La Presidenza Trump è iniziata travolgendo il sistema politico con una valanga di ordini esecutivi che calpestano tutti gli equilibri istituzionali precedenti e producono un significativo smantellamento delle strutture di potere amministrativo ritenute potenziali ostacoli al progetto politico del movimento MAGA.
Di fronte a questa offensiva senza briglie che prevede come unico possibile argine l’intervento di una magistratura che, per lo stesso sistema costituzionale, è frammentata per orientamento politico e al cui vertice vi è comunque una Corte Suprema ormai controllata dalla destra più reazionaria, il Partito Democratico fatica a costruire un’opposizione credibile.
Trump ha la maggioranza del Senato e della Camera dei Rappresentanti (una situazione che la stampa, riprendendo un termine dello slang delle scommesse definisce come “trifecta”, quando si azzeccano i primi tre risultati nell’ordine giusto) e gli eletti repubblicani sono ormai totalmente allineati sulle posizioni dell’estrema destra.
A differenza della prima elezione del “tycoon” non si vedono ancora mobilitazioni significative anche se una parte della comunità ispanica guarda con preoccupazione alla caccia all’immigrato irregolare che tende inevitabilmente a mettere nel mirino anche coloro che sono nel paese da più tempo e che sono stati già regolarizzati.
In questo quadro difficile il Partito Democratico ha proceduto all’elezione del presidente del Comitato Democratico Nazionale, l’unico organismo rappresentativo che guida il partito tra un’elezione e l’altra. I partiti americani sono fondamentalmente dei veicoli elettorali e si presume che l’apparato centrale sia neutrale rispetto ai concorrenti delle primarie presidenziali e degli altri ruoli elettivi. Si è visto che nel caso di della candidatura di Sanders questa neutralità non venne rispettata e questo suscitò un certo scandalo. L’establishment democratico reagisce malamente quando la sfida interna viene dal fianco sinistro.
Il nuovo chair dovrà comunque cercare di rappresentare pubblicamente tutto il partito, anche se gran parte del ruolo politico effettivo è affidato ai capigruppo di minoranza di Camera e Senato che hanno un profilo centrista.
L’eletto è Ken Martin che proviene dal Minnesota. In questo Stato il partito mantiene la denominazione di Democratic Farmer Labour (DFL) assunto negli anni ’40 quando i democratici assorbirono una formazione locale con una politica sociale radicale che però era andato perdendo influenza durante gli anni di Roosevolt le cui politiche ne aveva limitato lo spazio d’azione.
Nel Comitato Democratico Nazionale, che raccoglie l’élite del partito, ha battuto Ben Wikler presidente dell’organizzazione statale del Wisconsin. Due figure relativamente simili che potevano vantare dei successi elettorali dei rispettivi Stati e entrambi volti ad invocare un recupero di forza del partito tra la “working class”, la classe lavoratrice.
Le forze che si collocano a sinistra nella coalizione che costituisce il Partito Democratico hanno espresso scelte differenti nella competizione tra i vari candidati. Due sindacati importanti, il Retail, Wholesale and Department Store Union e lo United Food and Commercial Workers hanno dichiarato il loro endorsement per il candidato del Minnesota.
La principale rivista della sinistra Usa, The Nation, attraverso la penna del suo commentatore politico John Nichols, ha presentato un profilo positivo di Ken Martin considerato erede del senatore progressista del Minnesota, Paul Wellstone, scomparso prematuramente nel 2002 a causa di un incidente aereo. Lo stesso Nichols si è però ufficialmente espresso per il rivale Wikler.
Quello che la rivista chiama la “Wellstone way” viene identificata in una campagna dai temi economici “populisti” (termine che qui viene usato in senso positivo, ovvero vicino alla sensibilità e agli interessi delle classi popolari), un’attività organizzativa permanente e non legata solo alle campagne elettorali, la costruzione di una coalizione multietnica, la presenza attiva nelle zone rurali, ormai largamente catturate dai repubblicani, e la enfatizzazione dei valori progressisti. Fra gli impegni valutati positivamente dal commentatore di “The Nation” vi sono lo sforzo di ricostruire una presenza politica in tutti gli Stati e non limitandosi a quei sei o sette considerati come potenzialmente conquistabili ad ogni elezione (gli “swing states”) ed anche di limitare i finanziamenti delle lobby nelle elezioni primarie. Nelle ultime elezioni due parlamentari progressisti sono stati sconfitti per effetto dell’intervento dell’AIPAC, la lobby pro-israeliana che dispone di ingenti risorse e che punta ad eliminare dal parlamento Usa qualsiasi voce critica verso le politiche del governo di Tel Aviv.
Il maggiore candidato rivale di Martin, risultato nettamente sconfitto, era Ben Wikler, il quale poteva contare sul sostegno di figure e organizzazioni politiche tra loro diverse. C’erano fra gli endorsement i centristi Chuk Schumer, capogruppo democratico al Senato, e Nancy Pelosi assieme alla leader del caucus progressista Pramila Jayapal. Tra le organizzazioni che hanno sostenuto Wikler si trovavano la progressista Move On come la centrista Third Way. Molte organizzazioni sindacali importanti lo hanno sostenuto pubblicamente.
Quasi all’ultimo momento è entrato in corsa anche Faiz Shakir, manager delle campagne presidenziali di Bernie Sanders e direttore esecutivo di uno strumento informativo di sostegno ai sindacati. Shakir ha avuto il supporto di una sola leader sindacale, la socialista Sara Nelson che guida la piccola ma combattiva organizzazione degli e delle assistenti di volo.
Gran parte del dibattito interno al Partito Democratico ruota intorno al rapporto con la working class che già da diversi anni ha sempre più disertato la formazione politica che, a partire dal new deal roosevaltiano, l’aveva maggiormente rappresentata.
Nel valutare la sconfitta elettorale del 2024 sono state avanzate diverse motivazioni, alcune contingenti e altre più strutturali. Una parte della responsabilità è stata attribuita alla tardiva decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla corsa dopo una disastrosa performance nel dibattito televisivo con Trump. La sostituzione con la Harris a pochi mesi dal voto ha impedito di avviare quel lungo processo delle primarie attraverso le quali il partito poteva dare legittimità popolare alla scelta del candidato. E quest’ultimo poteva anche caratterizzarsi più nettamente in termini di discontinuità con il presidente uscente in quelle politiche che risultavano meno gradite da ampi settori dell’elettorato.
Fino ad un certo punto il Partito Democratico poteva pensare di essere favorito dall’evoluzione demografica, dato che la sua coalizione delle identità (donne, neri, ispanici, ecc.) sembrava destinata a sopravanzare nettamente la componente bianca, ma le ultime elezioni hanno registrato spostamenti significativi di voto a favore di Trump proprio tra i non bianchi. Lo stesso elettorato femminile non si è particolarmente mobilitato a sostegno della Harris.
Le letture del risultato elettorale sono evidentemente diverse, se non contrapposte, tra le tendenze centriste e quelle radicali. La stessa invocazione del recupero dei consensi tra la classe lavoratrice non implica affatto l’adesione ad una politica di sinistra. Il think tank centrista “Third Way” ha pubblicato un rapporto (Renewing the Democratic Party di William A. Galston e Elaine C. Kamarck) dal quale emergerebbe che sono proprio le politiche proposte dalla sinistra ad essere quelle più impopolari nella working class. Per gli autori del documento la sconfitta elettorale della Harris è legata soprattutto a due temi: immigrazione ed economia. Sull’immigrazione si è impedito a Biden di assumere una linea più dura contro i migranti se non alla fine del mandato quando ormai era troppo tardi per modificare l’orientamento degli elettori. In riferimento all’economia si ritiene che gli economisti progressisti abbiano erroneamente sottovalutato gli effetti inflazionistici dell’aumento della spesa pubblica. Ma non manca una sottolineatura della distanza culturale tra la difesa delle politiche rivolte alla comunità LGBT+ e la visione tradizionale della famiglia diffusa nella working class, sia quella bianca sia quella ispanica (anche quando questa visione non corrisponde alle famiglie reali in cui vivono).
Si tratta di un’analisi che rimanda per più aspetti a quella elaborata, pur in un contesto diverso, dal movimento di Sahra Wagenknecht in Germania e che non sembra essere in grado, nonostante le aspettative iniziali sollevate, di erodere il consenso dell’estrema destra. Le argomentazioni degli analisti vicini alle tendenze centriste del partito sembrano sottovalutare sia la scarsa efficacia di politiche moderate e continuiste con il passato nel contrastare l’evidente radicalizzazione dell’estrema destra, sia la logica di subalternità ad un senso comune che non è un dato oggettivo ma è in parte almeno frutto delle campagne ideologiche della destra autoritaria.
Tutt’altra lettura è quella fornita dai commentatori di sinistra, in particolare raccolti attorno al sito di Jacobin. Daniel Finn ha segnalato, partendo da rivelazioni pubblicate dal New York Times, come durante la campagna elettorale della Harris si sia fatta sentire l’influenza politica, soprattutto sui temi economici, dei ricchi donatori e difensori degli interessi delle grandi imprese. Lo stesso giornale di orientamento liberale, rilevava come l’impostazione della campagna elettorale fosse maggiormente influenzata da questi interessi economici più di quanto lo fosse stata la stessa amministrazione Biden.
Il miliardario Mark Cuban ha spiegato come avesse inondato il team della Harris di proposte economiche che hanno spesso trovato accoglienza nei comizi della candidata democratica, tutte tese a cancellare quel poco di influenza che la sinistra aveva ottenuto grazie alle campagne elettorali di Bernie Sanders. Passate le elezioni, Cuban ha potuto congratularsi con Trump e Musk per la vittoria dato che i suoi interessi economici non saranno certamente in pericolo. I Democratici hanno dovuto scontare il fatto che l’oligarchia economica, anche quella legata ai settori del digitale che era sempre sembrata orientata verso di loro e li aveva condizionati con le loro generose donazioni, si sono in gran parte riallineati dietro le politiche trumpiane.
Il nuovo presidente del DNC dovrà misurarsi con un partito che fatica a riprendersi dalla sconfitta mentre Trump, con gran decisione e cinismo, smantella ogni politica, anche la più moderata, che Biden ha messo in atto nei suoi quattro anni di Presidenza. Per ricostruire un proprio progetto politico in grado di recuperare il consenso di importanti settori popolari, in particolare quelli con un basso livello di istruzione che meno facilmente li votano, dovrebbe entrare in conflitto esplicito con gli interessi delle grandi imprese. Altrimenti deve sperare che le politiche trumpiane producano in tempi brevi ricadute economiche negative su importanti settori di elettorato e questo apra la strada ad un recupero già dalle prossime elezioni parlamentari del 2026. Ma sembra improbabile che Trump con la sua continua produzione di ordini esecutivi si faccia fermare anche da un Congresso in mano all’opposizione.
Franco Ferrari