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“Fumo e ceneri” di Amitav Ghosh. Una ricerca sul narcostato coloniale e le radici del capitalismo occidentale

di Alessandro
Scassellati

Amitav Ghosh si immerge profondamente nella ricerca su come il commercio di oppio tra coloni britannici, olandesi e statunitensi con la Cina, l’India e le regioni dell’Asia del Sud-est come Giava, Indonesia e Filippine abbia rovinato quei paesi e plasmato la storia del continente asiatico nel XIX secolo e nella prima parte del XX, nonché le sue ripercussioni nel mondo odierno. Siamo ben consapevoli delle altre forme di sfruttamento che i colonizzatori hanno sperimentato sui colonizzati – deumanizzazione, razzismo, genocidio, espropriazione, traffico degli schiavi, sfruttamento di lavoro e risorse – ma sappiamo poco del ruolo dell’oppio. Tale commercio, che si presumeva fosse la gloria e la ricchezza dei colonizzatori europei e statunitensi, era un’attività illegale in Cina. L’Inghilterra importava tè dalla Cina e, vendendolo anche ad altri paesi, ne ricavava grandi profitti. Era solita pagare in lingotti d’argento, ma con la scarsità dell’argento, costrinse la Cina a vendere il tè in cambio dell’oppio. Ci furono due guerre dell’oppio e l’oppio rovinò completamente la Cina. Amitav Ghosh ha scritto un libro che è un’affascinante ricerca sulla crudeltà, l’avidità dei colonizzatori e la tragedia dei colonizzati. Un viaggio ben informato, leggibile e inquietante lungo un oscuro sentiero della storia del capitalismo globale.

Quando l’antropologo e romanziere Amitav Ghosh iniziò le sue ricerche per la trilogia Ibis1, circa vent’anni fa, rimase sbalordito nello scoprire come le vite di marinai, soldati e lavoratori del XIX secolo di cui scriveva fossero dettate non solo dalle correnti dell’Oceano Indiano, ma anche da una merce preziosa trasportata in enormi quantità su quelle navi: l’oppio. La cosa più sorprendente di tutte fu la scoperta che la sua identità e la sua storia familiare fossero coinvolte nella storia del traffico dell’oppio (i suoi antenati, che migrarono a Chapra, nel Bihar, un importante centro di produzione di oppio, probabilmente lavoravano per l’amministrazione coloniale come contabili e scrivani addetti alla redazione dei resoconti sulla produzione scritti in bengalese).

Un percorso che, come scrive, lo portò a conoscere per la prima volta la storia cinese, una storia che in India è spesso incentrata esclusivamente sulla vergognosa sconfitta nella guerra sino-indiana del 1962. Questa miope attenzione al conflitto nasconde una storia condivisa molto più ricca tra i due Paesi. “La Cina giganteggia nella nostra vita materiale e culturale, eppure la sua presenza passa spesso inosservata” (pag. 11). La sua scoperta dell’influenza nascosta della Cina nella vita quotidiana bengalese è avvenuta attraverso il consumo: il tè che beve (che è così profondamente radicato nell’identità indiana e sud-asiatica ma che pochissime persone consumavano prima dell’inizio del XX secolo), lo zucchero che vi aggiunge (cheeni in bengalese, che è anche la parola bengalese per “cinese”) e le arachidi che mangia (chinébadam). Ghosh sottolinea come i famosi sari indiani di broccato gara, tanchoi e banarasi (usati nei matrimoni) abbiano le loro radici in Cina. Scrive della fiorente attività artistica in India e Cina, e dei turisti occidentali che vengono a visitare due importanti monumentali fabbriche di oppio, una a Patna e l’altra a Ghazipur, costruite rispettivamente nel 1781 e nel 17892. Queste opere d’arte e altri riferimenti sono illustrati nel libro. Descrive il modo in cui la storia dell’oppio tocca argomenti apparentemente estranei al narco-imperialismo, dalla progettazione di giardini inglesi, all’ispirazione di Francis Scott Key per l’inno nazionale “The Star-Spangled Banner” su una nave costruita con i profitti dell’oppio da una famiglia indiana parsi, i Wadia. In materia di arte, la Cina se la cavò meglio dell’India, poiché l’area designata di Canton a Guangzhou aveva un’enclave straniera. I mercanti risiedevano lì, nelle 13 factory (grandi edifici), dove non potevano accedere alla città né portare le loro famiglie. Pagavano gli artisti per i ritratti e altre raffigurazioni del mondo naturale che poi portavano con sé in patria. Ghosh dedica quasi un intero capitolo all’impatto dell’orticoltura cinese sui giardini inglesi, americani e indiani. Rappresentanti di collezionisti di piante britannici come Joseph Banks setacciarono i vivai di Canton alla ricerca di molti dei fiori che oggi diamo per scontati: gigli tigrati, crisantemi, peonie arboree, ortensie e rose rifiorenti. Il più noto di questi vivai era il Giardino Fa-ti, Hua di in mandarino, ovvero “terra dei fiori”3.

Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio” (Einaudi, Torino 2025) è allo stesso tempo un diario di viaggio, un memoir e un’escursione ben documentata nella storia, sia economica che culturale. È un libro ambizioso e utile, nonché una piacevole lettura. Ghosh possiede credenziali accademiche, che si riflettono nelle note meticolose e complete del libro, ma affronta il compito da narratore esperto. La narrazione che offre è personale, saldamente radicata nella sua esperienza. Per un autore cresciuto a Calcutta (oggi Kolkata), cos’è la Cina? Cosa significa il commercio dell’oppio in India, dove la droga veniva coltivata, rispetto alla Cina, dove veniva consumata? Se la stessa merce ha avuto un impatto così decisivo e tuttavia così diverso sulla storia moderna di questi due enormi paesi densamente popolati, avrebbe senso considerare l’oppio come un agente storico a sé stante? Come potrebbe presentarsi questa indagine? Queste sono le domande con cui inizia il libro e che forniscono un modello per i capitoli successivi.

Fumo e ceneri” è un libro che chiarisce ogni aspetto del commercio dell’oppio. Copre la produzione, la distribuzione e il consumo dell’oppio. Affronta l’impatto che la vendita e l’uso di questo potente narcotico (le cui capacità curative/farmacologiche erano note da millenni4) hanno avuto sulla politica, sulla cultura e sulla finanza in Cina, India, Sud-est asiatico, Regno Unito e Stati Uniti. Spiega le origini del moderno commercio dell’oppio e ne traccia le continuità nel corso del XX e XXI secolo, attraverso la famiglia Sackler e l’attuale epidemia americana di oppioidi. Infatti, Ghosh traccia sorprendenti parallelismi tra il commercio coloniale di oppio e la crisi degli oppioidi in America. Ciò che accadde alla Cina nel XIX secolo affligge oggi il mondo occidentale, in particolar modo gli Stati Uniti. L’argomentazione della famiglia Sackler e della Purdue Pharma secondo cui il loro farmaco oppioide OxyContin stava semplicemente soddisfacendo una domanda insoddisfatta e portava alla dipendenza, presenta inquietanti somiglianze con le affermazioni dei trafficanti di oppio britannici secondo cui la domanda esisteva già in Cina e che se non l’avessero soddisfatta loro, lo avrebbe fatto qualcun altro. Entrambe le logiche hanno permesso ai colpevoli di rinnegare il loro ruolo nella creazione deliberata di un mercato per le loro droghe, mentre scaricavano la colpa della dipendenza diffusa sugli utilizzatori e sulle forze della domanda e dell’offerta. Le aziende che commercializzavano gli oppioidi hanno rispolverato aggressivamente il “modello” coloniale della “depravazione”, accusando i tossicodipendenti di essere “deboli di natura e naturalmente inclini al vizio”. Nel 2019 si stimava che 30 milioni di americani fossero dipendenti dagli oppioidi, mentre tra le 60 mila e le 80 mila persone sono morte di overdose di fentanyl e altri oppioidi in media ogni anno nell’ultimo decennio negli Stati Uniti. Ghosh denuncia il ruolo che le Big Pharma hanno avuto nell’indebolimento delle istituzioni mediche americane avendo “coinvolto medici e personale sanitario nelle loro campagne di distribuzione, manipolato il sistema giudiziario, cooptato i legislatori a livello federale e statale, e siano poi riuscite a cavarsela con condanne molto lievi, lascia immaginare uno sbalorditivo livello di corruzione” (pag. 295).

Inoltre, Ghosh traccia parallelismi tra l’aggressivo commercio di oppio, il suo predominio, la mancanza di responsabilità e le azioni contemporanee delle organizzazioni che operano nel settore dei combustibili fossili. Auspica che si formi una coalizione di gruppi della società civile ed entità religiose, simile al movimento anti-oppio del XIX e XX secolo, per chiedere conto alle entità che operano nel settore dei combustibili fossili delle loro azioni per il clima.

 

Il potere del papavero

Muovendosi abilmente tra la storia dell’orticoltura, le mitologie del capitalismo e le ripercussioni sociali e culturali del colonialismo, “Fumo e ceneri” rivela il ruolo cruciale che una piccola pianta ha avuto nella creazione del mondo come lo conosciamo, un mondo che ora è sull’orlo della catastrofe5.

Il lavoro di Ghosh va inteso come uno sforzo per decentrare l’Antropocene e accettare il potere delle entità non umane come agenti attivi che dettano il corso della storia. “Quando si pensa al ruolo del papavero da oppio nella storia, non si può ignorare la sensazione di un’intelligenza all’opera. Ciò emerge soprattutto dalla sua capacità di provocare il ciclico ripetersi nel corso del tempo di fenomeni analoghi. È evidente che il papavero non agisce in modo casuale; costruisce simmetrie che rimano fra loro. È importante riconoscere che tali cicli continueranno a riproporsi, perché l’oppio non scomparirà tanto presto. In Messico, ad esempio, nonostante gli ingenti sforzi per sradicarle, le coltivazioni di papavero hanno continuato a estendersi. E oggi nel mondo si produce più oppio che in qualunque altra epoca. Solo riconoscendone il potere e l’intelligenza potremo cominciare a fare pace col papavero da oppio” (pag. 303).

Ghosh sviluppa un’argomentazione metodologicamente importante sull’oppio come agente storico. Introduce l’argomento nel capitolo due, lo riprende in tutti i capitoli del libro e vi ritorna alla fine. In breve, la tesi è che l’oppio è una merce unica nel suo genere che crea dipendenza, è redditizia e fisicamente degenerativa, incomparabile sotto questo aspetto all’alcol, alla cannabis o a qualsiasi altra cosa. La natura iper-assuefante dell’oppio fa sì che le persone siano disposte a consumarne la quantità prodotta. In questo modo, l’oppio è stato “a pieno titolo una forza nella storia”. “È quasi”, avverte, “come se gli anziani del regno vegetale, giunti alla conclusione che l’Homo sapiens è un animale troppo pericoloso per consentirgli di sopravvivere, avessero fatto all’umanità un dono che sapevano sarebbe stato usato dai membri più spietati e potenti della specie per costruire sistemi economici che lentamente ma inesorabilmente avrebbero portato alla fine delle loro civiltà” (pag. 250). Il Papaver somniferum è una “sorta di agente imperiale biologico indipendente”, scrive, che usa gli esseri umani per “creare nuove e più potenti versioni di se stesso”. Questo non è antropomorfismo. Rifiutandosi di trattare l’oppio (o il pianeta, o la noce moscata) come materia inerte, Ghosh si oppone alla mentalità meccanicistica, che risale alla violenza della conquista coloniale, e che riduce il nostro mondo complesso a risorse per l’uso umano.

In “La grande cecità, il cambiamento climatico e l’impensabile” (Neri Pozza, Vicenza 2019), l’invocazione di Ghosh di un pianeta “vitalmente, persino pericolosamente vivo” è stata galvanizzante. In “Fumo e ceneri“, la sua capacità di attribuire all’oppio il ruolo di attore storico a pieno titolo (di riconoscere “l’agenzia storica della materia botanica”) — anche in forme sintetiche come il fentanyl — appare meno sviluppata. Ma si tratta di un piccolo intoppo nel contesto dell’enorme risultato del suo progetto più ampio, che è quello di smascherare la lunga storia di “capitalismo razziale” (così come definito da Cedric J. Robinson) che ci ha portato alla situazione disastrosa in cui ci troviamo.

 

Trovare una merce che la Cina fosse interessata a comprare

Fino al XVI secolo il tè era un’esclusiva della Cina, quando iniziò ad esportarlo in tutto il mondo. Il primo tè venne portato in Gran Bretagna dalla Cina a metà del XVII secolo. Nel XVIII secolo, l’Inghilterra aveva iniziato a considerare la bevanda cinese come la sua bevanda nazionale non ufficiale, al punto che un atto del Parlamento impose alla Compagnia delle Indie Orientali (fondata nel 1600), detentrice del monopolio, di tenerne in magazzino una scorta per coprire il consumo nazionale di un anno. I dazi doganali sul tè, che arrivavano fino al 125%, ammontavano quasi al 10% delle entrate della Gran Bretagna per gran parte del XVIII e XIX secolo, finanziandone le guerre e l’espansione coloniale.

Però, gli inglesi acquistavano il tè dalla Cina in cambio di argento e ben presto le loro riserve di questo prezioso metallo cominciarono a esaurirsi. A quel tempo la Cina era ampiamente autosufficiente e non era interessata ai prodotti stranieri. Entro il 1750, la Gran Bretagna aveva pagato alla Cina circa 26 milioni di sterline per il tè e recuperò solo un quarto di quella cifra attraverso la vendita delle proprie merci. “Non abbiamo mai apprezzato gli articoli ingegnosi, né abbiamo la minima necessità dei prodotti manifatturieri del vostro Paese”, affermò senza mezzi termini l’imperatore Qianlong in una lettera a Giorgio III nel 1793.

La Gran Bretagna si rese conto che doveva risolvere questo “problema di bilancia commerciale”6 e, oltre ad avviare la coltivazione di tè (con semi e innesti trafugati dalla Cina) in piantagioni con lavoro forzato o a contratto in Assam e altrove in India (poi anche in Ceylon/Sri Lanka, Kenya e Malesia), trasformò l’oppio in una forma di moneta, interrompendo questo squilibrio. Così, a metà del XVIII secolo, gli inglesi avviarono una campagna per rendere la popolazione cinese dipendente dall’oppio prodotto nella fascia orientale del Gange in India, nella speranza di correggere lo squilibrio commerciale. La Compagnia delle Indie Orientali decise di offrire l’oppio come una merce che avrebbe generato la propria domanda: il ciclo di dipendenza da cui dipende ogni cartello della droga. Nel 1818, il commerciante d’oppio britannico Robert Taylor dichiarò con gioia che “l’oppio è come l’oro. Posso venderlo in qualsiasi momento”. La Gran Bretagna imperiale divenne il più grande spacciatore di droga del mondo anche se la Cina non era contenta dell’importazione di oppio in cambio di tè. Il libro racconta come il primo e più grande traffico transcontinentale di oppio al mondo, gestito dai più potenti imperi europei e guidato dalla Gran Bretagna, abbia mietuto come vittime generazioni di asiatici colonizzati, contribuendo a creare l’ordine mondiale ineguale come lo conosciamo oggi.

Il “Dipartimento dell’oppio” della Compagnia delle Indie Orientali fu fondato nel 1799 per supervisionare tutti gli aspetti della produzione di oppio, dalla sua coltivazione, alla trasformazione industriale e al trasporto verso la casa d’aste di Calcutta, costringendo più di un milione di famiglie contadine del Bengala orientale a piantare una monocoltura di papavero bianco da oppio. Il libro denuncia lo sfruttamento da parte degli inglesi di regioni fertili come le pianure del Gange per la coltivazione dell’oppio, anche durante le carestie, e le pratiche coercitive sui prezzi imposte agli agricoltori. Nel Bengala orientale e nel Bihar, milioni di persone morirono di carestia nel 1769-70, dopo che i terreni agricoli produttivi furono trasformati in campi di papaveri tramite la coercizione del “Dipartimento dell’oppio”. Sebbene prima della Compagnia delle Indie Orientali la produzione di oppio fosse presente nel Bihar e nel Madhya Pradesh, si trattava più di un’industria artigianale con un consumo interno limitato. Nel 1850, duecentomila ettari nel Bihar erano dedicati alla coltivazione di papaveri e nella produzione erano coinvolti tra i 5 e i 7 milioni di lavoratori. Allora, tra il 15 e il 20% delle entrate dell’Impero britannico provenivano dall’oppio. Ad un estremo di questo continuum di produzione e fornitura stabili c’era una burocrazia capillare sofisticata di funzionari7, informatori, spie e quote rigide di produzione per i contadini; dall’altro, c’erano le due grandi fabbriche simili a fortezze di Ghazipur e Patna nel Bihar e l’analisi forense di Ghosh dei dipinti delle fabbriche d’oppio è particolarmente affascinante.

In breve tempo, diverse migliaia di tonnellate di oppio venivano coltivate in India ogni anno, utilizzando metodi nuovi e più efficienti; da allora in poi, l’India avrebbe fornito la maggior parte dell’oppio consumato nell’Asia orientale e in Cina. La quantità di oppio importata in Cina aumentò da circa duecento casse all’anno negli anni Trenta del Settecento a oltre novantamila all’anno negli anni Ottanta del XIX secolo. Nel 1890 il commercio dell’oppio fruttava alla Gran Bretagna circa cinque milioni di sterline all’anno, era ormai il “pilastro dell’impero” e, nel frattempo, ben 40 milioni di cinesi erano diventati dipendenti dall’oppio.

Nonostante l’immensa ricchezza generata da questo commercio, le condizioni dei coltivatori di oppio erano dure. Dopo che il “Dipartimento dell’oppio” aveva destinato il terreno alla coltivazione del papavero, su quel terreno non era più possibile piantare nessun’altra coltura e gli agricoltori rischiavano lo sfratto per aver piantato riso, tabacco, cotone o verdure che avrebbero fruttato più delle magre quantità di denaro offerte ai coltivatori di papaveri (che di fatto erano costretti a produrre questa coltura, notevolmente redditizia, in perdita). Il commercio ha avuto anche un impatto sociale negativo sulla regione, poiché nelle zone del Bihar in cui veniva coltivato il papavero, il consumo di oppio è cresciuto di 100 volte, alimentato da un fiorente mercato nero.

Sebbene la Cina avesse imposto un divieto all’importazione di oppio da fumo fin dal 1729, navi pesantemente sorvegliate trasportavano il prodotto dalle fabbriche indiane, dove veniva messo all’asta e acquistato da “commercianti privati”, trasportato sulle loro navi fino al Fiume delle Perle e venduto ai contrabbandieri cinesi. Dopo le due guerre dell’oppio (1839-42 e 1856-60) che alla fine annientarono la resistenza cinese, i mercanti stranieri si appropriarono dell’isola di Shamian a Canton (Guangzhou) come loro centro operativo (progettato per essere un avamposto manifestamente coloniale), da cui il popolo cinese e lo stato di diritto cinese furono esclusi (oggi è diventato il Parco culturale di Wenhua).

Ghosh inizia la storia del commercio coloniale di oppio con portoghesi e olandesi. Entrambi i paesi utilizzavano la droga come valuta per facilitare i flussi commerciali, nel tentativo di acquisire il monopolio sulle spezie asiatiche come la noce moscata, il macis, i chiodi di garofano e il pepe8. Ma furono gli inglesi, un secolo dopo, a scoprire l’oppio come mezzo per finanziare le crescenti importazioni di tè cinese. Nel frattempo hanno perfezionato quello che Ghosh descrive come “il modello del narco-Stato coloniale”. La Gran Bretagna e le altre potenze occidentali non hanno inventato il commercio dell’oppio ma — come nel caso del traffico di esseri umani sulla costa atlantica — hanno preso una pratica preesistente e l’hanno ampliata esponenzialmente per perfezionare tale modello. La Compagnia delle Indie Orientali costrinse i contadini della colonia indiana da poco acquisita a coltivare papaveri bianchi da oppio su vaste estensioni di terra e contrabbandò in Cina l’oppio da fumo, altamente assuefacente9.

Ben presto l’oppio divenne una delle maggiori fonti di reddito per il governo britannico e il suo regime coloniale in India. Nel frattempo, il traffico di droga ha impoverito milioni di contadini e ha fatto sprofondare generazioni di cinesi, indiani, giavanesi, indonesiani, filippini (e più tardi anche delle popolazioni dell’Indocina francese) nella dipendenza10. L’allora imperatore Qing aveva leggi severe nel paese e continuò a cercare di sradicare questa attività di contrabbando. La narrazione è un viaggio intenso nella complessa rete che il commercio clandestino aveva costruito e nel modo in cui aveva dato vita a criminalità e corruzione in tutti i ceti della società. Quando nel 1839 lo Stato cinese pose fine a questo commercio illegale per proteggere i propri cittadini, la Gran Bretagna intraprese due guerre devastanti11 che costrinsero la Cina a firmare trattati umilianti, cedette l’isola di Hong Kong e legalizzò l’oppio britannico-indiano per oltre mezzo secolo (dal 1860 al 1906). Il regime britannico costrinse anche paesi come Singapore a stipulare trattati. Insieme ad Hong Kong divenne un importante centro di smistamento. Anche le radici della Banca di Hong Kong e Shanghai (la Hongkong and Shanghai Banking Corporation – HSBC) sono riconducibili al commercio dell’oppio: fu fondata nel 1865 da un mercante scozzese Thomas Sutherland che aveva lavorato a Hong Kong per la Peninsular and Oriental Steam Navigation Company (P&O), e le transazioni iniziali della banca riguardavano l’oppio indiano.

Tutti i tentativi dello Stato cinese di limitare i danni causati dalla diffusione della dipendenza da oppio fallirono. Il divieto sull’importazione di oppio, imposto nel 1796 e nel 1800, fu aggirato tramite il contrabbando: la Compagnia delle Indie Orientali si avvalse di commercianti privati, autorizzati a trasportare merci dall’India alla Cina, per vendere l’oppio ai contrabbandieri di Whampoa/Huangpu lungo la costa cinese. Nel 1839, l’imperatore Daoguang, respingendo le proposte britanniche di legalizzare e tassare l’oppio, nominò il viceré di Huguang, Lin Zexu, a bloccare il commercio di oppio. Zexu si recò a Canton, dove arrestò i trafficanti, confiscò migliaia di pipe da oppio e, quando i mercanti britannici si rifiutarono di cedere le loro scorte di oppio in cambio di una multa, bloccò ogni commercio estero. Alla fine, i mercanti consegnarono un’enorme quantità di oppio, che fu bruciata sulle rive del Fiume delle Perle a Humen. Le conseguenti Guerre dell’Oppio indebolirono e delegittimarono ulteriormente l’autorità della dinastia Qing, già in difficoltà. Fu costretta a indennizzare con 6 milioni di dollari d’argento i mercanti per la distruzione delle loro scorte di oppio che aveva sequestrato e distrutto, a revocare il proibizionismo e a legalizzare il commercio di oppio. La crisi di dipendenza in Cina fu sfruttata dagli inglesi per giustificare un ulteriore sfruttamento coloniale e mercantile. Dopo le Guerre dell’Oppio, il commercio aumentò ulteriormente, diminuendo solo negli ultimi decenni del XIX secolo. Nel 1907 la Gran Bretagna firmò un trattato che prevedeva l’eliminazione delle esportazioni di oppio dall’India alla Cina entro il decennio successivo; in cambio, la Cina si impegnava a interrompere la produzione interna che nel frattempo era esplosa, soprattutto nelle regioni periferiche come lo Yunnan e la zona costiera del Fujian, tanto che nei primi decenni del XX secolo la Cina era il maggior produttore mondiale di oppio, responsabile dei sette ottavi della fornitura globale, e anche il maggiore esportatore di eroina. Il possesso di oppio fu criminalizzato in Gran Bretagna nel 1920. In ogni caso, fino al 1934-35, poco prima del secondo conflitto mondiale, l’oppio e l’impero britannico andarono a braccetto. “Ammettere che la salute pubblica passava in secondo piano rispetto alle entrate non era facile per regimi che si vantavano di accollarsi il fardello dell’uomo bianco portando il progresso ai nativi” (pag. 273).

Per la Cina, il risultato della sconfitta nelle due guerre dell’oppio fu catastrofico: in breve tempo l’economia cinese si dimezzò ed entrò in una crisi – un “secolo di umiliazioni” da parte di Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Stati Uniti, Russia, Austria-Ungheria e Giappone (con la prima guerra sino-giapponese nel 1894 che la costrinse a cedere Taiwan e altri territori, e poi con l’occupazione della Manciuria nel settembre 1931) che imposero la «politica della porta aperta» e la dominazione coloniale – da cui è uscita molto a fatica solo a partire dal 1949 con la vittoria dei comunisti guidati da Mao Tsé-tung.

Un indicatore della portata di questo commercio è il numero di autori famosi che compaiono nelle pagine di Ghosh. Ci sono Orwell (nato nel Bihar, dove suo padre era un vice agente del Dipartimento dell’oppio), Kipling (avvistato mentre visitava una fabbrica), Dickens (a favore del commercio dell’oppio) e Tagore (contrario)12. L’oppio ha contribuito a creare modelli moderni di controllo, sorveglianza e manipolazione. Mettendo a confronto immagini dell’oppio e della sua produzione, create da artisti britannici e indiani, Ghosh sostiene che le persone che acquistavano e vendevano l’oppio collaboravano con lo Stato coloniale per tessere una rete di “bugie e dissimulazioni” attorno al commercio dell’oppio.

 

Alle radici del capitalismo globale

Ghosh ripercorre l’effetto trasformativo che il commercio dell’oppio ebbe su Gran Bretagna, India, Cina, Asia del sud-est e Stati Uniti, così come sul mondo in generale. Progettato dall’Impero britannico, che faceva produrre l’oppio ai contadini poveri dell’India orientale e lo esportava per venderlo in Cina e altre regioni dell’Asia, il commercio e i proventi dell’oppio erano essenziali per la sopravvivenza dell’Impero. Ghosh offre una riconsiderazione energica del “libero mercato” come concetto utile per comprendere l’Impero britannico, un’entità che si è finanziata in India monopolizzando la produzione di oppio e negli insediamenti coloniali dello Stretto monopolizzando la distribuzione della droga. “Non furono il libero scambio o le leggi di mercato a gettare le basi dell’economia globalizzata”, scrive, “fu il commercio monopolistico di una droga prodotta sotto il controllo coloniale da contadini asiatici poveri – una sostanza che crea dipendenza, ovvero la negazione stessa della libertà” (pag. 159). Secondo Ghosh, le tracce più visibili del vecchio traffico di oppio si possono rintracciare nelle ideologie del libero mercato del capitalismo moderno. L’attenta analisi di Ghosh dimostra come la logica del libero mercato propagandata dalle contemporanee compagnie minerarie e di combustibili fossili per normalizzare l’espansione dell’estrazione delle risorse sia radicata nella dottrina impiegata dai commercianti privati britannici per giustificare l’inondazione della Cina con oppio di contrabbando.

Dopo un’esplorazione più approfondita, Ghosh trova l’oppio alle origini di alcune delle più grandi aziende del mondo, di molte delle famiglie e istituzioni statunitensi più potenti e del globalismo contemporaneo stesso. Gli Stati Uniti d’America avevano perso i rapporti commerciali con la Gran Bretagna dopo la Guerra d’Indipendenza (1776-1783) e la Cina offrì una via d’uscita. Venivano commerciati porcellane, tessuti e opere d’arte cinesi, così come il tè, ma ciò che alimentava il mercato era l’oppio. La nave americana Empress of China, da 360 tonnellate, salpò nel 1784, segnando il coinvolgimento dell’America nel nuovo e redditizio commercio. Nel 1804 i mercanti statunitensi iniziarono a trasportare oppio in Cina da Smirne in Turchia, aggirando abilmente la catena di approvvigionamento indiana controllata dagli inglesi. Nel 1818, gli Stati Uniti fornivano fino a un terzo del mercato cinese dell’oppio, commercializzando sia l’oppio turco sia parte dei quello della regione indiana di Malwa (in società con mercanti parsi e guajarati di Bombay), sfidando il predominio della Compagnia delle Indie orientali. Nuove imbarcazioni – i clipper di Baltimora – vennero costruite in America. Navigavano più velocemente delle navi mercantili. Tornati a casa, i mercanti “laureati di Canton” e futuri “bramini di Boston” WASP hanno mascherato la loro avidità in un signorile silenzio, condannato la “depravazione” degli appetiti cinesi e assunto stili di vita probi e ostentatamente religiosi. D’altra parte, molte delle famiglie mercantili da cui provenivano erano state parte attiva sia delle guerre di sterminio contro i nativi americani del New England sia del traffico atlantico di esseri umani. “Ai loro occhi, i tossicomani cinesi non erano che l’ennesimo popolo sacrificabile” (pag. 209). Sentiamo parlare di nomi di dinastie economiche del New England, New York e Philadelphia importanti come Astor, Forbes, Cabot, Roosevelt, Webster, Coolidge, Low che hanno fatto fortuna grazie al commercio dell’oppio, utilizzando i profitti per fondare la loro nuova economia, diversificando i loro investimenti in ferrovie, banche, assicurazioni, settore immobiliare, alberghiero, tessile, siderurgia, filantropia e istituzioni della Ivy League come le università di Harvard, Yale, Princeton, Pennsylvania e Brown13. Hanno anche riportato in auge motivi culturali cinesi quali dipinti, fiori, decorazioni, arredi, mobili, curiosità (cineserie) stili architettonici, abiti e altro ancora. Oggi, più di 30 città negli Stati Uniti hanno il nome Canton, afferma Ghosh.

Negli Stati Uniti, dove Ghosh ha trascorso gran parte della sua vita adulta e dove l’eredità dell’oppio nel XIX secolo è stata in gran parte sepolta e trascurata, scopriamo che il paese è stato fisicamente plasmato dai profitti derivanti dall’oppio: come le dighe e le ferrovie progettate e costruite nella regione degli Adirondack nel nord dello Stato di New York, ad esempio, siano state rese possibili dall’accumulo di capitale derivante dall’oppio in Cina da parte di una generazione precedente spinta da motivazioni di profitto, ignorando l’etica e la moralità. Qui Ghosh vede l’opportunità di confutare il mito del libero scambio, sostenendo che gli americani che andarono in Cina per fare affari all’inizio del XIX secolo avevano “i vantaggi della razza, della famiglia, della classe e dell’istruzione” e che le fortune dell’oppio con cui tornarono a casa furono costruite e protette “dalle strutture di parentela, classe e razza” (pag. 200). Questi vantaggi, sottolinea, hanno anche permesso a questo gruppo di sfuggire allo stigma associato allo spaccio di droga (non a caso, nota Ghosh, l’operazione di essere “legittimati” dal successo non è riuscita ad altri grandi trafficanti di narcotici come Lucky Luciano, Pablo Escobar e “El Chapo” Joaquín Guzmán).

In India le conseguenze a lungo termine furono ancora più profonde. Un capitolo breve ma incisivo intitolato “Storia di famiglia” apre una finestra sulle vicissitudini dell’impatto dell’oppio sull’India, mostrando come la storia della famiglia di Ghosh sia stata plasmata direttamente e indirettamente dalla droga. I capitoli nove e dieci completano il nostro viaggio attraverso l’India spiegando l’emergere di Malwa come sito alternativo per la produzione di oppio nel sud-ovest del Bengala, un ramo commerciale gestito da imprenditori indù nell’entroterra e poi esportato attraverso il porto di Bombay (oggi Mumbai) da mercanti della diaspora come i parsi, gli armeni e gli ebrei di Baghdad (come la famiglia Sassoon) che hanno tutti svolto un ruolo significativo nel commercio, sproporzionato rispetto alla loro popolazione relativamente piccola. Queste reti diasporiche, analizzate insieme ai cinesi d’oltremare del Sud-est asiatico e ai mercanti statunitensi, sono state importanti nella storia mondiale del commercio dell’oppio. Ghosh sostiene che questi gruppi hanno raggiunto il successo manipolando reti di informazioni vitali, altrimenti inaccessibili agli inglesi, e mostra come siano arrivati a ricoprire all’interno del progetto imperiale “un duplice ruolo, di collusione e sovversione”.

Il traffico di oppio ha avuto ripercussioni anche sulle attività commerciali regionali. Per molti commercianti indiani, il primo contatto con il commercio con la Cina è avvenuto attraverso l’oppio, che ha fornito loro esperienza e contatti utili in seguito per avviare commerci più legittimi tra i due paesi. Non solo ha fornito l’esperienza nel commercio internazionale per i commercianti locali, ma l’oppio ha fornito capitale iniziale per molte aziende e iniziative in tutta la regione, non solo in India e Cina, ma anche aziende e case commerciali a Giava e Singapore ne hanno beneficiato notevolmente.

Ghosh cita anche la differenza tra lo sviluppo nella parte orientale e occidentale dell’India. Mentre il Purvanchal (la regione gangetica del Bengala orientale) era sotto il completo controllo britannico dal 1757/1764 (dopo le battaglie di Plassey e di Buxar), la regione di Malwa (nel Bengala occidentale) riuscì a mantenere una relativa autonomia politica e mercantile; aveva un proprio commercio di oppio, che competeva con quello britannico gestito dal monopolio del “Dipartimento dell’oppio”. Pagavano solo i dazi sulle esportazioni e gestivano le operazioni di oppio come volevano. Qui crescevano coloratissime piante di papavero. Il risultato è stato che “a Mumbai è toccata l’economia, a Calcutta gli economisti”, afferma Ghosh (pag. 133). Queste disuguaglianze strutturali persistono ancora oggi. L’India orientale è più povera di quella occidentale, che resistette più a lungo al controllo totale britannico.

Nonostante gli sforzi europei e britannici di enfatizzare l’uso “tradizionale” dell’oppio sia in India che in Cina, nessuno dei due paesi aveva una storia di produzione o consumo simile a quella creata dall’imperialismo occidentale. “Fumo e ceneri” è un’opera avvincente e sconvolgente su come l’oppio sia diventato un insidioso strumento capitalistico per generare ricchezza per l’Impero britannico e altre potenze occidentali, a scapito di un’epidemia di tossicodipendenza in Cina e dell’impoverimento di milioni di contadini in India. È “uno degli aspetti più stupefacenti del rapporto dell’Occidente con l’oppio in Asia”, scrive Ghosh, che non solo le nazioni colonizzatrici “riuscirono a servirsi dell’oppio per ricavare dagli asiatici ricchezze incalcolabili, ma anche a offuscare il proprio ruolo sostenendo che il traffico di droga esisteva da tempo immemorabile perché le persone non bianche tendevano per natura alla dipendenza e alla depravazione” (pag. 48). Gli effetti di questo “conflitto biopolitico” continuano a riverberarsi oggi, sostiene, nello sfruttamento della dipendenza da oppiacei e oppioidi da parte delle aziende farmaceutiche complici della loro proliferazione.

In definitiva, “Fumo e ceneri” è un promemoria della devastazione e dello sfruttamento perpetrati in nome dell’impero. Il libro è irremovibile nella sua affermazione che “il racket dell’oppio dell’impero britannico era un’impresa criminale, totalmente indifendibile secondo gli standard della sua epoca e anche nostri”. Allo stesso modo, esaminando le eredità durature di questo racket della droga, il libro avanza una critica tagliente della globalizzazione sfrenata, dell’ipocrisia dei liberi mercati e del libero scambio, nonché dell’attuale ordine mondiale ineguale. Nel suo trattato in più volumi “Inchiesta sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni“, il filosofo scozzese del XVIII secolo Adam Smith descrisse il macellaio, il birraio e il fornaio come esempi del sano e illuminato interesse personale su cui si supponeva fosse costruito il capitalismo. Ghosh traccia una discendenza più inquietante, una discendenza tanto debitrice al contrabbandiere d’oppio quanto al mercante di schiavi. Per cui il suo lavoro evoca l’affermazione di Marx secondo cui il capitale venne al mondo “grondante di sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro”.

Alessandro Scassellati

  1. La trilogia Ibis – “Mare di papaveri”, Einaudi, Torino 2025; “Il fiume dell’oppio”, Einaudi, Torino, 2025; “Diluvio di fuoco”, Einaudi, Torino 2025 – pubblicata tra il 2008 e il 2015, è una ricostruzione romanzata degli eventi storici che portarono alla prima guerra dell’oppio tra l’Impero cinese e quello britannico (1839-1842). L’Ibis è un’ex nave negriera in seguito utilizzata nel commercio dell’oppio. La trilogia Ibis racconta dettagliatamente la crescita dell’oppio in India, il ruolo degli agenti britannici nel trasporto dell’oppio a “Canton” (l’odierna Guangzhou), l’unico porto cinese dove gli stranieri fossero autorizzati a commerciare dal 1757, seppure a condizioni assai restrittive, e l’enorme impatto internazionale del commercio dell’oppio. Tuttavia, per comprendere il contenuto di questo libro non è necessaria la conoscenza pregressa della trilogia. Comunque, Ghosh fa ripetutamente riferimento ai personaggi di questi romanzi: Deeti, un operaio la cui famiglia è una delle migliaia di persone che mantengono il ritmo incessante della produzione di oppio nella grande fabbrica di Ghazipur; Kesri Singh, fratello di Deeti, il cui incarico di havildar – un sergente – nella Compagnia delle Indie Orientali lo porta alla battaglia di Sanyuanli nella prima guerra dell’oppio; e Zachary Reid, un marinaio americano meticcio, il cui acquisto di oppio per le strade di Calcutta è il primo passo verso una carriera nel commercio di oppio. Questi riferimenti sono una scommessa in un’opera di non-fiction, ma sono efficaci nel dare vita ai frammenti biografici e alle tracce statistiche che compongono il quadro conoscitivo. Sono anche un promemoria di come le vite individuali siano inestricabilmente legate a un sistema complesso e imprevedibile, allora come oggi.[]
  2. Nella fabbrica di Ghazipur ci lavorava il 10% dei 40 mila abitanti della città. Le lavorazioni si svolgevano interamente a mano, e con i piedi. La fabbrica è ancora oggi attiva ed è una delle più grandi produttrici di oppio legale al mondo, confezionato per uso farmacologico.[]
  3. Due secoli prima, nel 1602, in una fase iniziale degli scambi commerciali tra Cina e Occidente, il gesuita italiano Matteo Ricci, il primo occidentale ammesso alla corte cinese, creò una mappa del mondo per l’imperatore Ming. Mostrava un’altra “Terra dei Fiori” scoperta di recente, che i conquistadores spagnoli chiamarono La Florida.[]
  4. Per secoli, l’umanità ha conosciuto il papavero da oppio e le sue proprietà psicoattive. I Sumeri lo chiamavano “Hul Gil”, ovvero “pianta della gioia”. Gli antichi Greci consideravano l’oppio una fonte sia di consolazione che di oblio. I Romani, consapevoli del rischio di abuso, continuarono a fare affidamento sulla pianta per le sue proprietà medicinali fino al V secolo a.C.. Nel XVI secolo, i Mongoli avevano trasmesso la pratica del consumo orale di estratto di papavero ai tre grandi imperi islamici: i Safavidi di Persia, i Moghul dell’India settentrionale e gli Ottomani di Turchia. Assunto sotto forma di tinture diluite e pillole o grani, l’oppio era apprezzato per la sua capacità di indurre il sonno e alleviare il dolore. L’uso ricreativo (solitamente nelle stesse forme anziché fumato) era limitato ai ricchi e alle classi superiori. La coltivazione su larga scala del Papaver somniferum era difficile e richiedeva molte risorse, e la lavorazione del lattice grezzo era un processo lungo e complesso che manteneva alti i prezzi e poneva l’oppio al di fuori degli interessi della stragrande maggioranza delle persone. L’oppio era certamente consumato in Cina prima del monopolio della Compagnia britannica delle Indie Orientali. A quel tempo, tuttavia, il suo uso come panacea medica – e, in seguito, come afrodisiaco – era riservato a un’élite costiera. E, finché l’offerta (principalmente importata dal Medio Oriente) fu limitata, la droga rimase un lusso per i consumatori cinesi. È stato solo quando le qualità assuefanti dell’oppio hanno interagito con la logica dell’accumulazione di capitale che inizia il problema che altera la storia. David T. Courtwright, un eminente studioso di narcotici, ha definito “capitalismo limbico” questo incoraggiamento e sfruttamento, orientato al profitto, della capacità del cervello di creare dipendenza.[]
  5. Amitav Ghosh ha già scritto di piante, commercio, narrazioni occidentali di progresso e eredità dell’impero. “La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi” (Feltrinelli, Milano 2022) inizia con il genocidio inflitto dalla Compagnia olandese delle Indie orientali (Vereenigde Oostindische Compagnie, o VOC, fondata nel 1602) nel 1621 agli abitanti nativi delle isole indonesiane di Banda, l’unico posto al mondo in cui la noce moscata cresceva all’inizio del XVII secolo, quando era più costosa dell’oro. Vennero inviate 50 navi e 2 mila uomini (tra cui 80 ronin giapponesi, mercenari samurai senza padrone) che hanno spostato a Giava, ucciso, catturato e ridotto in schiavitù il 90% dei 15 mila indigeni. E per le piantagioni servivano da 5 mila a 7.700 lavoratori a contratto e schiavi (dai due terzi ai tre quarti) all’anno portati da Gujarat, Malabar, Coromandel, penisola malese, Giava, Borneo, Cina costiera, Buton e isole delle Molucche, Kai e Aru. Ghosh ha sostenuto che le atrocità commesse dalla VOC fossero sintomatiche di una visione illuministica europea emergente della terra come risorsa da sfruttare, piuttosto che come entità vivente con cui gli esseri umani coesistono. Ciò ha posto le basi per l’industrializzazione e l’intensificazione del capitalismo, sistemi che hanno reciso i legami tra gli esseri umani e il mondo naturale, trasformando foreste, fiumi e suolo in merci da estrarre e lavorare su vasta scala. Il commercio dell’oppio ha seguito questa traiettoria distruttiva in molti modi, ma il papavero si differenzia sia dai combustibili fossili che dalle risorse minerarie in quanto non ha mai corso il rischio di esaurimento delle scorte. Né vi è stata la sfida, come per la noce moscata, di mantenere il controllo sulla combinazione unica di condizioni che ha reso possibile a una pianta di prosperare in un luogo specifico. Piuttosto, si è assistito a una serie di acquisizioni ostili delle economie locali, a un aggressivo aumento della produzione e alla spietata monopolizzazione delle catene di approvvigionamento.[]
  6. La Cina era diventata «la tomba del tesoro americano» dato che si stima che la quantità di argento che affluì in Cina tra il 1719 e il 1833 sia stata pari ad un quinto di tutto l’argento prodotto in Messico durante questo periodo, e forse fino al 20% di tutte le scorte europee di argento. Un problema di squilibrio della bilancia dei pagamenti che aveva avuto anche l’impero romano che doveva pagare in oro e argento le importazioni di spezie, aromi, balsami, unguenti, profumi, colori, mussole e pietre preziose dall’India. Anche durante il medio evo era continuato il flusso di metalli preziosi attraverso l’Italia a Bisanzio e al mondo musulmano, e da qui verso l’India. Oltre ad oppio e cotone grezzo indiano, gli inglesi riuscirono a vendere ai cinesi anche l’olio di sandalo e il cetriolo di mare prodotti nelle isole del Pacifico, nonché le pelli di foca della costa nordoccidentale del nord America. Dopo il 1850, gli inglesi esportarono in Cina anche filati e tessuti industriali di cotone prodotti in India.[]
  7. George Orwell, nato nel 1903 come Eric Blair a Motihari, quasi al confine col Nepal, figlio di un agente dell’oppio e lui stesso un ufficiale della polizia imperiale indiana in Birmania, è qui in primo piano come mezzo attraverso cui Ghosh sottolinea il terrificante impatto che l’oppio stava avendo sul governo coloniale.[]
  8. All’inizio del XVII secolo, i mercanti portoghesi e olandesi erano ansiosi di sfruttare le redditizie rotte commerciali asiatiche, alla ricerca di spezie, tessuti, pietre preziose e altre merci di valore. Come i suoi concorrenti, la Compagnia Olandese delle Indie orientali (VOC) si servì di alleanze strategiche locali e di donazioni per ottenere l’accesso ai mercati regionali. Parte della sua strategia per ottenere il predominio nel commercio delle spezie nell’Oceano Indiano era quella di fornire oppio ai governanti locali come parte delle negoziazioni. Ciò ha favorito la buona volontà e ha creato domanda per il prodotto, che la VOC cercò di monopolizzare, espandendo le sue reti commerciali in tutta l’Asia. Sebbene l’oppio fosse difficile da coltivare e lavorare, era la merce perfetta per il commercio marittimo: era compatto e leggero, e sufficientemente stabile da poter percorrere lunghe distanze nelle stive delle navi. Le pratiche della VOC non sfuggirono all’attenzione degli inglesi, che furono fin da subito degli appassionati di beni di lusso e curiosità asiatiche.[]
  9. L’oppio non era sconosciuto agli inglesi. Sotto forma di laudano, una miscela di oppio e alcol, si trovava in medicinali usati per curare qualsiasi cosa, dal mal di testa all’insonnia, dalla nausea mattutina alle coliche, sotto forma di sciroppi dolci come il Godfrey’s Cordial. Sebbene queste medicine creassero dipendenza e fossero talvolta fatali, l’impatto dell’oppio assunto per via orale impallidiva in confronto alla devastazione provocata dal fumo di oppio, che i mercanti iniziarono a promuovere con aggressività in Cina.[]
  10. Ghosh affronta anche il ruolo degli olandesi che hanno guidato l’espansione dei mercati dell’oppio nell’odierna Indonesia e hanno combattuto le loro piccole guerre dell’oppio con i governanti locali per reprimere il loro tentativo di proibire l’oppio.[]
  11. È in questa fase storica che l’impero britannico raggiunse un vantaggio insuperabile sui mari. Il corpo di spedizione salpato per la Cina nel 1840, all’inizio della prima guerra dell’oppio, era di dimensioni insignificanti (circa 25 navi e 2 mila soldati, ai quali si aggiunsero 2 mila sepoy/mercenari indiani, in gran parte reclutati nel Bihar), ma aveva un’arma segreta: il piroscafo corazzato Nemesis alimentato a vapore.[]
  12. Ghosh esamina le disparità e le differenze nel modo in cui scrittori e pittori britannici e indiani documentavano e ricordavano l’attività di produzione e smercio dell’oppio. Il saggio di Dickens sull’oppio in “Household Words” (1850-1859) è un classico esempio di doppiopesismo vittoriano, in cui egli contrappone alle critiche al commercio dell’oppio la difesa del commerciante secondo cui “se si controllasse o proibisse questa droga, sorgerebbe il desiderio ardente di qualche altro stimolo” e conclude che “il lettore troverà che per la questione dell’oppio non c’è una risposta sbrigativa”. Nello stesso periodo in cui Rudyard Kipling scriveva in modo neutrale sull’oppio al passivo, in quello che Ghosh descrive come “un esempio straordinario del modo in cui la lingua inglese veniva spesso usata per occultare e naturalizzare pratiche e politiche coloniali”, il suo contemporaneo Rabindrath Tagore scrisse che “nel traffico di oppio indo-cinese, la natura umana è scesa a un tale livello di abietta turpitudine, che ci è odioso anche solo seguirne la storia fino alle sue conclusioni”. Il nonno del poeta, Dwarkanath Tagore, però, fu tra i mercanti indiani che, dopo la prima guerra dell’oppio, chiesero al governo coloniale una parte delle riparazioni che la Cina era stata costretta a pagare a seguito del trattato di Nanchino. Ghosh non menziona molti scrittori cinesi, sebbene menzioni “Il discorso sull’oppio” (1878) di Zhang Changjia, che descriveva la droga come parte integrante della modernità fumosa che le potenze occidentali avevano portato in Cina. Ce n’erano altri, naturalmente, in particolare Peng Yangou, le cui “Souls from the Land of Darkness” (1909) denunciavano l’eredità generazionale e il trauma della dipendenza.[]
  13. Warren Delano Jr, nonno materno di Franklin Delano Roosevelt, fu uno dei tanti uomini d’affari i cui interessi nel trasporto marittimo si concentravano sull’oppio. Gli Astor e i Cabot, i Webster, i Coolidge e i Forbes commerciavano tutti in oppio per consolidare il proprio futuro nell’incerto panorama economico dell’America di inizio Ottocento. Subito dopo la Prima guerra dell’oppio, Abiel Abbot Low, che conosceva il commercio in Cina, fondò una propria compagnia di spedizioni (con una flotta di 16 clipper per trasportare oppio) e con i profitti costruì una villa a Brooklyn Heights, dalle cui finestre la sua famiglia poteva ammirare la Statua della Libertà. Nel 2015 era in vendita per 40 milioni di dollari. Seth Low, figlio di Abiel Abbot, divenne sindaco di New York e presidente della Columbia University. Nel 1840, dopo sei anni trascorsi in Cina con la ditta americana Russell and Co, Low era tornato a New York con “una fortuna piuttosto consistente” e “una mente soddisfatta”. La soddisfazione derivava dall’essersi ritirato da “un ramo d’affari che ultimamente è sembrato in realtà poco raccomandabile”. Il commercio cinese di Russell riguardava principalmente l’oppio, e sembrava poco raccomandabile perché l’importazione di oppio era appena stata vietata dall’imperatore. Low se ne era andato finché andava bene, non perché disapprovasse l’inondazione della Cina di oppio, ma perché “ci fa perdere la stima delle classi più abbienti [cinesi]”.[]
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