Prendiamo lo spunto dall’ultimo evento salito all’onore delle cronache per qualche riflessione sul grado razionalità, sulla capacità di elaborare e applicare un pensiero strategico nell’epoca in cui cresce il supporto delle ‘intelligenze artificiali che si applicano a una mole sterminata di informazioni, raccolte capillarmente ed in tempo reale in ogni anfratto delle società. Il ritiro dall’Afghanistan ha mostrato una straordinaria incapacità di capire lo sviluppo di una situazione complicata e complessa da parte di chi deve prendere decisioni cruciali, ci riferiamo all’amministrazione Biden. Ciò che stupisce maggiormente è il fatto che funzioni di governo come l’intelligence, i comandi militari e altri osservatori sul campo avessero predetto ciò che poi è avvenuto ossia lo sgretolamento delle forze armate afghane. Ciò che è salito all’onore delle cronache non è stato tanto la decisione di ritirarsi da parte della amministrazione Usa e degli alleati della NATO, era già stata presa dalla precedente amministrazione Trump con gli accordi di Doha ed era nell’aria da prima di fronte all’impossibilità di chiudere militarmente la situazione, colpisce invece l’incapacità di pianificare il ritiro usando le informazioni disponibili, tenendo conto delle conseguenze, dei destini di un parte importante della popolazione afghana.
C’è una distanza abissale tra l’uso sempre più spinto di reti informative, capaci di registrare in tempo reale lo stato di sistemi altamente complessi, di individuare e connettere persone e dispositivi, da un lato e dall’altro l’insipienza, l’impreparazione in cui si è fatta trovare quella che è ancora la maggiore potenza tecnologica, economica e militare del globo. Non è questione di poco conto, che possa essere risolta con la retorica della guerra popolare qualunque sia il segno di cui essa si fa portatrice. Non si possono confrontare gli Stati Uniti del Viet Nam con quelli dell’Afghanistan, del resto l’Afghanistan del 2021 non è più quello del 2001, quantomeno nelle città, una nuova generazione si è presentata sulla scena, così come la Kabul del 2021 non è quella distesa di macerie che era la Kabul del 2021. Non c’è stata la capacità di dare un minimo di consistenza a quel progetto di Nation Building – così presente nella cultura politica, nella visione strategica che si oppone alla corrente dell’isolazionismo, fondata sull’esperienza della ricostruzione economica, sociale, culturale e politica del Giappone e della Germania dopo la seconda guerra mondiale di cui abbiamo riferito in un articolo precedente – incidendo sulla struttura economica, i rapporti sociali , le forme di governo e amministrazione.
Qualcuno ha commentato la situazione dicendo che un qualsiasi centro studi Harvard non è in grado di comprendere ciò che accade in un villaggio afghano, ridurre a questo non solo il fallimento, ma l’incapacità di definire un progetto – la definizione come neo-coloniale, neo-imperialista non fa nessuna differenza – all’altezza delle pretese del cosiddetto Nation Building, è abbastanza ridicolo. L’insipienza nel gestire il ritiro è solo l’ultimo anello di una catena di azioni nella quale neppure la possibilità di sfruttare le ricchezze minerarie del paese, di costruire le infrastrutture necessarie, ha stimolato l’adozione di una progettualità più complessa di quella che abbiamo visto, che le analisi e ricostruzioni degli eventi dei 20 ann di occupazione, assai numerose, ci offrono. La qualità dell’ultimo governo afghano con il suo illustre primo ministro fuggito con numerose valigie piene di contanti è un indizio più che significativo dello stato delle cose che hanno preceduto la fulminea presa di potere degli studenti coranici.
Le ultime dichiarazioni di Biden, del 24 agosto, riassumibili nella frase ‘missione compiuta’ nella lotta contro il ‘terrorismo’ – dieci anni dopo l’uccisione di Bin Laden – appaiono decisamente ridicole, ricorda il Mission Accomplished speech del presidente Bush sulla portaerei USS Abraham Lincoln il primo maggio 2003, uno striscione con scritto “Missione compiuta” venne usato come sfondo per il discorso e ciò fu determinante per l’associazione della frase a quel discorso.
Oggetto di queste considerazioni è il grado di razionalità e coerenza della gestione dell’intera operazione durata oltre 20 anni, lasso di tempo nel quale, come abbiamo più volte sottolineato in diversi articoli, a livello globale si è realizzato uno sviluppo tecnologico esponenziale, un vero e proprio sconvolgimento più che una evoluzione graduale delle formazioni sociali. Si è passati oltre la società 2.0, si parla di industria 4.0 e oltre, ma tutto questo non sembra aver modificato le strategie utilizzate in quel piccolo paese roccioso, in compenso oggi si parla a livello giornalistico di Talebani 2.0. Certo sono cambiati radicalmente in questi 20 anni dispositivi e attrezzature militari, l’apparato informativo a tutti i livelli organizzativi, l’ordine di grandezza delle informazioni trattate è cresciuto a dismisura. Fa una certa impressione confrontare le cronache della situazione afghana con le discussioni sulla pervasività delle tecnologie digitali, le tecniche di video sorveglianza e identificazione facciale, il loro nesso indissolubile con le biotecnologie, il connesso sviluppo delle tecniche di manipolazione delle relazioni sociali, di estrazione di valore da esse. Nel dibattito attuale, non c’è quasi traccia di presa in considerazione di questi cambiamenti del contesto globale in cui la situazione afghana si colloca e che attraversano la stessa situazione locale; sembra che la capacità di analisi e di intervento sia rimasta quella della guerra nel Viet-Nam, coee se non fosse passato un mezzo secolo.
La sinistra è orfana del movimento contro la guerra del 2003, la seconda potenza mondiale, che si è concluso con l’invasione dell’Iraq. Un equivalente movimento 2.0 contro la guerra comparabile con quello di inizio secolo non si è più manifestato pur avendo innervato coi suoi contenuti la rete dei movimenti organizzata attorno al Social Forum Mondiale; i movimenti contro la globalizzazione neo-liberista hanno conosciuto altre forme, anche se l’opposizione alla guerra è rimasto un contenuto centrale, trasversale a tutti i movimenti; nel frattempo è cambiata la geografia dei conflitti, si è fatta più articolata, diffusa e complessa; si sono diffusi da Afghanistan e Iraq in Siria, in tutto il medio oriente, l’area del mediterraneo, il Sahel e l’Africa sub-sahariana, attraverso le primavere arabe, acutizzati dalle crisi delle società nazionali prodotte dai cambiamenti della divisione internazionale del lavoro, dalla crisi finanziaria globale del 2008-2011, dalle ondate che scuotono periodicamente il sistema monetario e finanziario internazionale, infine sempre più appesantite dal peso del debito. I curdi per fare un piccolo esempio rimpiangono l’ombrello di protezione dell’aviazione USA ritirato dall’amministrazione Trump mentre la Turchia di Erdogan sosteneva l’ISIS favorendone il passaggio attraverso i suoi confini.
Il movimento contro la guerra ha coniuga in maniera indissolubile gli obiettivi della pace e della giustizia sociale assieme all’autodeterminazione dei popoli e dei territori. Nell’anniversario delle giornate di Genova 2001 abbiamo ricordato i contenuti del movimento dei Social Forum, che in realtà si è svolto nella fase conclusiva della globalizzazione prima dell’esplosione del processo di trasformazione tecnologico-finanziaria legata alle forme nuove e pervasive della digitalizzazione; la crisi ecologica e climatica, le sue origini strutturali nell’economia capitalistica, già presenti nei movimenti contro la globalizzazione, è diventata contenuto centrale con la presa di coscienza del suo precipitare – anche attraverso una sempre maggior precisione dei modelli di previsione ed il manifestarsi di fenomeni metereologici sempre più violenti e frequenti – sino al movimenti dei Fridays For Future. Infine abbiamo avuto l’irruzione della pandemia che ha chiuso il cerchio della crisi del rapporto uomo natura ed ha esaltato il ruolo di Big Pharma, a cui è stato e finanaziato il gigantesco sforzo tecnologico di sviluppo dei vaccini, assieme alle diseguaglianze in un mondo dove il livello di vaccinazione nei paesi a minor reddito non supera percentuali minime ad una cifra, mentre nei paesi più ricchi avanza la privatizzazione degli apparati sanitari.
Del precipitare della situazione afghana abbiamo preso in considerazione l’incapacità da parte delle amministrazioni Usa, da Bush a Biden passando per Obama e Trump, di applicare un pensiero strategico, una sorta di razionalità ‘imperiale e umanitaria’ supportata dalla crescente potenza di raccolta, trattamento e analisi delle informazioni; si evidenzia l’incapacità di coordinare le diverse funzioni regolatrici della società, i diversi poteri. L’orizzonte sempre più vicino della catastrofe climatica, mentre percorriamo un cammino costellato da catastrofi locali sempre più frequenti, illumina a sua volta la mancanza di un agire strategico a livello globale, nonostante gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti verso il carbon zero di Cina e Unione Europea.
Ce la possiamo sbrigare con la considerazione delle irrisolvibili contraddizioni del sistema capitalistico e associarci criticamente ai balli che si svolgono sul Titanic dell’economia-mondo che si avvia a scontrarsi con l’iceberg delle crisi climatiche, sociali e pandemiche. Sotto i colpi della pandemia si sono disperse le mobilitazioni che sulla crisi climatica si erano diffuse a livello globale, è necessario oggi più che mai un movimento, una rete di movimenti che coniughi pace e giustizia sociale, in tutte le accezioni generate dalla nuova configurazione della formazione sociale globale, dell’economia mondo e delle sue crisi.
La repentina precipitazione della ventennale vicenda afghana ha risvegliato coscienze sopite, ha messo all’ordine del giorno la conclusione di una guerra, in una forma inedita e carica di contraddizioni, che tuttavia non è certo il frutto della mobilitazione dei movimenti; forse bisogna tornare al Viet-Nam per trovare un movimento di massa in grado di opporsi e accompagnare in tutto il suo svolgimento una guerra affiancando una reale guerra di popolo, di liberazione. La scelta dell’amministrazione Biden dopo gli accordi decisivi di Doha e le esitazioni di Obama, è il frutto di un dislocarsi degli equilibri strategici e degli interessi delle parti in causa. La fine della guerra, almeno nella forma che abbiamo conosciuto, sancisce la fine della finzione della vecchia guerra permanente contro il terrorismo, mentre potenze grandi e piccole imparano a muoversi nel labirinto dei nuovi conflitti, nell’attesa di un nuovo movimento globale.
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I movimenti si sono persi,anch’io mi sento persa!
La società,noi, sembriamo ipnotizzati e col cuore sospeso.
Dobbiamo reagire ed essere presenti, far sentire la nostra voce! Le guerre non solo il fine ultimo delle comunità!!