La didattica a distanza attuata dalle scuole per mezzo delle risorse online, in seguito all’interruzione delle attività in presenza, ha fatto riemergere, acutizzandoli, i problemi derivanti dalla trasformazione della scuola pubblica italiana in terreno di conquista da parte di società private nazionali o multinazionali che si occupano della realizzazione e della gestione da remoto di software per la dematerializzazione della didattica, delle procedure amministrative in materia di istruzione, dei rapporti con le comunità’ dei docenti, del personale, degli studenti e delle famiglie degli alunni.
I succitati problemi, già evidenti durante la didattica in presenza, rimangono irrisolti a causa della totale inadempienza del MIUR che, al massimo, si limita a fornire delle indicazioni sulle piattaforme da usare, piuttosto che occuparsi direttamente della realizzazione, l’attivazione e il management di software per la scuola pubblica.
Con l’introduzione dei registri elettronici, a partire dall’anno scolastico 2012/2013, ogni scuola italiana versa annualmente, a società private, fino a 5000 euro l’anno, per la gestione da “remoto” di software dedicati al management di attività legate alla didattica, al personale, al bilancio, alle comunicazioni per via telematica con gli alunni e con le famiglie. Per il reperimento delle risorse economiche le scuole attingono dal fondo d’Istituto e dai contributi volontari delle famiglie, con la “complice indifferenza” del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Il giro d’affari che c’è dietro la succitata operazione può garantire alle 7 maggiori società di programmazione che operano sul territorio nazionale, introiti complessivi fino a quaranta milioni di euro l’anno.
L’implementazione del registro online è avvenuta oltretutto senza il perfezionamento da parte del MIUR del necessario piano per la dematerializzazione e senza l’approvazione del Garante per la Privacy. A tutt’oggi quindi non sussiste nessun obbligo per le scuole di dotarsi di registri elettronici.
Il MIUR dovrebbe assumersi la responsabilità di realizzare in proprio o commissionare con gara d’appalto un unico programma per la gestione da remoto delle attività didattiche e amministrative delle istituzioni scolastiche piuttosto che consentire a soggetti privati di vendere annualmente, con contratti separati scuola per scuola, la gestione esterna online di programmi di loro proprietà, contravvenendo alle più elementari regole che dovrebbe rispettare chiunque governi un paese civile, quando implementa dotazioni tecnologiche in una struttura pubblica.
Durante il mese di marzo 2020, è avvenuta in Italia e in molti altri stati europei la sostituzione della didattica in presenza con quella a distanza (DAD) a causa dell’emergenza CoViD 19.
Tale nuova modalità di “insegnamento-apprendimento” impone alcune riflessioni intorno allo stravolgimento del ruolo della scuola pubblica, al sistema di relazioni che si instaurano nelle comunità scolastiche e al frequente ricorso ai colossi statunitensi della tecnologia informatica, come Google Suite e Office 365, per la dematerializzazione della didattica.
Le testimonianze dirette di docenti, alunni e genitori e le inchieste sulla DAD condotte in alcuni paesi europei, come quella promossa dall’università di Bordeaux su 31 mila famiglie francesi, evidenziano un significativo incremento della dispersione scolastica riguardante prevalentemente gli alunni appartenenti ai ceti sociali più deboli sotto il profilo economico e/o culturale. Le difficoltà che anche i docenti incontrano durante le lezioni in modalità telematica, legate alla qualità dell’ambiente domestico, dei dispositivi elettronici e della linea wifi, si amplificano se i bambini e i ragazzi in età scolare provengono da famiglie di classe sociale umile. È meno probabile inoltre che queste ultime, abbiano la possibilità o la capacità di supportare i propri figli nello studio e nella rielaborazione degli argomenti spiegati o assegnati nella DAD, rispetto alle famiglie colte e agiate. Le lezioni “dematerializzate” accrescono quelle disparità che la scuola pubblica avrebbe il compito costituzionale di attenuare. Da non sottovalutare inoltre il clima surreale che spesso si crea durante la “lezione virtuale” per via telematica, tra docente e alunni, in particolare quando si ripropongono (sbagliando) verifiche orali con le stesse modalità della didattica in presenza (disconnessioni, webcam improvvisamente non funzionanti o orientate solo sui capelli dello studente, risposte che giungono a video oscurato con notevole ritardo, restituzione di compiti interamente copiati da Wikipedia o da altre fonti web); situazioni grottesche che ledono la dignità del docente e degli studenti stessi, quasi mai sperimentate nella didattica in presenza. In tale contesto il MIUR, si è limitato a indicare piattaforme private online, multinazionali o nazionali, utilizzabili per il management della DAD. Colossi come Google sono entrati così nelle istituzioni scolastiche pubbliche, anche in base alle succitate indicazioni ministeriali, oltretutto senza gare d’appalto. Chi ci assicura che la privacy sarà rispettata da una multinazionale il cui enorme fatturato si basa principalmente sull’acquisizione dei dati degli utenti per usi commerciali e di orientamento? Nella malaugurata ipotesi che a settembre 2020 non si ritorni ad una piena didattica in presenza, è inderogabile che il MIUR si occupi direttamente della DAD, sanando l’inadempienza e l’atteggiamento pilatesco che, in questo settore, lo ha contraddistinto sin da quando, nel 2012, ha previsto il registro elettronico.
Insegnante, Viterbo