Vari contributi recenti sul manifesto, da Antonio Floridia a Guido Liguori a Giancarlo Erasmo Saccoman, hanno discusso del congresso del Partito della Rifondazione comunista (RC) in corso, un congresso che appare fortemente polarizzato ma che offre un’opportunità.
Il congresso arriva dopo anni in cui il partito ha perso consensi, è rimasto fuori nelle competizioni elettorali nazionali e regionali a cui ha partecipato, senza portare eletti nelle istituzioni. Ma il diminuito seguito del partito pone problemi che riguardano tanto la politica, cioè le strategie, che le alleanze, ovvero le tattiche, e il congresso oggi presenta al partito una possibilità di ripensarsi, sul piano politico e culturale. «Il cuore del confronto», afferma Liguori, è una questione che riguarda tutta la sinistra di classe, quella che pone al centro il conflitto sociale e non solo i diritti di cittadinanza, pure importanti».
Se RC ha perso consensi, parte della risposta sta nel dannato sistema elettorale maggioritario, con le sue soglie, e quindi nelle “alleanze”, che hanno portato il partito all’isolamento e, quindi, all’esclusione, che ne ha fatto perdere parte dell’elettorato potenziale. Se RC avesse perseguito una strategia come quella di Sinistra Italiana (SI), forse sarebbe andata diversamente. Ma, certo, ciò avrebbe comportato una maggiore vicinanza tra SI e RC su di un punto che, da sempre, è stato dirimente, quello del rapporto con il Pd. Il senso politico della divisione tra le varie forze politiche ancora esistenti a “sinistra del Pd” si perde ormai nel tempo, ma il fatto è che l’alleanza in coalizione con il Pd, con il sistema elettorale vigente, ha permesso a SI di sopravvivere (arrivando a porsi come «l’unica forza a sinistra del Pd con una sua rappresentanza») relegando RC nel ghetto minoritario. Il tema, però, riguarda proprio quella che si definisce «sinistra di classe», le sue prospettive politiche, e non è solo riferibile al meccanismo elettorale: se anche il sistema fosse proporzionale puro, quanto largo potrebbe essere oggi il bacino elettorale di RC? Le scissioni maturate nel tempo hanno tutte avuto una loro legittimità ma il fatto è che, oggi, nessuna di quelle forze raggiunge un consenso di un certo peso, escludendosi così dall’agone politico.
Come sostiene Floridia, “le alleanze” non sono necessariamente la cartina di tornasole, il metro di misura, dell’identità di una forza politica. «Quando si ha una propria identità politica, forte di una propria autonomia culturale, non si teme la contaminazione, la questione delle alleanze perde il suo carattere pregiudiziale, e si apre la via ad una prassi di possibili mediazioni sul piano programmatico», afferma Floridia. Ed è per questo che ciò che “divide” RC da SI potrebbe e dovrebbe misurarsi sul terreno dell’identità politica e dell’identità culturale.
La cosiddetta sinistra di classe si è persa perché il riferimento alla classe operaia e lavoratrice è rimasto astratto e perché quella stessa classe, socialmente frammentata, non ha più “coscienza di sé” né è più in grado di raccogliersi in un movimento alla testa del quale nessuno appare capace di porsi. Le classi ci sono ancora, anche se sono cambiate e la disarticolazione della classe operaia e salariata, in particolare, è stata scientemente perseguita dal capitale e dalle politiche neoliberiste messe in atto nell’ultimo trentennio, proprio per vanificare il movimento operaio. Ma le classi basse e medio basse – del lavoro salariato, in tutte le sue forme – esistono, i loro “confini” sono netti, pur nella frammentazione, ed esse sono comunque largamente maggioritarie e sempre meno “protette”. Ovvero, sono ancora e come un tempo, subalterne. La democrazia liberale ha fallito uno degli obiettivi che ne avevano sancito il primato: quello della rappresentanza dei molti, dei “subalterni”, appunto, che avrebbe dato luogo a giustizia sociale, equità, perseguendo l’eguaglianza di fatto dei diritti e delle opportunità. Il disegno neoliberista del capitale, che si è dispiegato pienamente con l’avvio della globalizzazione, è stato accomodato dalla sinistra liberal con le politiche della flessibilità, con le privatizzazioni, con l’idea che «andando dove ci porta il mercato» avrebbe portato efficienza ed equità. Ma il conflitto distributivo tra capitale e lavoro lo ha vinto il primo e il secondo ha dovuto soccombere. Svuotando lo Stato dal suo ruolo, non solo di arbitro ma di attore, nella fornitura di servizi e assistenza, il mercato, lasciato alla logica dell’efficienza e del profitto, si è fatto beffa dei criteri di eguaglianza e giustizia. La sinistra liberal ha così, progressivamente, perso il consenso delle classi basse e medio-basse, che sono tornate ad essere subalterne. E queste non hanno trovato rappresentanza nell’altra sinistra che, astrattamente, si poneva al loro fianco (e alla loro testa), complice la mancanza di prospettiva politica e una più forte e chiara identità ideale e politica.
Se, però, oggi assistiamo al ritorno delle destre, con una rivincita che assume giorno per giorno i caratteri di una revanche epocale, non è solo grazie al potere “seducente” del loro messaggio populista, antiglobalista e protezionista (e razzista e suprematista). È il risultato del neoliberismo stesso, che la sinistra liberal continua ad accarezzare, purché questo sia guidato dal potere “regolatore” dello Stato. Se la democrazia liberale è in crisi, non è perché cattivi autocrati raccolgono il consenso delle masse frustrate, impaurite e “abbandonate”, ma perché il neoliberismo stesso ne ha svuotato le possibilità e le promesse, con il placet della sinistra liberal.
Se una visione alternativa può essere messa in campo, questa deve partire dal dato di fatto che le masse subalterne oggi esprimono una domanda di protezione e di riconoscimento, che il mercato “da solo” non funziona e a cui non si può supplire se manca la “politica” – da quella industriale a quella sociale, da quella per l’istruzione e la sanità a quella per l’assistenza. Una domanda di “sicurezza” che lo Stato sociale in via di smantellamento non offre più. Ciò che la sinistra liberal propone, su questo terreno, è vuoto, ed è su questo che la si deve incalzare, anche perché il suo consenso si è andato restringendo ai ceti medi “garantiti” e “protetti” che in misura molto minore risentono di quelle condizioni (anche se sul piano dei redditi e dei servizi, la “proletarizzazione” dei ceti medi ne ha ben affetto la percezione).
Tanto Floridia che Liguori, nei loro commenti, argomentano che bisogna essere “pratici”, ovvero porsi sul piano programmatico facendo di necessità virtù, con i meccanismi elettorali vigenti, cercando “alleanze” anche nella forma di “desistenza” o di accordi “per collegio”, perché ciò che conta, alla fine, è la rappresentanza (interessante è anche ciò che Floridia propone in un altro articolo). Se si rimane succubi del tema delle alleanze – «o si è d’accordo su tutto o niente» – non se ne esce: il “terzo polo” rimane un’utopia, nelle condizioni date (il consenso elettorale si costruisce non solo grazie alla rappresentanza parlamentare, ma anche in virtù dei media e della stampa, un circolo vizioso). Certo, il Movimento 5 Stelle è stato un esempio recente di affermazione di un “polo” terzo, grazie alla sua capacità di mobilitazione su questioni popolari e all’efficacia comunicativa di Casaleggio e Grillo. Ma quel consenso è stato sprecato, l’occasione storica che prometteva dissolta, producendo un vulnus che pagheremo a lungo.
Affermazioni del tipo «Rifondazione, una scelta contro la guerra» (Saccoman), purtroppo, hanno mostrato la loro debolezza, come ha evidenziato la vicenda della lista Pace, Terra, Dignità (peraltro boicottata da quella parte di RC che oggi fa della guerra un fattore dirimente e che, forse, oggi, potrebbe essere presente sul mercato elettorale se fosse stata aiutata a crescere). Chi sostiene che con il Pd un’alleanza – o finanche un qualsiasi accordo persino locale o regionale – non è possibile perché di fatto quello è funzionale alla destra, dovrebbe chiarire come si possa costruire un “polo” che si ponga alla sua alternativa. Non è infatti chiaro come si possa poi interloquire con quei settori sociali che si pongono l’urgenza di sconfiggere la destra e al tempo stesso di far avanzare politiche a favore delle fasce popolari e ambientaliste. E non è neppure chiaro come si possano raccogliere le forze in grado di costruire un “polo” che si ponga concretamente il tema dell’alternativa. Se la posizione di SI oggi appare per certi versi “strumentale” – l’appiattimento sulle posizioni del Pd è per molti versi incomprensibile – è anche vero che questa, sfruttando il meccanismo elettorale, si è posta come “garante” delle posizioni “di sinistra” nella coalizione, attraendo così quell’elettorato che, pur di non sprecare il voto, voleva comunque dare un sostegno. Con SI e lo stesso “rinnovato” M5S di Conte, però, potrebbe essere possibile una convergenza che abbia un taglio visibilmente più netto in senso popolare, anti-neoliberista e antifascista, pur dentro o affiancati a una coalizione che dovrebbe puntare a conquistare la maggioranza, costi quel che costi, per poi andare a discutere nel concreto sull’orientamento delle politiche e rimettere in sesto questo Paese disastrato a favore dei ceti popolari. Ci sono realtà dove RC ha coraggiosamente contrastato le derive del centrosinistra, guadagnando consensi, a dimostrazione che è possibile cambiare i rapporti di forza se non ci si isola in partenza pur senza abbracciare la linea dell’alleanza a tutti i costi. Certo, sul piano nazionale le questioni sono più problematiche a causa di una legge elettorale a turno unico che è stata pensata per imporre un bipolarismo forzato. Ma in questo caso, ragionando sulle alleanze “per collegio”, la stessa coalizione di centro-sinistra ne beneficerebbe, potendo raccogliere quel consenso aggiuntivo che le permetterebbe di affermarsi.
I modi, dunque, ci sono: convergenza programmatica su punti specifici, accordi di desistenza o funzionali per conquistare collegi, una rappresentanza più forte delle istanze “di classe” e popolari nella coalizione. Ragionarne non dovrebbe essere considerato tabù. E non importa se il PD non si “sposterà”: l’importante sarà ricacciare le destre nell’angolo, ribaltare le logiche neoliberiste che a tanta parte dell’elettorato del PD e non solo hanno portato solo perdita di benessere. Il congresso di RC ha riportato la possibilità di un cambio di passo, che non può che giovare al fronte antifascista e al Paese, portando nel confronto tematiche di classe, antiliberiste, contro la guerra, in modo più netto. Fare di SI, Verdi e 5 Stelle degli interlocutori privilegiati, partendo dall’assunto che «ci siamo anche noi, con la nostra visione del mondo, e possiamo contribuire alla coalizione». Un cambiamento culturale, che è però maturo nel Paese e nelle sue molte realtà associative – si pensi alle mobilitazioni sulla guerra o sulla Palestina o sull’autonomia differenziata e finanche sul referendum contro il Jobs act – che RC può farsi carico di portare nel dibattito. RC esiste se quella realtà viva trova ascolto. Ma la si faccia esistere anche nelle istituzioni, facendo buon uso delle regole vigenti per entrarvi. Uscendo finalmente dal ghetto purista e autoassolutorio per dare voce a chi si pretende di rappresentare ma a cui non si dà speranza.
Pier Giorgio Ardeni