di Francesca Lacaita –
Condivido quasi tutto dell’articolo intitolato Affrontare le disuguaglianze per una nuova Europa che Rosa Fioravante ha scritto per «Left»del 25 maggio 2018. Si tratta di un articolo da leggere e da meditare, soprattutto quando invita gli europeisti a non fissarsi sulle ingegnerie istituzionali, ma a considerare le politiche concrete che si attuano nella UE e il loro impatto sulle popolazioni e i territori. C’è un punto però che mi lascia perplessa, e che vorrei discutere qui. È quando Rosa scrive: «All’aumento delle disuguaglianze materiali è corrisposto anche l’ampliamento della distanza sociale fra i cosiddetti “frequent flyers”, colti, cosmopoliti, coloro che possono lavorare e abitare indifferentemente in diverse parti del mondo, e i “comunitaristi”, coloro che sono ancorati al proprio territorio, che sono gelosi delle proprie tradizioni e spesso diffidano degli stranieri. Poiché i primi sono una minoranza numerica e sociale e i secondi una fetta sempre più ampia, sarebbe necessario, per prevenire le tensioni estreme xenofobe e conservatrici, costruire un dibattito». Accetto l’invito ed entro nel dibattito, ribadendo che sono d’accordo con Rosa nelle conclusioni. È questa dicotomia tra “frequent flyers” e “comunitaristi” che considero riduttiva e poco utile a rilanciare la sinistra in Italia o in Europa.
Certamente, dopo le vittorie della Brexit e di Trump tale dicotomia (di per sé non nuovissima) sembra acquisire sempre più consistenza e diffusione, tanto più che si rivolge alla cattiva coscienza di chi ha abbandonato i “perdenti della globalizzazione” al loro destino. Ma non possiamo ignorare le semplificazioni che essa contiene. Innanzitutto mette insieme senza troppe remore situazioni sociali, condizioni di vita, posizioni politiche e attitudini culturali. Non tutti quelli che possono vivere e lavorare indifferentemente in diverse parti del mondo sono colti e cosmopoliti nel senso comune del termine; la rabbia per la propria esclusione non necessariamente si traduce in attaccamento per le proprie tradizioni; né chi è ancorato per varie ragioni al proprio territorio ha sempre tendenze “comunitariste”. È soprattutto a proposito delle migrazioni che questa dicotomia impone una visione univoca, si direbbe “nordeuropea”, della realtà. Da un lato le assimila al mondo dei “frequent flyers”, dei cosmopoliti, dei “cervelli in fuga”, per i quali non sussistono problemi. Dall’altro le vede quasi esclusivamente in termini di minaccia per chi rimane – minaccia culturale, o minaccia sociale per la concorrenza sulle risorse. Una prospettiva che si può avere, appunto, dalle regioni più ricche del Nord o del cuore del Continente. E che cancella altri aspetti propri delle realtà del Sud o dell’Est, come la lunga storia di migrazioni, il loro aumento o la loro ripresa a causa di una nuova divisione internazionale del lavoro prodotta dalla globalizzazione, il loro carico di sfumature o ambivalenze (migrazioni in parte “forzate”, in parte, contemporaneamente, frutto di un progetto di realizzazione personale; paesi da cui qualcuno parte e, contemporaneamente, in cui qualcun altro arriva), nei legami con il territorio di origine, nell’integrazione con la società di destinazione. In particolare, cancella la soggettività civile e politica dei migranti “reali”, relegandoli in una dimensione esclusivamente privata e depoliticizzata.
Ai tempi della migrazione operaia dal Sud verso il Nord e il cuore dell’Europa nel secondo dopoguerra si erano formate nelle società di arrivo reti vivacissime di associazionismo culturale, sociale, sindacale e anche politico, con i partiti che avevano le loro sezioni anche all’estero. Successivamente, l’estensione e la codificazione dei diritti di cittadinanza europea, con il divieto di discriminazione tra cittadini europei e l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni locali e in quelle europee alle stesse condizioni dei cittadini locali, fecero progredire non solo l’integrazione sociale dei migranti, ma anche quella politica, con i partiti locali che inserivano candidati stranieri per rivolgersi anche alle loro comunità. Di tutto questo in Italia si aveva poca o nessuna contezza. «Dice che i romeni possono votare. Sarà vero?» «Ma allora lo dico ai miei amici romeni!» – così uno scambio di e-mail il giorno delle elezioni europee del 2009 quando ero ancora in qualche mailing list di un partito con velleità di vocazione maggioritaria, i cui maggiori esponenti nazionali non si erano fatti scrupolo, un paio di anni prima, di scagliarsi sulla comunità romena in Italia con toni di puro razzismo a seguito di un fatto di cronaca nera. Naturalmente i diritti di cittadinanza europea non erano di per sé sufficienti a realizzare una situazione di uguaglianza tra cittadini locali e migranti, tanto più che si veniva così a creare una discriminazione lampante tra migranti “comunitari” ed “extracomunitari”. Ma, si pensava, intanto si è aperta una breccia. I diritti di cittadinanza sono per la prima volta distinti (anche se non indipendenti) da una specifica nazionalità. Si potrà meglio lottare per l’uguaglianza dei diritti di tutti.
La situazione intanto si è fatta più complessa, e per vari aspetti più difficile. Se in epoca fordista il lavoro aggregava e integrava, ora si è fatto precario e segmentato su base occupazionale ed etnica, con una corrispondente segmentazione anche in termini di diritti. Le reti associative della vecchia migrazione stanno venendo meno, e quelle della nuova non sempre riescono ad essere adeguatamente incisive in un contesto in cui la qualità della vita democratica s’impoverisce sempre di più, in Italia come in altrove in Europa. Nel frattempo, si vanno svuotando anche i diritti di cittadinanza europea, soprattutto in nome della lotta al cosiddetto “turismo del welfare”, nonostante non ci siano prove né della sua esistenza, né di danni ai bilanci degli stati dovuti all’accesso a misure di welfare da parte dei migranti. La Commissione Europea, che in passato aveva difeso la libera circolazione e i diritti di cittadinanza contro gli attacchi degli stati più ricchi, ora tiene un profilo più basso e prudente. La Corte di Giustizia Europea, dopo una fase in cui aveva rafforzato con le sue sentenze la stessa cittadinanza europea, ha affermato di recente la subordinazione dell’accesso alle prestazioni sociali alla propria condizione economica. La separazione dell’accesso al lavoro dall’accesso ai diritti sociali riporta l’orologio indietro agli albori dell’integrazione europea. I “comunitari” sono ora uguali agli “extracomunitari” (in attesa che anche ai cittadini nazionali prima o poi vengano tagliati i loro “privilegi”). E come gli “extracomunitari”, anche loro sono passibili di espulsioni. Tra i casi più noti ci sono le espulsioni dei rom da parte di Sarkozy nel 2011-2012, e dei più di 10.000 cittadini europei (di cui circa il 10% italiani) espulsi dal Belgio tra il 2008 e il 2016 per ragioni economiche. Anche in UK sono aumentate le espulsioni di cittadini comunitari, specie dopo il referendum sulla Brexit.
Più che a un divario “vuoto” tra “frequent flyers” cosmopoliti e “comunitaristi” impoveriti occorre quindi pensare a tutto quanto si muove nel loro mezzo, dai profughi ai migranti “extracomunitari” alle prese con situazioni nettamente diversificate a seconda del paese di arrivo, ai migranti dell’Europa dell’Est che emigrano nei paesi dell’Europa del Sud, e anche in quelli dell’Europa del Nord, assieme a molti nostri connazionali, ai figli e ai nipoti dei “comunitaristi” italiani arrabbiati, nonché ai giovani della “generazione Erasmus”, che teoricamente sarebbero “frequent flyers”, ma che non riescono a sfuggire tutti al precariato e alla proletarizzazione intellettuale. Situazioni in parte analoghe e condivise, in parte fortemente diversificate e stratificate, con una chiara gerarchizzazione di diritti che passa non solo dalla residenza in un determinato territorio ma anche dalla provenienza nazionale, dallo status giuridico, dalla condizione sociale che ci si porta dietro dovunque si vada. La lotta contro le disuguaglianze in Europa passa anche da qui, dalla difesa dei sempre più precari diritti di cittadinanza europea, dal loro ampliamento e dalla loro estensione, dalle lotte sociali al di là dei confini nazionali e di quelli che ciascuno di noi si porta appresso. Passa anche da mobilitazioni e sinergie consapevoli che coinvolgano comunità di partenza, comunità di arrivo e comunità di transito. In parte questo sta già avvenendo, al di fuori delle organizzazioni politiche e sindacali tradizionali. Nel loro libro da poco uscito Citizens of Nowhere: How Europe Can Be Saved from Itself(Zed Books), Lorenzo Marsili e Niccolò Milanese raccontano delle lotte per i diritti dei lavoratori nella gig economy e nella new economy, a partire dal Regno Unito, che hanno avuto per protagonisti e organizzatori principali proprio i migranti, e che anche tramite loro si sono diffuse e innestate in altre realtà europee. Concludono i due autori: «la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea offre notevoli opportunità per l’organizzazione del lavoro al di là dei confini e per solidarietà dal basso, allo stesso modo in cui la legislazione relativa ai lavoratori distaccati e che promuove la concorrenza dall’alto rende difficile la tradizionale organizzazione del lavoro nazionalizzato». Certamente occorrono una disponibilità e una capacità di ascolto e di mettersi in discussione che non sempre la sinistra ha mostrato di avere.
Mi trovavo a una manifestazione di piazza a Milano l’anno prima delle ultime elezioni comunali, e conversando con un attivista della sinistra milanese auspicavo che l’imminente campagna elettorale coinvolgesse anche i migranti con diritto di voto. «Ma quelli dell’Europa dell’Est sono di destra! – ribatté il mio interlocutore – i nostri amici sono quelli dall’Africa e dall’America Latina». A prescindere dalla questione se la provenienza geografica sia un criterio valido per dedurre l’orientamento politico, una sinistra che ammette di non avere nulla, ma proprio nulla da dire ai cittadini romeni, polacchi o bulgari che vivono nella propria città, non avrà molto da dire nemmeno ai connazionali che vivono nelle periferie, e che condividono molte delle condizioni di vita di quei migranti dell’Europa dell’Est. E, alla lunga, nemmeno a chi viene dall’Africa o dall’America Latina.
Nel suo articolodel 1° giugno su Transform! Italia, Roberto Musacchio introduce l’apparente paradosso della “globalizzazione nazionalistica”, che sembra fare da pendant a un altro apparente paradosso, quello del “populismo senza popolo” di cui parla Marco Revelli nel suo articolo sul «Manifesto»del 2 giugno. Entrambi i paradossi, cioè, designano la disgregazione, paralisi e impotenza dei soggetti sociali anche in rapporto a quegli “ismi” – nazionalismo e populismo – che promettono di dar loro una voce diretta, immediata e “naturale” in quanto “nazione” o “popolo”, ma che di fatto non ostacolano la globalizzazione neoliberalista, anzi ben vi si adattano, rivelando la natura illusoria di tali costruzioni. In questa fase, quindi, ogni sforzo di resistere collettivamente alle devastazioni di queste strane alleanze neoliberali, nazionaliste e populiste, di ricostruire un tessuto sociale “denso che superi il senso di solitudine e il rancore, non può che partire dal riconoscimento della pluralità di situazioni ed esperienze presenti sui territori stessi, delle loro connessioni, della loro interdipendenza, delle istanze di uguaglianza nei diritti di cittadinanza. Proprio perché, come scrive giustamente Rosa Fioravante, «l’Europa può diventare il luogo dove si rifiuta la giustapposizione di interessi per riconoscere l’altro come tale, senza ricorrere alla scorciatoia del minimo comun denominatore e senza fingere unanimismi impossibili». Nei territori, tra i territori, a vari livelli, in Europa.