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Grandi opere, città e ambiente: il ponte di Genova

Grandi opere, città e ambiente

di Sergio
Brenna

di Sergio Brenna – Nella vicenda del crollo del ponte sul fiume Polcevera a Genova, progettato nei primi anni ’60 dall’ingegnier Morandi, “mago” del cemento armato precompresso, e realizzato tra il 1963 e il 1967, i più attenti ed avveduti commentatori hanno fatto rilevare che tra le critiche alla questione ingegneristica (perché il manufatto è crollato: imprevidenza o imprevedibilità da parte del progettista nel valutare nel lungo periodo il possibile degrado dei materiali nel complesso equilibrio di un forse troppo ardito sistema progettuale, l’aumento dei carichi e della frequenza di traffico, l’evento fortuito del fulmine che forse avrebbe provocato una deflagrazione di bombole da saldatura presenti sul ponte per manutenzioni e, direttamente o indirettamente, il collasso dei trefoli di uno strallo, eccetera) e quelle al sistema delle concessioni (a chi spettava controllare lo stato di sicurezza del ponte ed eventualmente in via prudenziale ordinarne la chiusura al traffico, a chi spettasse indicare e controllare quali e con quale frequenza eseguire verifiche e manutenzioni ordinarie e straordinarie, eccetera) rimane un’ampia zona buia sinora ancora esente da critiche e riflessioni che riguarda la cronica carenza di politiche urbanistiche, territoriali e ambientali. Molti si sono chiesti chi fosse mai il Sindaco che aveva autorizzato quell’infrastruttura così incombente sulle case sottostanti preesistenti (e che infatti oggi nella demolizione e ricostruzione del ponte si prevede necessariamente di demolire) tanto da oscurarne le finestre e tagliarne i cornicioni con le proprie strutture di sostegno: ebbene, sicuramente in quegli anni non vi era alcuna competenza dei Sindaci nell’autorizzare opere infrastrutturali o insediamenti produttivi di rilevanza nazionale, che comunque venivano ritenuti anche a livello locale fattori di uno sviluppo economico e occupazionale superiore ai rischi e ai pesanti condizionamenti alla qualità della vita e dell’ambiente dell’insediamento preesistente (e anche in anni più recenti quando la legislazione ha introdotto sedi di confronto con gli amministratori locali – Conferenza Stato/Regioni/Comuni, ecc.- spesso ci si limita a richiedere compensazioni economiche a breve, anziché tutele urbanistico-ambientali di lungo periodo nella concezione delle opere). Siamo più o meno negli stessi anni (1960-1965) in cui l’Italsider (IRI) avvìa la realizzazione del quarto centro siderurgico a Taranto, con l’accoglienza unanime di tutte le espressioni politiche e sociali della città, che temevano il ridursi dell’occupazione lavorativa fornita storicamente dall’Arsenale e dalla Marina Militare. L’allora sindaco democristiano Angelo Monfredi candidamente ammise: “Lo avremmo fatto costruire anche al centro della città”. Anche in quel caso – come per la munifica concessione delle autostrade ai Benetton nel 1999 – la vendita ai Riva nel 1995 segnerà l’avvio di un periodo di crescente sfruttamento da parte dei privati dell’investimento pubblico iniziale, senza sostanziali investimenti migliorativi delle tecnologie produttive e in assoluto disprezzo della sempre più manifesta necessità di introdurre nei processi produttivi criteri di tutela ambientale dei quartieri attigui, che ne peggiorerà radicalmente la condizione, ma le cui premesse nella concezione conflittuale del rapporto con città, territorio e ambiente erano già state poste sin dall’origine.

Del resto solo pochi anni prima, nel 1952, quei Sassi di Matera – oggi dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco e che ne motivano la designazione a capitale europea della cultura per il 2019 proprio grazie al sapiente recupero e rivitalizzazione – apparvero al Presidente del Consiglio De Gasperi come una vergogna nazionale da cancellare con lo sfollamento forzato degli abitanti verso nuovi quartieri periferici che – nei canoni di stereotipata modernità e salubrità imposti nei nuovi edifici – non tenevano conto della abituale necessità della popolazione agricola di avere in vicinanza l’asino per recarsi in campagna e depositi per derrate agricole (vi farà fronte solo l’esperimento del borgo agricolo de La Martella, che verrà però soffocato dall’evoluzione capitalistica dei mercati agricolo-alimentari, come gran parte degli insediamenti della Riforma agraria basata sul piccolo appezzamento familiare).

Insomma: sviluppo economico-produttivo, insediamento storico preesistente e ambiente hanno vissuto in quegli anni la prevalenza del primo a qualunque costo sugli altri due, con scelte le cui conseguenze si pagano a caro prezzo anche decenni dopo, ai nostri giorni.

D’altra parte, anche gli agglomerati urbani (abitativi e produttivi) preesistenti avevano subìto sin dagli anni ’50 un’esplosione insediativa incontrollata – cui con quelle opere infrastrutturali si pensava di poter porre rimedio – dovuta all’assenza di qualsiasi forma di pianificazione pubblica comunale. La legge urbanistica del 1942 (tutt’altro che succube al liberismo privatistico insediativo e avventurosamente approvata in pieno periodo bellico, forse proprio perché in quel frangente erano più sopiti gli interessi del blocco fondiario-immobiliare, che per decenni l’aveva contrastata), era ancora formalmente in vigore. Essa, tuttavia, appariva come l’eco lontana di un regime ormai scomparso e dalle procedure incompatibili prima con le esigenze di rapida ricostruzione post-bellica, ma poi anche come prassi inveterata. I Comuni, quindi, in assenza di un rinnovato richiamo all’obbligo di sottostarvi con l’approvazione in Consiglio comunale dei Piani regolatori generali e successivamente dei Piani attuativi di iniziativa pubblica, previsti dalla legge urbanistica prima del permesso edificatorio, a lungo preferirono adattarsi alla contrattazione caso per caso (le cosiddette “convenzioni private”, cioè non urbanistiche) in dipendenza dalle localizzazioni, quantità edificatorie e altezze via via richieste dai privati in base solo a propri calcoli di convenienza e redditività. Solo dopo il “tragico” 1966 – con la frana di Agrigento a luglio e l’alluvione di Firenze e Venezia a novembre – le forze politiche del centrosinistra (a lungo titubanti ad opporsi alla rinnovata ostilità del blocco fondiario-immobiliare a qualsiasi regolamentazione, arrivata a fomentare i tentativi di colpo di Stato del generale De Lorenzo e il dimissionamento del Ministro dei LLPP, il democristiano Sullo, da parte del suo stesso partito) furono indotte dal soprassalto dell’opinione pubblica ad approvare nel 1967 una nuova legge con una forma attenuata di indirizzo pubblico dello sviluppo insediativo, cioè con l’obbligo per i Comuni di redigere un Piano regolatore generale con localizzazioni, quantità edificatorie e quantità minime di spazi pubblici (18 mq/abitante di verde e servizi di quartiere più altrettanti a parchi territoriali), ma consentendo poi ai privati la possibilità di presentare propri Piani attuativi di lottizzazione, così inevitabilmente improntati alla salvaguardia degli interessi congelati nell’assetto fondiario preesistente.

Nella pur “virtuosa” stagione della pianificazione comunale dal 1967 agli anni ’90 vi furono due limiti di fondo alla possibilità di dare una visione di lungo periodo all’indirizzo pubblico dell’assetto insediativo: il primo fu che ogni tornata amministrativa tendeva a dotarsi di un proprio Piano regolatore generale, soprattutto in occasione di cambi di maggioranza politica. Si è quindi teorizzata un’articolazione tra un Piano strutturale/ambientale di lungo periodo – approvabile e modificabile solo con maggioranze qualificate rappresentative di un ampio consenso – e un Piano operativo di durata quinquennale da approvarsi a maggioranza semplice, che desse attuazione a parti del Piano strutturale. La Regione Lombardia in epoca formigonian-maroniana ne ha dato una propria versione spuria extra-legem nazionale introducendo un Piano di governo del territorio di durata quinquennale, che – in coerenza ad una visione mercificata dell’uso del suolo – obbliga che ad ogni tornata amministrativa si riformulino nuove previsioni d’uso del territorio, senza più alcuna visione di lungo periodo.

Il secondo limite fu che i Comuni nell’approvare i Piani di lottizzazione dei privati chiesero la cessione a uso pubblico solo degli spazi a verde e servizi di quartiere (dopo il 1975 da molte Regioni aumentati da 18 a 25-30 mq/abitante), ma lasciando così per lo più inattuati i vincoli ad uso pubblico previsti nei Piani regolatori per parchi territoriali, la cui durata – subito dopo una sentenza della Corte Costituzionale del 1968 – è stata fissata per legge con un termine incongruamente breve di cinque anni non ulteriormente rinnovabile e quindi con l’obbligo per i Comuni di esproprio forzoso con indennizzo a valore di mercato o di diversa destinazione non più pubblica. Molte proprietà – dopo anni di inerzia, ma sempre più di frequente – aprono quindi un contenzioso amministrativo chiedendo ai Comuni – provocatoriamente, date le loro note difficoltà finanziarie – l’attuazione del vincolo mediante esproprio o il cambio di destinazione ad uso privato (il che non necessariamente – come ritengono alcuni Comuni particolarmente succubi o imbelli – significa una destinazione edificatoria, esistendo anche le destinazioni a verde privato o agricolo, che non hanno termini di decadenza). Un rinnovato interesse alla tutela dei beni comuni potrebbe e dovrebbe indurre il Parlamento a ridiscuterne l’estensione a 20-25 anni.

In ogni modo, di fronte a queste incertezze, a partire dagli anni ’90 si è cominciato ad accampare la presunta lentezza e macchinosità della procedura dei Piani regolatori generali e dei Piani attuativi (quasi sempre Piani di lottizzazione di iniziativa privata) che, a fronte della pretesa di dinamicità negli investimenti immobiliari passati dalla dimensione della proprietà fondiaria verso quella della finanza globalizzata e chiedevano, perciò, “mano libera” nel cambiare destinazione ad aree a destinazione dismessa o in dismissione o da far dismettere. Si è trattato spesso di conversione da aree a destinazione produttiva ad aree terziario/commerciali, ma anche da aree abitative centrali, ma con edifici obsoleti e a basso reddito ad “enclaves” di abitazioni di lusso. Nascono così – sparsi nei più disparati provvedimenti di legge – i Programmi integrati di intervento (PII), i Piani di riqualificazione urbana (PRU), gli Accordi di programma (AdP) – che sotto il velo di intese di pubblico interesse tra enti pubblici nascondono sostanziose concessioni a privati compartecipanti, in deroga al Piano regolatore – sino ai vari Piano casa e Sblocca Italia di epoca berlusconiana, che nel loro complesso rappresentano la riedizione con nuove e più accattivanti denominazioni e in dimensione 2.0 finanziarizzata e globalizzata delle “convenzioni” degli anni ‘50/’60, fatte senza alcuna visione pianificatoria complessiva.

In questa prospettiva, la parentesi del periodo ’67-’90 appare troppo breve per porre rimedio agli errori accumulatisi prima e dopo di esso e che ci gravano addosso con le ricorrenti sciagure dovute al degrado territoriale e ambientale, mentre invece richiederebbe un impegno di lungo periodo nel riorientare l’uso delle risorse pubbliche e private verso la correzione di ciò che si è fatto malamente in passato e l’avvio di un nuovo modello di rapporto tra sviluppo sociale e sostenibilità insediativo-ambientale di lungo periodo.

C’è da chiedersi se il tragico evento del crollo del ponte sul Polcevera riuscirà ad inquadrarsi nella catena di sciagure tutt’altro che “naturali” che periodicamente funesta il Paese (Sarno, Giampilieri, Genova, L’Aquila, Amatrice) in modo che torni a formarsi un’opinione pubblica capace di comprendere su che strada siamo tornati a metterci, così da indurre le forze politiche a mutare profondamente le politiche di condiscendenza allo sviluppismo tecnocratico e alla prevalenza dell’interesse economico-finanziario.

Come giustamente fa rilevare Guido Viale nel suo articolo su Il Manifesto del 23.8, appoggiandosi anche all’analisi di Sergio Bologna nel suo saggio “Grandi opere: un lenzuolo per coprire le magagne italiche”[1]: “L’Italia non ha bisogno di nuove grandi infrastrutture di trasporto; ne ha già persino troppe. Quello che manca è la capacità di utilizzarle a fondo”.

E altrettanto si potrebbe dire delle iper-concentrazioni edificatorie che costellano le trasformazioni urbane nel riuso di molte aree delle nostre città e che raccolgono il plauso dei fautori di un’apparente effimera modernità: nel lungo periodo sono errori di cui ci troveremo nuovamente a pagare il costo. Lo stesso sacrosanto obiettivo della riduzione o azzeramento del “consumo di nuovo suolo” – spesso solo propagandato[2] – può risultare aberrante se si accompagna alla prospettiva che il peso edificatorio complessivo di nuove edificazioni possa non ridursi, ma concentrarsi a piacere sul riuso del già urbanizzato.

Non servono parti di città così radicalmente avulse e difformi dall’intorno e in cui il rapporto tra spazio pubblico ed edificazione è totalmente squilibrato a favore di quest’ultima, con la giustificazione dei nuovi fuorvianti miti della smartness e sostenibilità ecologica degli edifici – oggi in gran voga –, ma senza una visione complessiva di contesto urbano e territoriale.

Non trovo conclusione migliore che riprendere ciò che scrive Aldo Carra al termine del suo articolo su Il Manifesto del 21.8 (“Il potere di decidere il futuro modello di sviluppo”): “Prenderci cura del nostro territorio con le sue grandi bellezze, accudirlo come un essere delicato, costruire un modello di sviluppo basato sulla sua salute, sul suo benessere intrinseco e su quello che può trasmettere a chi lo vive e lo visita, può essere un nuovo cammino da intraprendere per una sinistra oggi fuori gioco. È troppo? Si. Basta, comunque, che non vediamo più quella terribile foto che mostra il ponte “appoggiato” sui palazzi preesistenti. Anzi: ma come abbiamo potuto conviverci per tanti anni?”.

[1] https://officinadeisaperi.it/materiali/grandi-opere-un-lenzuolo-per-coprire-le-magagne-italiche.

[2] La Regione Lombardia, nel 2014 ha approvato una legge di contenimento del consumo edificatorio di nuovo suolo – poi rinviata sine die nella sua pratica messa in atto – che comunque prevedeva al 2030 consumi di suolo doppi di quelli previsti a quella data in Germania, la quale partiva da livelli ben più alti di quelli lombardi.