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Guerre, defezioni e tradimenti

di Giancarlo
Scotoni

Nel caso della guerra persino il ragionare è una sfida razionale e psichica, perché si viene investiti da emozioni istintive, profonde e molto forti. Sono emozioni personali che però hanno anche una dimensione collettiva, sociale, e che si esprimono  anche in forma di richiami all’appartenere (ovvero al costituirsi in una delle diverse appartenenze). La guerra riesuma in noi questo armamentario quando la percepiamo vicina, quando ci diventa impossibile esorcizzarla con giudizi distaccati. Anche in questo senso la guerra è una maledizione che ci fa arretrare nel nostro sviluppo, morale e psichico, dove invece la pace è una condizione sempre raggiunta, sempre costruita e non una vittoria sul quel riflesso di noi stessi che è l’altr@.

Quanto più la corrente di emancipazione umana si è fatta carico concretamente di un bene universale tanto più ha espresso il rifiuto della guerra. Anche i movimenti operai e socialisti dell’ottocento non hanno fatto diversamente. Tra essi il materialismo storico ha influenzato fortemente la tendenza pacifista perché ha individuato l’origine delle guerre nella lotta tra le classi –cioè nel capitalismo-. In tal modo ha fornito alla diserzione dalla guerra una sua connotazione positiva e ha consentito di stabilire un nesso tra diserzione, sconfitta degli eserciti e rivoluzione sociale.

La guerra è espressione delle contraddizioni borghesi/capitalistiche; dunque sia detto “Proletari di tutti i Paesi, unitevi” perché l’uguaglianza e la fraternità possono prevalere superato il capitalismo, sconfitta la borghesia. Pochi sono gli appelli più internazionalisti e pacifisti che però a differenza di altri (ad esempio quelli morali e religiosi) riconoscono al conflitto motivi concreti e, anzi, richiedono la sua esplicitazione e lo organizzano nel suo svilupparsi.

Ci si potrebbe azzardare a dire che per il materialismo storico che ha concretamente guidato tanta azione si possa parlare di una pace in potenza, di un punto di realizzazione insito nella propria genetica. Ma il principio della pace tra gli oppressi è stato condiviso anche da altre correnti nel movimento accompagnando mobilitazioni e lotte civili, guerre e conflitti. I problemi e le contraddizioni che l’agire pone non si fanno risolvere fuori dalla storia e dalla sua dimensione concreta: si presentano come interrogativi e sfide ai movimenti stessi, alle loro fondamenta costitutive e alla loro prassi.

Qui non si intende dipanare alcun dilemma; ma siccome avviene che nel dibattito bellicista di queste settimane si tenda per motivi strumentali ad associare la Federazione Russa di Putin all’Unione Sovietica e a degli eventi in grado di sollevare (o rinfocolare) indignazione. Ci riferiamo in primo luogo al Patto Molotov-von Ribbentrop  e poi, risalendo all’indietro nel tempo, alla pace di Brest-Litovsk e –tutto sommato-  anche alla posizione contro la guerra assunta dalla sinistra internazionalista.

Non che questi argomenti siano particolarmente centrali nella propaganda interventista di oggi; ma forse è utile cogliere l’occasione per descrivere i fatti a cui ci si richiama decontestualizzandoli e isolandoli. Non se ne ricaverà un’altra verità, ma forse si contribuirà a ricordare e a tenere presente questioni che, se non si possono piegare a scopi propagandistici, non si possono nemmeno seppellire se non rinunciando a dare senso al percorso che ci ha preceduti e -forse- a superarlo.

Proponiamo dunque di riflettere sull’ambigua posizione che l’Europa occidentale ha spesso tenuto in merito alla Russia: indispensabile argine alle mire napoleoniche (ma prima dell’invasione una pace l’aveva pur firmata), covo della reazione e negazione del principio di nazionalità (nell’ottocento democratico), benigno orso contro le potenze centrali nella prima guerra mondiale, poi fedifraga con la pace di Brest-Litovsk, maligna alleata dei nazisti e poi salvifica potenza vincitrice… Faremo dunque riferimento a tre “tradimenti” pretesi, ma cercheremo anche di notare alcuni aspetti storici della relazione fra comunismo e guerra e di come per un certo periodo il metro su cui misurare il ruolo della Russia nella storia europea sia sostanzialmente difforme dall’applicazione stretta dei principii della geopolitica.

Oggi quella parentesi si è chiusa e l’aggressione putiniana all’Ucraina si presenta pienamente nell’alveo di un militarismo nazional-imperialista. Perciò, se l’indignazione non ci soffoca, sono da demolire i tentativi di stabilire continuità e nessi tra il presente e la storia della rivoluzione russa. Anche il nesso costituito dai  pretesi “tradimenti” che sono al centro dell’attenzione qui: la pace separata con le potenze centrali e il patto con Hitler. A questi, riferiti alla responsabilità del regime comunista se ne aggiungono altri, relativi alla Russia degli zar.

Sul patto Molotov-Ribbentrop riporteremo alcune opinioni di Liddle Hart, teorico e storico di guerre: ci aiuteranno forse ad approfondire ulteriormente una  riflessione che sta sospesa a quanto e come sapremo sviluppare la nostra lotta contro la attuale guerra mondiale che ora è giunta in Ucraina.

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Nell’indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai, la prima internazionale, Marx scriveva “[Le classi operaie] devono capir i misteri della politica internazionale, vigilar gli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi all’occorrenza con tutti i mezzi in loro potere, e, se non possono fermarli, coalizzarsi per denunciar tal attività e rivendicar le semplici leggi della morale e del diritto che dovrebbero regolar i rapporti superiori fra le nazioni come i rapporti degli individui.”

Qualche anno dopo la sconfitta militare nella guerra franco-prussiana nacque la Comune di Parigi con il suo carattere sovversivo per l’ordine sociale e per la guerra: tra i nemici in campo fu immediato l’accordo per soffocarla. Nellle motivazioni per l’abbattimento della colonna Vendôme, eretta sotto Napoleone Bonaparte nel 1810, si legge:  “un monumento di barbarie, un simbolo di forza bruta e di falsa gloria, un’affermazione del militarismo, una negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai vinti, un attentato perpetuo a uno dei tre grandi principi della Repubblica francese, la Fraternità”.

Nel 1905 l’insurrezione in Russia legò le parole d’ordine dell’uguaglianza sociale e politica al rifiuto della guerra scoppiata con il Giappone.

La seconda internazionale -che aveva sviluppato la riflessione sulla trasformazione sociale, sullo stato e sul potere- per quanto riguarda la guerra fu con diversi accenti ma in maggioranza per il rifiuto sia a Stoccarda nel 1907 che a Basilea nel 1912, un anno dopo le grandi manifestazioni contro la guerra in Libia che si svolsero in Italia.

La seconda internazionale uccise grandi speranze quando le componenti francese, inglese, tedesca e austriaca votarono nell’agosto del 1914 i rispettivi crediti di guerra. Al parlamento tedesco Karl Liebknecht fu il solo a votare contro.

Nel settembre del 1915 alla conferenza di Zimmerwald dopo l’adozione di un documento di Trotsky per una “pace senza annessioni” passò la formula “nè aderire nè sabotare” ma venne formulata anche quella di Lenin “trasformare la guerra imperialista in guerra di classe” che nell’aprile successivo alla conferenza di Kienthal divenne maggioritaria. Questa parola d’ordine leninista fu ripresa dal discorso di Liebknecht e non va intesa alla luce degli sviluppi successivi: si intente guerra sociale e di sovversione, non di campagne militari.

Ma il terreno militare si intrecciò strettamente con la rivoluzione sovietica, anzi le disastrose campagne dello zar contro le potenze centrali, specialmente contro i tedeschi, ne furono il maggior presupposto. La strategia tedesca si basava su una rapida vittoria in Francia e su un iniziale mero contenimento dell’esercito russo che si prevedeva avrebbe richiesto mesi per la mobilitazione e il concentramento. Le cose andarono al rovescio: una mancanza di sicurezza nell’esecuzione invalidò le basi per l’attuazione del piano a occidente e consentì ai francesi di salvare Parigi. A Oriente, ancor prima che l’offensiva su Parigi si arenasse, le relativamente scarse forze germaniche travolsero e causarono il tracollo dell’esercito zarista tra fine agosto e settembre del 1914. Da quel momento l’esercito zarista, dopo essere arretrato notevolmente, non riuscì a fare altro che mantenere le posizioni mentre il perdurare dello sforzo bellico aveva effetti disastrosi sulla condizione interna della Russia.

Le potenze dell’Intesa avevano contato moltissimo sul ruolo dello sterminato esercito russo a est (il rullo compressore). Aveva fatto certo gioco in quel momento dimenticare l’arretratezza della società russa, la schiavitù della gleba e la nobiltà corrotta e marcia, l’assolutismo e il dispotismo. Anche con Napoleone le cose erano andate così… E chissà se nelle illusioni occidentali la condizione servile dei contadini russi non apparisse garanzia del loro ordinato e obbediente marciare in divisa. Grande costernazione, dunque  ed ecco il primo “tradimento” delle illusioni occidentali sulla Russia zarista… o no?

In Russia già dopo la rivoluzione di febbraio il terreno dello scontro militare si imponeva con il tentato colpo di stato del generale Kornilov tra l’agosto e il settembre del 1917. Il governo Kerensky non intendeva deflettere dal suo impegno con gli alleati e questa fu una delle cause che resero possibile il suo rovesciamento e che coagulò una serie di forze controrivoluzionarie che andavano dai reazionari zaristi ai democratici ai socialisti.

La storia della guerra civile in Russia (1917-1922)1 è aggrovigliata ma si può dire che attorno alla defezione dalla guerra cristallizzò anche l’odio di classe per i contadini che rifiutavano la guerra (e la frusta) e anche per la popolazione ebraica contro la quale furono organizzati pogrom. Con minor odio per contadini ed ebrei, ma nell’intenzione di mantenere le cose più o meno al loro posto  vi furono coloro che aspiravano a mantenere la Russia, riformata in senso democratico, tra le potenze alleate e che dunque volevano mantenersi in guerra. Inoltre ci furono insurrezioni di carattere indipendentista, contadino, etnico e anche operazioni di piccoli eserciti indipendenti, come la Legione Cecoslovacca2. Ma accanto al peso della guerra mondiale e di quella civile, l’eredità politica del dibattito internazionalista sulla guerra imperialista continuò a restare centrale tra i bolscevichi.

Dopo le insperate vittorie e la ritirata dell’esercito zarista, le potenze centrali avevano occupato la Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e ache parte della Transcaucasia dove accompagnata dai consiglieri tedeschi si era mossa la Turchia. Per le prime, che dipendevano direttamente dall’Impero tedesco, si sviluppò un piano esplicito per integrare quelle zone in forma di territori coloniali in Europa (la definizione è di Luddendorf) o, in prospettiva, di stati e regni satelliti trasformando i molti residenti tedeschi (volksdeutsch) in élite dirigenti di un percorso di civilizzazione germanica. Infatti già nel 1914 fu creata una struttura militare-organizzativa, l’Ober Ost (abbreviazione di Comando Supremo dell’Est). Il suo primo comandante fu Paul von Hindenburg, immeritato eroe della battaglia di Tannenberg3 con alle spalle il suo ispiratore e guida Erich Luddendorff.

La pace di Brest-Litovsk fu voluta tenacemente da Lenin a fronte di posizioni più irrealistiche che si appellavano a un immediato allargamento della rivoluzione verso i Paesi belligeranti. Al trattato di pace il governo bolscevico arrivò dopo che il suo appello a tutte le potenze belligeranti per un armistizio generale e una pace giusta e democratica restò inascoltato. Il 10 febbraio 1918 Trotsky annunciò la decisione russa di non combattere più e di smobilitare l’esercito. In risposta il 18 febbraio l’esercito tedesco riprese l’avanzata attraverso le ormai inconsistenti linee russe (Operazione Pugno).

Con la pace le potenze centrali acquisirono la Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la lFinlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia. Per quantificare si può dire che la pace di Brest-Litovsk sottrasse alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione) e la privò di un terzo delle sue strade ferrate, del 73% dei minerali ferrosi, dell’89% della produzione di carbone.

La pace di Brest-Litovsk costituì il secondo grande “tradimento”, questa volta della Russia sovietica (e/o comunista).

La pace con le potenze centrali si inseriva nel quadro della guerra civile nell’ex impero zarista: consentiva la concentrazione degli sforzi del Consiglio dei Commissari del Popolo verso le sollevazioni interno e però sottraevano ricchi territori già schierati con la rivoluzione bolscevica o che erano stati riconquistati dall’Armata Rossa4.

Tra la “pace imperialista” (così fu definita dai bolscevichi) del 3 marzo 1918 e la sconfitta degli Imperi centrali dell’11 novembre 1918 stanno otto mesi. In questo periodo le armate recuperate dal fronte orientale non furono sufficienti a battere gli alleati in occidente, anche perché fu necessario uno sforzo aggiuntivo per presidiare i nuovi territori acquisiti.

Il novembre 1918 è dunque la sconfitta della Germania. Il binomio Hindemburg-Luddendorff diede pessima prova di sé: implorò la pace al Kaiser e poche ore dopo tornò a proporre una ripresa dell’offensiva. Guglielmo II si rifiutò di adbicare e fuggì in Olanda a guerra in corso, guadagnadosi l’alto tradimento. Scoppiò la rivoluzione di novembre e poi quella cruciale di gennaio 1919 in cui Carl Liebknecht e Rosa Luxemburg perivano. Ad agosto nasceva la repubblica di Weimar.

La Grande Guerra era finita e la conferenza di pace che si era aperta il 18 gennaio 1919 si concluse cinque mesi dopo con il trattato di Versailles (28 giugno 1919). Furono cancellati gli accordi di Brest-Litowsk, venne ridisegnata la geografia dell’Europa tramite la creazione della Polonia e della Cecoslovacchia e poste le basi per l’instabilità del successivo ventennio. Tra le delegazioni spiccava l’assenza della Russia bolscevica che pure si era resa disponibile a parteciparvi senza pregiudiziali.

Al contrario molte delle potenze vincitrici si impegnarono in Russia rinfocolando la guerra civile e, nel caso del Giappone, tentando una politica di annessione: 1.500 truppe francesi e britanniche inizialmente sbarcate a Arkhangelsk; 14.378 britannici nella Russia del Nord; 1.800 britannici in Siberia; 50.000 truppe romene in Bessarabia; 23.351 Greci, in Crimea, e attorno a Odessa e Kherson; 15.000 francesi nell’intervento in Russia Meridionale (Ucraina); 40.000 britannici nel Caucaso a partire da gennaio 1919; 13.000 americani (nelle regioni di Arkhangelsk e Vladivostok); 11.500 estoni nel NordOvest della Russia; 2.500 italiani nella regione di Arkhangelsk e in Siberia; 1.300 italiani nella regione di  Murmansk; 150 australiani principalmente nella regione di Arkhangelsk; 950 britannici in Trans-Caspia; 70.000 soldati giapponesi nelle regioni orientali; 4.192 canadesi in Siberia e altri 600 ad Arkhangelsk.. Per quanto riguarda gli italiani, furono inviati alpini e un corpo di ex prigionieri austro-ungarici di etnia italiana denominato “Legione Redenta”.

L’Armata Rossa provò a riconquistare i territori sottratti dal Trattato di Brest-Litovsk entrando in Bielorussia e nel Baltico ma fu respinta da forze indipendentiste e divisioni irregolari tedesche. A sud nel febbraio 1919 l’esercito bianco di Denikin  riprese l’offensiva e il Caucaso settentrionale divenne il teatro più sanguinoso della guerra civile in questa fase.

In Ucraina a partire da febbraio-marzo 1919 si sviluppò il conflitto tra le forze di Petljura al potere, le fazioni filo-bolsceviche di Judenic Hryhoryiv, le armate anarchiche di Nestor Machno, l’esercito di Piłsudski che avanzava dalla Polonia.

Iniziò così il conflitto polacco-sovietico lungo la linea percorsa solo un anno prima dall’esercito tedesco.

A fine aprile 1919, sul fronte orientale l’Armata Rossa attaccò con successo l’esercito di Kolčak e sfondò la linea degli Urali. Le potenze dell’Intesa, che sostenevano Kolčak, riluttarono di intervenire al suo fianco con i contingenti già dislocati in territorio russo.

Nel resto del 1919 e nei primi mesi del 1920 la guerra civile vide un costante prevalere dell’armata rossa che arrivò alle porte di Vladivostock in mano giapponese e in Transcaucasia (attuali Azerbaigian, Georgia e Armenia) che era ancora occupata da Inglesi e Turchi.

I problemi più gravi che rimanevano erano l’esercito polacco a ovest e le truppe bianche di Vrangel’ in Crimea. Il 25 apriile l’esercito polacco si impadronì di Kiev; ma a partire dal maggio l’armata rossa avanzò di 400 chilometri fino a trovarsi, ad agosto, presso Varsavia. Poi, grazie all’intervento francese e all’esaurimento delle sue forze, si ritirò attestandosi a 200 chilometri a est dalla linea Curzon, ovvero dalla separazione tra le popolazioni polacche e quelle non-polacche.

Sempre nell’agosto 1920 l’Autonomia di Alash fu abbattuta e fondata la RSS kazaka, comprensiva del Turkestan. Il 2 settembre fu rovesciato l’Emirato di Bukhara.

Estonia e Lettonia firmarono paci separate con il governo sovietico.

Nel novembre 1920 Vrangel’ e i superstiti del suo esercito fuggirono dalla Crimea scortati da navi da guerra inglesi e francesi.

Il Trattato di Kars, firmato il 23 ottobre 1921, stabilì la pace con la Turchia e la successiva nascita della RSSF transcaucasica.

Nel marzo 1921 venne firmata la Pace di Riga dalla Polonia da un lato e dalla RSFS Russa e dalla RSS Ucraina dall’altro mettendo fine alla guerra sovietico-polacca. Nello stesso mese i marinai della base navale di Kronštadt insorsero. Questa rivolta, al pari delle rivolte nere e verdi dei contadini contro la coscrizione obbligatoria e le requisizioni, torna a porre il problema dell’intreccio tra presa del potere e sue finalità che ha tormentato la storia del movimento comunista dopo la rivoluzione di ottobre.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1919 per ricordare come in quell’anno non solo fallirono i moti spartachisti (gennaio) e fu disfatta l’effimera Repubblica dei Soviet in Ungheria (marzo-agosto 1919), ma anche venne convocato a Mosca il primo congresso dell’Internazionale Comunista in cui furono approvate unanimemente le tesi che Lenin espose in assemblea il 4 marzo 1919. Esse sottolineavano l’esigenza della dittatura del proletariato per ampliare “come non mai l’utilizzazione di fatto della democrazia da parte degli oppressi del capitalismo” e come unica difesa “contro la dittatura della borghesia che ha portato alla guerra e prepara nuove guerre”.

A distanza di quasi cento anni è ingeneroso confrontare la complessità di quei problemi e quella loro antica formulazione: ma se non può essere indulgente o giustificatoria la posterità non dovrebbe essere ingenerosa o in cattiva fede: il tentativo rivoluzionario fu reale, né truffaldino né ideologico. I soviet erano una realtà funzionante, l’Armata Rossa era un organismo efficiente grazie (e non “nonostante”) all’abolizione dei gradi e alle rappresentanze dei soldati, il richiamo a sostituire alla guerra tra gli oppressi la guerra agli oppressori era sincero e nella guerra civile i nemici dei bolscevichi avrebbero certo prevalso se ai contadini non avessero riproposto le antiche servitù, frusta e guerra. Né nessun altro oltre i bolscevichi era disposto a tanto orizzonte di liberazione.

In non molti anni l’originario momento rivoluzionario si trasformò in qualcosa di diverso e il fallimento della rivoluzione internazionalista si mutò in tragedia.  Pretendere di risolvere i problemi dell’oggi con l’uso dei fatti del passato è sbagliato ma resta necessaria la presa d’atto e la descrizione disinteressata per consentire che nuove soluzioni crescano oltre i drammi del passato.

L’Unione Sovietica aveva condiviso con la Germania l’esclusione dal Trattato di pace di Versailles e dunque un forte isolamento isolamento internazionale e con la Germania di Weimar aveva stabilito relazioni di collaborazione fin dal Trattato di Rapallo (1922) di natura sia economica che di tecnologia militare.

Ma un decennio dopo la fine della guerra civile in Russia la spinta della Germania a cercare spazio vitale a est si riaffacciò con il terzo Reich.

Dopo la guerra civile in Spagna in cui Hitler e Mussolini avevano dato prova della loro politica estera e la Gran Bretagna  aveva di fatto impedito il soccorso al legittimo governo repubblicano, a sedici anni dalla fine della guerra civile in Russia, Stalin fu indotto dalla minaccia dell’’espansionismo hitleriano che manifestatamente era destinato a mettere in gioco la pace europea, a cercare interlocuzione nella Gran Bretagna e nella Francia, offrendosi come garante dell’integrità polacca.

La politica di accomodamento di Chamberlein, l’annessione dell’Austria, la cedevolezza inglese dopo il patto di Monaco e in occasione della spartizione della Cecoslovacchia (durante la quale secondo Churchill la Polonia si era avventata con appetito da iena) finirono per metterlo in sospetto. Un sospetto aggravato dalla subitanea allenza con la Polonia offerta dalla Francia. Secondo Liddle Hart il patto Molotov-von Ribbentrop precipitosamente stipulato a Mosca il 23 agosto 1939 (la Polonia fu invasa il 1° settembre) non fu l’evento scatenante della guerra che invece va ricercato nell’improvviso irrigidirsi delle posizioni inglesi. Hiltler fu indotto a credere che un’accelerezione dei suoi piani immediati (che non prevedevano ancora una guerra su vasta scala, tantomeno con la Gran Bretagna) avrebbe anticipato la definitiva rottura con Chamberlain.

Il patto di difesa con la Polonia non sembrava credibile a Hitler (“Chi vorrebbe morire per la Polonia?” ebbe a dire) che contava sull’immediatezza dell’azione per conseguire il suo risultato intermedio (verso est e verso l’URSS) senza conseguenze irreparabili, rimandando il conflitto negli anni successivi e con altri avversari, quelli diretti. Il patto con l’Unione Sovietica fu dunque solo un elemento strumentale e provvisorio e così andrebbe considerato se lo si volesse misurare ai fini delle cause dello scoppio della guerra.

Delle intenzioni di Stalin meno si può arguire. Certo è che egli non credette fino all’ultimo alla realtà dell’invasione tedesca del giugno del ’41 e che in generale si comportò come se l’aggressione tedesca fosse di là da venire. “Comunque –dice Liddle Hart con una gran dose di distacco-, esaminando a posteriori la situazione che si venne a creare in Europa negli anni successivi, non sembra poi così sicuro che… la mossa di Stalin sia stata un grave errore.”

Dunque il patto Molotov-Ribbentrop è il terzo imperdonabile “tradimento”… o no?

Lo sguardo di Liddle Hart non si limita a osservare con distacco il panorama della storia, tanto più privo di senso quanto più si risolve nella guerra. Dopo essersi chiesto perché i governanti polacchi si risolsero ad accettare la “fatale offerta” inglese (cioè una garanzia di salvaguardia inesigibile) risponde “in parte perché sopravvalutavano fino all’assurdo la capacità delle loro antiquate forze armate… Ma in parte anche a causa di fattori personali: non molto tempo dopo il colonnello Beck [Józef Beck, all’epoca ministro degli Esteri polacco] ebbe occasione di dire che la decisione di accettare l’offerta inglese era maturata in lui ‘tra due colpetti dati alla sigaretta’… che aveva fatto molta fatica a mandar giù l’osservazione di Hitler che Danzica doveva essere restituita alla Germania, e che quando gli era stata comunicata l’offerta inglese aveva immediatamente scorto in essa l’opportunità di ‘rimettere a posto’ Hitler.” Hart chiosa: “Un impulso anche troppo tipico del modo in cui spesso viene deciso il destino di interi popoli.”

Liddle Hart si dimostra un militare fatto e finito (nonché un patriota e un inglese) e non concede nulla alla retorica della guerra e a suoi fantasticati scopi di giustizia. Dà un giudizio impietoso sugli esiti della seconda guerra mondiale per la Gran Bretagna e per l’Europa costrette poi a vedere imporsi la superiorità degli USA e dell’URSS. La sua posizione può essere disturbante ma è anche molto lucida: egli scrive: “L’esito della guerra dimostrò ancora una volta quanto illusoria sia la convinzione popolare secondo cui ‘vittoria’ significa pace. Vale, invece, a confermare che essa è solo un ‘miraggio nel deserto’: il deserto che una lunga guerra, tanto più se combattuta con armi moderne e metodi illimitati, si lascia inevitabilmente alle spalle.”

Giancarlo Scotoni

  1. Si fa coincidere la conclusione della guerra civile russa e i suoi annessi e connessi con il 30 dicembre 1922 data di fondazione dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, sebbene i giapponesi restituirono tutto il territorio occupato solo successivamente.[]
  2. La Legione Cecoslovacca era un raggruppamento di indipendentisti che avevano chiesto allo zar di poter combattere conto l’Impero asburgico considerato oppressore. Con la pace di Brest-Litovsk esso iniziò un lungo viaggio concordato con il governo dei Commissari del Popolo verso Vladivostock per essere imbarcato e partecipare alla guerra sul fronte occidentale. Incrociandosi con i prigionieri che venivano restituiti alle potenze centrali ed essendosi con essi determinati gravi incidenti, entrò in conflitto con il governo e si aprì la strada combattendo. A capo della Legione Cecoslovacca in Russia era Tomáš Masaryk, primo presidente della Cecoslovacchia nel 1918.[]
  3. I cui veri artefici furono il colonnello Max Hoffmann e la felice insubordinazione del generale Hermann von François.[]
  4. In Lituania ed Estonia i governi dei soviet vennero sostituiti con altri appoggiati direttamente dall’esercito tedesco e furono subito scovati un paio di aristocratici tedeschi da far diventare re. In Ucraina, deposti i soviet, a un altro governo fantoccio fu affidato il prelievo di materie prime e grano. In Finlandia (che i russi avevano già autonomamente riconosciuto indipendente) fu rovesciato con un colpo di Stato il governo socialdemocratico. La Bessarabia venne annessa alla Romania mentre l’Impero Ottomano si impadronì di parte della regione transcaucasica (Ardahan, Kars, Batumi).[]
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