. Il segretario del PCF, Roussel, originario di questa zona settentrionale della Francia, nella quale esiste una lunga tradizione comunista, aveva puntato a guidare la lista unitaria, contando sull’appoggio dei socialisti. È stata France Insoumise, timorosa che questo ruolo di capofila attribuito a Roussel potesse avvantaggiarlo in vista delle presidenziali, a sostenere la candidatura di un verde. Il risultato della lista non è stato per nulla esaltante. Questo ha portato i socialisti di Olivier Faure, che fino a quel momento sembravano disponibili a sostenere una candidatura ecologista alle presidenziali del prossimo anno, ad avanzare il ragionamento secondo il quale i verdi non riescono a superare un “soffitto di cristallo” che li rende incapaci di conquistare un consenso più ampio di quello identificabile nel ceto medio “post-materialista”.

Discorso in parte strumentale, ma non privo di un suo fondamento. Gli stessi Verdi tedeschi sono consapevoli che una parte dei ceti popolari vedono l’ecologismo come uno strumento dei ricchi. Intervistata dal New York Times, la candidata dei Grunen tedeschi alla cancelleria, Annalena Baerbock, ha citato il caso dei gilet gialli francesi come un esempio di cui tenere conto per evitare che l’agenda ecologista resti patrimonio di settori sociali benestanti2. Il movimento di protesta francese era sorto a seguito di una decisione di Macron di aumentare il prezzo del carburante sulla base di una motivazione ecologista. L’ambientalismo non dovrebbe essere separato dalla questione sociale, che l’egemonia liberista vincente dagli anni ’80 ha fortemente aggravato. I partiti verdi restano in bilico tra il guidare una ristrutturazione produttiva, ambientalmente orientata, ma che non intacca il meccanismo di accumulazione dominante, e l’essere protagonisti di elementi significativi di rottura nelle relazioni sociali che di quel meccanismo sono il derivato. Sia in Germania che in Francia i verdi sembrano proporsi come punto di riferimento di quella parte dell’establishment che è più consapevole (o rappresenta settori direttamente interessati) della necessità di fronteggiare il cambiamento climatico e quindi di seguire sempre più la prima opzione piuttosto che la seconda.

Se, visti dal basso, i Verdi non sembrano sufficientemente rappresentativi degli interessi dei ceti popolari, visti dall’alto, suscitano reazioni diverse. In Germania alcuni settori del mondo imprenditoriale li hanno duramente attaccati in quanto portatori di logiche che sarebbero “punitive” degli interessi dell’impresa3. Per costoro, i Verdi, sarebbero ancora troppo di “sinistra” e troppo “socialisti”. La campagna mediatica che ha colpito personalmente la Baerbock, al di là di qualche indubbia scivolata e di un certo “abbellimento” al suo curriculum (oltre a qualche copiatura di troppo nella sua tesi dottorale, “vizietto” che in Germania ha interrotto più di qualche brillante carriera politica), sembra indicare la presenza di settori importanti delle classi dominanti che, pur riconoscendo a parole l’urgenza di politiche destinate a fronteggiare il mutamento climatico, non sono intenzionati a pagare alcun costo per la sua realizzazione.

I sondaggi hanno indicato un tendenziale ridimensionamento del consenso ai Verdi, che viaggerebbe attorno al 20%, quando sembrava destinato a raggiungere anche il 30%. A fronte di questo parziale ripiegamento dei Grunen, c’è stata la ripresa dei democristiani, che in questo modo potrebbero proporsi alla guida di qualsiasi futura coalizione, e un certo riassestamento verso l’alto di socialdemocratici e Linke (pur a livelli ancora inferiori a cinque anni fa).

Ora si tratterà di vedere se i recenti disastri ambientali che hanno colpito alcune zone della Germania settentrionale, potranno influire sull’opinione pubblica e ridare fiato alla forza politica che almeno sulla carta, maggiormente interpreta l’agenda ambientalista. Ci fu un’altra occasione nella quale un disastroso evento alluvionale modificò l’esito di un’elezione. Allora furono le zone orientali del Paese ad essere duramente colpite e a contare fu la capacità dell’allora cancelliere socialdemocratico Schroeder nel gestire l’emergenza. In quel caso però la connessione tra un evento meteorologico eccezionale e la questione ambientale non era evidente.

Una ripresa dei Verdi potrà soddisfare un’altra corrente di pensiero, presente ad esempio nel mondo liberal americano e anche nella cerchia dell’Amministrazione Biden, che vede nella crescita degli ecologisti, in particolare tedeschi, un fatto positivo che può riportare verso il centro il conflitto politico che si è polarizzato tra liberali/illiberali o europeisti/sovranisti. I Verdi, nella misura in cui riuscissero a conquistare il consenso di settori popolari oggi attratti dall’estrema destra potrebbero svolgere un’utile funzione di riequilibrio del sistema. Ne fanno testo un approfondito articolo del New York Times (già sopra citato) e un lungo studio dedicato ai Verdi tedeschi pubblicato dall’autorevole Brookings Institution, un think tank d’area democratica, la cui autrice Amanda Sloat è stata nominata consulente per le questioni europee per il Presidente Biden4.

A rendere gradita una crescita dei partiti ecologisti contribuisce dichiaratamente l’allineamento di queste forze a sostegno della Nato e il fatto che nei rapporti con Russia e Cina hanno posizioni che, più della Merkel, sono vicine alle tesi bideniane di un nuovo “conflitto di civiltà” e quindi utili alla sottostante difesa di interessi economici e tecnologici nella quale è impegnata la nuova Amministrazione USA, come lo era la precedente anche se in forma diversa.

  1. https://www.jacobinmag.com/2018/05/joschka-fischers-long-march/.[]
  2. https://www.nytimes.com/2019/07/14/world/europe/greens-yellow-vests-germany-europe-populism.html.[]
  3. https://www.micromega.net/il-dilemma-dei-verdi-tedeschi/.[]
  4. https://www.brookings.edu/research/germanys-new-centrists-the-evolution-political-prospects-and-foreign-policy-of-germanys-green-party/.[]
Verdi
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