articoli, recensioni

I carnefici del duce. Crimini, impunità e autoassoluzione degli italiani

di Alessandro
Scassellati

1. Lo storico Eric Gobetti ha scritto un libro importante e di facile lettura, I carnefici del duce1, che ci interroga sul perché l’Italia non ha ancora “fatto i conti con il suo passato più oscuro, con le responsabilità del fascismo e le brutali violenze commesse in nome di quella ideologia” (p. 3). A distanza di decenni dagli eventi, l’Italia ufficiale e istituzionale non ha ancora dimostrato di sapersi assumere la responsabilità dei propri errori storici, di saper prendere le distanze da pratiche politiche e militari inaccettabili caratterizzate da crimini di guerra e contro l’umanità in Africa (Eritrea dal 1882, Somalia dal 1889, Libia dal 1911, Etiopia dal 1935 al 1941), Francia, Grecia, Slovenia, Montenegro, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Albania (ci sono anche da aggiungere i bombardamenti a tappeto dei civili condotti dall’aeronautica fascista insieme alla Legione Condor tedesca su Barcellona e Guernica durante la guerra civile in Spagna). Si stima che almeno un milione fra resistenti e vittime inermi, sono morte a causa della politica espansionista condotta dal regime fascista2.
“Nessuno ha mai avuto il coraggio di spiegare all’Italia che quand’era fascista ha commesso gravi crimini, e che sarebbe ora di riconoscerli e di chiedere scusa” (p. 10). Solo nel 1997, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in visita in Etiopia, definì l’occupazione coloniale italiana un crimine, negando così il mito degli “italiani brava gente” e riconoscendo le responsabilità coloniali italiane. Ma ancora nel marzo 2009, a ridosso della ratifica da parte del governo italiano del trattato di amicizia e cooperazione fra Italia e Libia, da un sondaggio promosso da Sky TG24 emerse che il 74% delle migliaia di risposte giunte alla redazione erano negative riguardo alla domanda: “Secondo te, è giusto che l’Italia chieda scusa e risarcisca la Libia per il proprio passato coloniale?” Solo il 26% si pronunciava favorevolmente.

Gobetti ha scritto questo libro per contribuire al riconoscimento istituzionale dei gravi crimini commessi dall’Italia fascista e, prima di tutto, per “contribuire alla conoscenza e alla diffusione della consapevolezza di quelle tragedie nell’opinione pubblica italiana” (pp. 10-11), valorizzando il proprio lavoro decennale di ricerca sull’invasione italiana della Jugoslavia e quello di un gruppo di storici coraggiosi – Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Teodoro Sala, Angelo Del Boca, Matteo Dominioni, Paolo Fonzi, Davide Conti e altri -, i quali per decenni hanno dovuto affrontare difficoltà accademiche, politiche e mediatiche (spesso sono stati oggetto di accuse sistematiche e di tentativi di delegittimazione e censura) semplicemente perché hanno cercato di aumentare la conoscenza della realtà fattuale, facendo uscire dall’oblio i crimini di guerra fascisti.
“Il mio dovere, da storico, è quello di capire, spiegare, offrire strumenti per comprendere il passato ed eventualmente contribuire a migliorare la società futura” (p. 12). In particolare, Gobetti è interessato a “interrogarsi sulle ragioni, sulla mentalità, sui condizionamenti sociali che hanno spinto tanti (troppi) italiani a prendere parte a quei crimini. Militari e dirigenti politici, generali e soldati, funzionari, poliziotti, intellettuali hanno condiviso il modello politico fascista e hanno commesso crimini in nome di quei valori e per conto di quel regime. La domanda che intendo pormi non è se tali individui fossero realmente dei criminali, ma perché hanno commesso crimini, dato che non erano criminali. Queste persone infatti non facevano i ladri, i rapinatori o i killer di mestiere, alcuni erano ufficiali di carriera, professionisti della guerra, ma la maggioranza era composta da gente comune mandata al massacro e a massacrare. E hanno fatto proprio questo: massacrare (anche) civili inermi. Perché? Cosa li ha spinti a diventare criminali? Cosa li ha spinti ad infrangere non solo le leggi di guerra, ma anche la legge morale, quel senso di solidarietà umana che probabilmente condividevano con le loro vittime? È tutta colpa del contesto di violenza in cui si trovavano a operare, come molti di loro hanno sostenuto in seguito, o c’è qualcosa di più dietro i loro comportamenti? E come mettere in relazione tali attività con analoghe operazioni repressive condotte dalle forze d’occupazione in ogni contesto di guerra? C’è qualcosa di speciale, di unico, nelle violenze commesse dagli italiani negli anni del fascismo? Questo libro è dedicato alle vicende di quegli uomini e vuole provare a dare una spiegazione storica al loro operato” (p. 12).
Gobetti vuole cercare di comprendere queste tragiche figure nel contesto storico, geografico, politico e bellico per spiegare la loro banale, quotidiana crudeltà. “Molti di questi uomini sono stati infatti banali carnefici, ma al tempo stesso anche vittime. Vittime della guerra, vittime di un’ideologia, di un pensiero politico e culturale; vittime, in definitiva, anche di se stessi” (p. 13). Non essendo mai stati condannati da un tribunale, “hanno conservato anche in seguito la sensazione d’innocenza, l’idea di non aver commesso nulla di male, di non essersi macchiati di alcun crimine, di essere stati anche vittime. Tutto ciò di fronte all’evidenza dei fatti” (p. 13).
Gobetti riconosce che vi sono state responsabilità diverse (i generali davano ordini criminali, mentre i sottoposti li eseguivano) e, allo stesso tempo, sottolinea che vi furono anche dei “giusti”, coloro che consapevolmente cercarono di opporsi alle pratiche violente e al sistema criminale fascista. Non solo gli antifascisti (in galera, in esilio o al confino), ma “anche nei territori di guerra c’era chi, a rischio della vita, denunciava, criticava, cercava di limitare i danni, offriva aiuto e conforto alle vittime o addirittura sceglieva di schierarsi dalla parte di chi combatteva l’esercito invasore” (p. 13). Gobetti ripercorre le vicende del comunista Ilio Barontini3; del capitano Roberto Lontano incaricato della difesa d’ufficio del comandante della resistenza libica, Omar al-Mukhtar, processato sommariamente e condannato a morte come bandito nel 19314; del console italiano a Mostar in Erzegovina Renato Giardini, presto allontanato per le sue relazioni che criticavano la strategia violenta di occupazione; di Eugenio Mazzucchetti, comandante del campo di concentramento di Danane, non lontano da Mogadiscio; del giovane sarto Umberto Graziani che prima dirige il laboratorio di cucito nel campo di concentramento di Arbe e poi sceglie la via della resistenza jugoslava, unendosi alla brigata Rab, costituita dagli ex internati del lager. Inoltre, riconosce che tra la fine del 1942 e l’estate del 1943 “sono migliaia gli ebrei rifugiati nei territori occupati in Jugoslavia, Grecia e Francia che vengono salvati dallo sterminio grazie all’intervento delle autorità civili e militari italiane, che rifiutano di consegnarli ai tedeschi come aveva inizialmente previsto Mussolini” (p. 43). Infine, furono decine di migliaia i soldati e ufficiali dell’esercito italiano che dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di cedere le armi ai tedeschi e con le divisioni “Garibaldi” e “Italia” in Jugoslavia, con il battaglione “Gramsci” in Albania e nelle formazioni dell’ELAS in Grecia combatterono contro i nazifascisti a fianco dei partigiani jugoslavi, greci e albanesi.
Gobetti non intende fare processi, ma limitarsi a mostrare i crimini compiuti in nome dell’Italia fascista e cercare di capire perché sono stati commessi. Non vuole condannare né assolvere gli uomini, ma cercare di capire quali idee li animavano, li spingevano al crimine. Idee basate su militarismo, nazionalismo, maschilismo, suprematismo e razzismo, culto della gerarchia e della violenza, disprezzo per la debolezza e per la marginalità che formavano una mentalità, una ideologia e un modello politico, quello fascista intriso di odio, violenza e sopraffazione, che favoriva gli spietati, i sadici, i violenti. “Le idee sì, le possiamo, le dobbiamo condannare. Perché quelle idee, se considerate innocenti, rischiano di tornare alla ribalta, e spingere noi oggi, i nostri figli o i nostri nipoti domani, a commettere nuove prevaricazioni, nuove violenze, nuovi crimini” (p. 15).

2. Mentre in Germania e Giappone, i principali paesi alleati dell’Italia fascista, i vincitori della seconda guerra mondiale hanno celebrato i processi di Norimberga e di Tokyo, per giudicare e condannare i più importanti dirigenti politici e militari, e in Germania decine di migliaia di solerti esecutori del nazismo hanno subito dei processi5, in Italia nessuno, né gli alleati vincitori né la classe dirigente democratico-repubblicana, ha pensato di tenere un procedimento giudiziario volto a condannare globalmente i fascisti e i loro crimini.
La spiegazione di questo “insabbiamento” giudiziario (un vero e proprio “colpo di spugna”), come sempre, è politica e ha a che fare con la Guerra fredda, la vicenda geopolitica che ha condizionato tante dimensioni della storia politica, economica e culturale dell’Italia del dopoguerra, il paese di confine tra i due blocchi contrapposti con il più grande Partito comunista dell’Europa occidentale. L’articolo 45 del trattato di pace sottoscritto il 10 febbraio 1947 a Parigi, prevedeva per l’Italia l’arresto dei presunti criminali di guerra e l’estradizione verso i paesi che ne avessero fatto richiesta. “Con un’abile strategia diplomatica il governo italiano riuscì tuttavia a dilazionare e poi evitare la consegna dei circa 1.100 inquisiti nei paesi che avevano subìto le occupazioni fasciste [la lista della Jugoslavia comprendeva quasi 750 persone]. Le autorità postbelliche ritenevano soprattutto essenziale evitare di giudicare i militari accusati di crimini di guerra commessi in paesi divenuti poi socialisti, come nel caso della Jugoslavia. E così, con l’inizio della Guerra fredda, il rapido mutamento dei rapporti internazionali e il supporto essenziale delle potenze occidentali, il giudizio e l’eventuale punizione di questi criminali sfumò per sempre. Contemporaneamente, le autorità italiane rinunciavano a pretendere la consegna dei tedeschi responsabili di stragi sul nostro territorio. Quelle indagini, frettolosamente archiviate negli anni Cinquanta, sono poi tornate alla ribalta solo nel 1994 con la riapertura del cosiddetto ‘armadio della vergogna’” (p. 4).
L’Italia riesce a sottrarsi ai suoi obblighi anche grazie a una ingegnosa manovra: “l’istituzione di una commissione d’inchiesta interministeriale che ha l’obiettivo di scagionare il maggior numero possibile di inquisiti. L’obiettivo dichiarato è quello di eludere le richieste di estradizione ‘provvedendo noi stessi ad esaminare i casi in base alle disposizioni del nostro Codice Militare’. In questo modo ‘fu possibile opporsi alle pretese di consegna sino al momento in cui questa questione venne dai vari governi lasciata praticamente cadere’ e la commissione finì per archiviare tutti i casi rimasti aperti” (p. 58).
D’altra parte, in Italia, non solo non sono stati perseguiti i criminali di guerra, ma anche il processo di epurazione dell’apparato di potere fascista è stato rapido e, per usare un eufemismo, lacunoso. Tra amnistie, leggi e il realismo della Guerra Fredda anticomunista incombente, la classe dirigente sia di governo che d’opposizione, ha voluto rapidamente  dimenticare, inglobando gli ex fascisti. “Le Corti d’assise straordinarie istituite nel dopoguerra hanno condannato in totale 5.928 persone, di cui 91 giustiziate. Si trattava però di crimini di ‘collaborazionismo’ con i tedeschi, compiuti dunque negli ultimi due anni di guerra [quelli della Repubblica di Salò], e non riguardavano reati commessi in precedenza. Molti dei condannati hanno poi approfittato della cosiddetta ‘amnistia Togliatti’, emanata dall’allora ministro della Giustizia il 22 giugno 1946, e sono stati scarcerati dopo pochi mesi” (p. 5)6. Mentre centinaia di partigiani sono stati perseguiti e condannati per azioni compiute durante la lotta di Liberazione, derubricate a reati comuni, “in nome della ‘continuità dello Stato’, molti funzionari del regime erano tornati a ricoprire incarichi di potere nell’esercito, nella magistratura, nella polizia e in generale in tutti gli organi amministrativi” (p. 5). Nel contesto della contrapposizione della Guerra fredda, la classe dirigente italiana e gli alleati occidentali “ritenevano più urgente contrastare i comunisti piuttosto che condannare i fascisti sconfitti. Appariva anzi necessario creare un ampio fronte politico e sociale che includesse alcuni dei protagonisti della stagione precedente, il cui schieramento ideologico era inequivocabilmente anticomunista” (pp. 5-6).

3. Il sostanziale fallimento del processo di epurazione, la mancata condanna delle gerarchie fasciste, il predominio politico e culturale dell’opzione anticomunista nel dopoguerra hanno contribuito alla “rimozione delle responsabilità della classe dirigente italiana nel Ventennio” (p. 6). Gobetti sottolinea amaramente come le conseguenze di questa scelta politica di “pacificazione” siano state molto rilevanti per l’identità nazionale e democratica italiana che continua a rifuggire dall’accettare sia il passato coloniale (in parte di pertinenza dell’Italia liberale) per la conquista di “un posto al sole” sia quello criminale fascista nei Balcani durante la seconda guerra mondiale. “Fin dai primi anni del dopoguerra il regime fascista è stato rappresentato nei mass media mainstream come una dittatura soft, poco repressiva, per di più sostenuta da un consenso di massa. Al tempo stesso la mancata estradizione degli indagati per crimini commessi all’estero ha contribuito a scagionare l’esercito da ogni responsabilità e a rafforzare il mito degli ‘italiani brava gente’. Si tratta di una narrazione autoconsolatoria, secondo la quale i militari italiani si sarebbero comportati ovunque civilmente, in maniera umana, mai brutale, mentre avrebbero subìto a loro volta violenze e soprusi da parte di altri contendenti: i partigiani dei territori occupati e i nazisti dopo l’Armistizio. Questa costruzione simbolica, supportata da intellettuali e politici di tutti gli schieramenti, aveva l’intento di ricompattare un paese devastato dalla guerra (anche civile), ma si è rapidamente imposta come uno dei pilastri della nostra identità nazionale, ed è tuttora predominante nell’immaginario collettivo” (p. 6).
Inglobare gli ex fascisti, servirsene, scagionarli, assolverli, autoassolverci (costruendo l’immaginario del “bravo popolo italiano” innocente, non razzista, dotato di una capacità costruttrice e civilizzatrice, ma vittima del suo stesso regime, degli eventi e di un esercito di “buoni soldati”, forse “troppo buoni” per vincere la guerra), rimuovere e dimenticare il loro/nostro passato criminale, ricominciare, fino ad arrivare, con la fine della Guerra fredda e il crollo del “comunismo reale” sovietico (grazie al quale è stata vinta in Europa la seconda guerra mondiale sui regimi nazi-fascisti con 27 milioni di morti russo-sovietici), ad un revisionismo che condanna sul piano politico e morale le violenze del fronte antifascista (di cui i comunisti facevano parte), ormai equiparate a quelle fasciste – con l’insistenza retorica sulla “resa dei conti”, il “sangue dei vinti”, la costruzione di una “memoria condivisa”, e la “condanna dei totalitarismi” (per cui nazismo, fascismo e comunismo sono messi sullo stesso piano, come avvenuto con una recente deliberazione del Parlamento europeo) – di cui però si continua a sapere poco o nulla.
Uno dei paradossi di questa deliberata amnesia collettiva nazionale è rappresentato dall’istituzione nel 2004 del “Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo”, con una legge fortemente voluta dagli eredi del partito neofascista fondato da molti ex criminali di guerra (come Rodolfo Graziani, Alessandro Pirzio Biroli e Giuseppe Pièche) nel 1946. “L’uso ideologico e strumentale della vicenda delle foibe è infatti particolarmente emblematico di questo capovolgimento di prospettiva nell’approccio pubblico alla memoria della seconda guerra mondiale. In questo caso la condanna istituzionale è totalmente rivolta alla Resistenza, mentre nessun riferimento viene fatto, nel testo della legge istitutiva, alle precedenti politiche oppressive fasciste né alle stragi dell’esercito italiano in quegli stessi territori. Si giunge così al paradosso di capovolgere le responsabilità della guerra e il senso degli avvenimenti, rappresentando gli aggressori fascisti come vittime innocenti e i partigiani jugoslavi come colpevoli di un’invasione ai danni dell’Italia e di un piano di sterminio nazionale” (pp. 7-8). La vicenda delle foibe ha favorito, negli ultimi 20 anni, un vero corto circuito memoriale, “per il quale i fascisti invasori finiscono per essere identificati con le vittime inermi delle foibe, giustificando così gli aggressori e condannando gli aggrediti” (p. 15), i partigiani che lottavano per la liberazione delle proprie terre e venivano considerati dei “banditi” dall’esercito invasore italiano in quanto privi di uniformi chiaramente distinguibili. 

4. Il libro di Gobetti racconta la storia di violenza del regime fascista attraverso i percorsi biografici di alcuni dei protagonisti – come il generale Alessandro Pirzio Biroli, il generale Rodolfo Graziani, il maresciallo Pietro Badoglio, il promotore della rete del fascismo internazionale Eugenio Coselschi, l’agente dei servizi segreti e futuro comandante generale dell’arma dei carabinieri Giuseppe Pièche, il generale Mario Roatta, il giornalista Indro Montanelli, il generale Mario Robotti, il sergente maggiore Mario Boaglio, il comandante della divisione Granatieri di Sardegna, poi comandante generale dell’arma dei carabinieri e poi segretario generale del ministero della Difesa Taddeo Orlando, il cappellano militare Pietro Brignoli -, focalizzando in particolare l’attenzione sull’invasione italiana della Jugoslavia e sulla repressione spietata della rivolta/resistenza contro l’esercito occupante, con decine di migliaia di vittime, in gran parte civili tra il 1941 e i primi mesi del 19437. È qui che viene applicata compiutamente una strategia oppressiva – con le tecniche antiguerriglia – già sperimentata in ambito coloniale dagli stessi vertici militari dell’esercito italiano (i crimini commessi dall’esercito italiano in Africa sono certamente più gravi, anche grazie all’uso di armi chimiche in Etiopia e in Libia, al razzismo e alle pratiche genocidarie, l’intensità della violenza è maggiore, il cinismo degli esecutori più evidente), “quei metodi quali la deportazione e l’internamento, il saccheggio e la devastazione, la cattura degli ostaggi e la rappresaglia raggiungono la loro applicazione più ampia, in termini numerici, ma soprattutto come codificazione, come regola” (p. 14). Nel marzo del 1942, il generale Mario Roatta emana la Circolare 3c, un documento di quasi 200 pagine, “un vero e proprio manuale di antiguerriglia […] il risultato finale di un approccio scientifico alla repressione” (p. 68) che definisce le pratiche di gestione del territorio, della repressione e dei rapporti con le popolazioni locali. “La lotta che conduciamo non è un duello” si afferma nell’introduzione, “ma è una lotta paragonabile invece a quella coloniale, in cui conviene dare all’avversario la sensazione netta ed immediata della nostra superiorità, e della inesorabilità della nostra reazione”. Nei confronti dei ribelli non bisogna avere alcuna pietà: “Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato nella formula ‘dente per dente’ ma bensì da quella ‘testa per dente’”. E ancora, si precisa che “eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti”.
D’altra parte, già il 2 agosto 1942 il generale Pirzio Biroli, comandante dei reparti in Montenegro, aveva scritto ai comandi sottoposti: “I popoli della penisola balcanica rispettano soltanto chi è forte; hanno bisogno di un trattamento forte, come tutti i popoli rozzi e primitivi. Sono finiti i tempi della favola dell’italiano buono! Egli è soprattutto un guerriero! […] Non impietositevi della miseria del popolo la cui terra voi occupate. Questa miseria è stata voluta dallo stesso popolo montenegrino. Odiate questo popolo. Ammazzate, fucilate, incendiate e distruggete questo popolo”. Tutti i civili sono percepiti come possibili nemici e potenzialmente solidali con la Resistenza, a meno che non dimostrino il contrario, collaborando apertamente con gli occupanti italiani. Si fucilano partigiani e civili (comprese donne e bambini) senza alcun giudizio o con giudizi sommari e anche con la logica delle decimazioni (con il comandante delle truppe in Slovenia, il generale Mario Robotti, che si lamenta perché ritiene che “si ammazza troppo poco”), si incendiano le case e radono al suolo paesi (come Podhum a pochi chilometri da Fiume il 12 luglio 1942), si razziano cibo e bestiame e si saccheggiano le case (razzie e accaparramenti che per i soldati sono bottino di guerra e alimentano il mercato nero), si torturano i prigionieri, si stuprano le donne e le si spingono a prostituirsi, si fanno deportazioni di massa e si tollera la pulizia etnica (con 65 mila morti) praticata dai nazionalisti cetnici serbi armati dagli italiani. Comandanti militari e funzionari amministrativi cercano la collaborazione di una parte dell’élite locale, offrendo prima di tutto un’alleanza militare in funzione antipartigiana. Collaborano con forze di polizia, strutture amministrative preesistenti, spie e delatori di vario tipo, ma anche con importanti esponenti delle élite civili, militari, economiche e religiose (pope, vescovi e imam). Soprattutto, collaborano con i nazionalisti croati (ustascia), serbi (cetnici), sloveni e perfino bande confessionali musulmane bosniache sempre in funzione antipartigiana (per operazioni militari al fianco delle truppe italiane) e seguendo la logica del divide et impera per alimentare e sfruttare gli odi secolari tra i diversi gruppi etnici.
I crimini fascisti in Jugoslavia vengono commessi nel cuore dell’Europa, vicino all’Italia o addirittura in alcuni casi in territori che sono diventati parte dell’Italia in quanto all’epoca annessi8. “Tanti luoghi della memoria delle violenze italiane si trovano a pochi minuti di macchina da Trieste. Quei crimini non sono solo un ‘elefante nella stanza’: sono l’elefante dentro la nostra stanza. Non possiamo ignorarli’ (p. 14). Eppure finora l’abbiamo fatto: sono caduti nell’oblio della nostra memoria pubblica, assenti nella cinematografia, nella divulgazione televisiva, nella manualistica scolastica e soprattutto nelle politiche memoriali. Non c’è mai stato un riconoscimento ufficiale delle violenze commesse dagli italiani in Jugoslavia e nessun importante rappresentante delle istituzioni repubblicane ha mai fatto visita al campo di concentramento di Arbe [l’isola di Rab] per fare un esempio fra i tanti, forse il più ovvio” (pp. 14-15).

5. L’Italia fascista è praticamente sempre stata coinvolta in conflitti armati di aggressione, dalle prime operazioni di riconquista della Libia nel 1922, fino alla repressione antipartigiana nel 1943-1945. Il regime era disposto a usare qualunque mezzo necessario per mantenere il potere e per costringere alla resa i popoli soggetti alle conquiste.
Ovviamente, per sostenere questo sforzo aveva bisogno di solerti esecutori materiali, soldati e funzionari. Si calcola che durante la seconda guerra mondiale circa 850 mila militari italiani siano stati impiegati con compiti di occupazione e antiguerriglia in Francia, nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo, circa la metà delle truppe di terra disponibili. Altre centinaia di migliaia di soldati hanno partecipato in precedenza alle operazioni in Libia, Spagna, Etiopia e nelle altre colonie africane. Sommando ai militari di leva le forze di polizia, i volontari, i funzionari civili, gli impiegati, i coloni e le rispettive famiglie, “possiamo dire che buona parte della società italiana è stata coinvolta, direttamente o indirettamente, in questa storia di violenza. L’oppressione delle popolazioni soggette alle occupazioni italiane in epoca fascista non è un fenomeno marginale o estemporaneo: è storia di tutti, fa parte o dovrebbe fare parte a pieno titolo della storia d’Italia’” (p. 138).

Alessandro Scassellati

  1. Editori Laterza, Roma-Bari 2023.[]
  2. Secondo calcoli recenti l’esercito italiano sarebbe responsabile, direttamente o indirettamente, della morte di 250 mila jugoslavi, 100 mila greci, 500 mila etiopi e 100 mila libici.[]
  3. Livornese, Ilio Barontini, classe 1890, è tra i fondatori del partito comunista italiano, esule in Francia dopo la condanna da parte del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, negli anni Trenta diventa un militante internazionalista. Si forma in Urss, poi combatte in Cina nella resistenza antigiapponese con Mao Zedong e in Spagna nelle brigate internazionali. Alla fine del 1938 viene inviato dal Komintern in Etiopia con altri due attivisti. Per più di un anno opera al fianco dei partigiani etiopi, offrendo la sua esperienza come propagandista, organizzatore politico e comandante militare. Rientrato in Italia nel 1943, Barontini è tra gli organizzatori della resistenza armata in diverse città del Nord Italia (Milano, Torino e Bologna). Diventa parlamentare del PCI e muore in un incidente stradale nel 1951.[]
  4. Lontano, durante la requisitoria, aveva sostenuto le ragioni patriottiche del leader ribelle, che considera l’invasore un nemico e ritiene “suo diritto di resistergli con tutte le sue forze”. Per questo venne condannato a 10 giorni di cella di rigore.[]
  5. Nella zona di occupazione sovietica in Germania si contano 150 mila procedimenti penali, con centinaia di condanne a morte, mentre nella zona occidentale i tribunali alleati hanno condannato migliaia di persone e giustiziato 486 colpevoli, tra cui 12 donne. Dopo la creazione delle due Germanie, i soli tribunali federali hanno giudicato 16.740 cittadini tedeschi imputati per crimini di guerra e contro l’umanità, condannando 5.656 persone, di cui 16 a morte e 166 all’ergastolo. Per quanto riguarda il Giappone, i processi durarono fino al 1955, con circa 10 mila procedimenti e centinaia di condanne alla pena capitale (pp. 3-4).[]
  6. Il generale Rodolfo Graziani utilizzò i gas sia in Cirenaica sia in Etiopia, insieme a Pietro Badoglio, venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con i tedeschi nell’ambito della Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Per lui è stato costruito un sacrario nel 2012 ad Affile, in provincia di Roma, a spese dell’amministrazione comunale.[]
  7. Nell’aprile 1941, l’intervento tedesco salva l’Italia da una clamorosa sconfitta militare e conduce in pochi giorni alla resa della Jugoslavia (17 aprile) e della Grecia che l’esercito italiano aveva invaso in modo disastroso nell’ottobre 1940.[]
  8. Il 17 aprile, il giorno in cui la Jugoslavia firma la resa con l’esercito tedesco-italiano, le autorità fasciste assumono il controllo di circa un terzo del paese. Alcuni territori vengono annessi, come la provincia di Lubiana nella Slovenia centro-meridionale e la province di Spalato e di Cattaro nella Dalmazia meridionale (oggi parte del Montenegro), mentre altre vengono ampliate come le province di Fiume e Zara, altri territori vengono attribuiti all’Albania, già inclusa dal 1939 nel sistema di potere italiano attraverso un’unione dinastica alla corona dei Savoia, infine altri vanno alla Croazia collaborazionista del regime fascista degli ustascia di Ante Pavelic, responsabile dello sterminio di decine di migliaia di ebrei e rom e di almeno 300 mila serbi.[]
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