articoli

Fermiamo la guerra

di Stefano
Galieni

La celebre “Colomba della Pace”, uno dei simboli pacifisti per eccellenza, fu donato dall’autore, Pablo Picasso, alla prima conferenza del Movimento dei Partigiani della Pace, che si tenne a Parigi nel 1949. Nasceva allora, su forte spinta italiana, un movimento di rifiuto della guerra fortemente orientato politicamente come filosovietico. Le ragioni di tale orientamento, che coinvolse importantissime figure intellettuali, della cultura e della politica erano facilmente comprensibili. Gli Usa avevano da poco dato vita alla NATO e proseguito una campagna anticomunista interrotta soltanto durante la Seconda guerra mondiale, ma che stava riprendendo piede. Inoltre gli Stati Uniti erano usciti dal conflitto come l’unica potenza nucleare, mentre buona parte dell’Europa era impegnata nel faticoso periodo della ricostruzione. Un simile contesto era sufficiente per comprendere da dove potevano provenire nuovi conflitti. In quegli anni, nonostante l’invasione in Ungheria del 1956, l’Urss era raccontato e percepito come paese portatore di pace e di un nuovo modello di sviluppo mentre l’occidente continuava a godere delle immense ricchezze degli imperi coloniali. I movimenti di liberazione, nel continente africano come nell’allora Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia), ottennero il sostegno immediato non solo dei Partigiani della Pace ma di ampi e vasti settori politici, intellettuali, culturali dell’intera Europa, mentre negli Usa imperava lo spettro del maccartismo. Il XX congresso del PCUS con la prima fase di destalinizzazione ebbero un impatto nell’immaginario potente. L’URSS non rappresentava più per molti una alternativa. La prima marcia “Perugia Assisi” promossa da Aldo Capitini, Danilo Dolci ed altri aveva già una impostazione etica e strategica. Si presupponeva che i blocchi in cui si stava dividendo il mondo non potevano avere nulla a che fare con la parola “pace”. Se da una parte si alzava la “cortina di ferro” col Muro di Berlino, molti paesi delle colonie avanzavano verso l’indipendenza, almeno formale. La critica radicale restò incentrata verso l’occidente, complice anche le nefandezze commesse con l’appoggio Usa, in America Latina e il fascismo ancora imperante in alcuni paesi europei come Spagna e Portogallo. Si avanzavano però altrettante richieste di cambiamento che resteranno in gran parte insoddisfatte dopo i carri armati a Praga (1968) mentre uno spiraglio di multipolarismo nasceva nel mondo vasto e complesso dei “Paesi non allineati”, organizzazione che nasce nel 1961, tuttora esistente e vista sin dall’inizio con aperta ostilità soprattutto dai paesi NATO ma in maniera meno evidente anche dall’URSS.

Il movimento pacifista italiano è, nella fase iniziale, fra quelli che lanciano maggiori prospettive. Se la guerra in Vietnam segna un punto di svolta – le sinistre di tutto il mondo sostennero i vietcong – dopo la vittoria e la riunificazione del Paese entrano in ballo numerosi altri fattori. I movimenti di liberazione anticoloniale proseguono per proprie strade, con successi e con tragici errori, irrompe la potenza cinese come nuovo grande attore ma, nel 1979 si realizzano alcuni fra i principali momenti di cambiamento che si riflettono anche sul movimento pacifista internazionale. In Iran crolla la dittatura modernizzatrice e filoccidentale di Reza Pahlavi e sale al potere Ruollah Khomeini che realizza una repubblica islamica. Quella che una certa sinistra scambia all’inizio per una rivoluzione si rivela rapidamente come una delle peggiori sciagure che si possano abbattere in un Paese, riportato indietro di decenni per quanto riguarda le conquiste sociali e civili e isolato – fatti salvi alcuni scambi commerciali – dal resto del mondo. Si tratta di uno dei primi enormi momenti di disorientamento per i movimenti pacifisti occidentali che, ostili allo Shah non possono certo schierarsi con l’oscurantismo fascistoide degli Ayatollah. Pochi mesi dopo, dicembre 1979, l’URSS invase l’Afghanistan, già in forte crisi ma in cui si andava affermando un modello autonomo di stato moderno e in parte laico. La reazione finanziata dall’occidente dei combattenti (Mujaheddin) delle varie milizie afghane facilita il potenziamento degli studenti delle scuole coraniche nate nelle zone di confine col Pakistan. Sono gli studenti che da allora si chiamano talebani.

La guerra fredda, nonostante i processi di distensione e l’affacciarsi al mondo come grande nuova potenza della Repubblica Popolare Cinese, continuava a permanere il fatto che il principio di deterrenza avrebbe impedito qualsiasi rischio di utilizzo delle armi atomiche. La scelta nel 1981 di procedere all’installazione di quelli che vennero chiamati “euromissili”, nella base siciliana di Comiso, portò a rinvigorire il movimento pacifista e a farlo tornare sulla scena politica internazionale. La violenza repressiva con cui si pestarono le/i manifestanti che rifiutavano la nuova minaccia, riportò su basi di massa, la critica radicale alla NATO e alle potenze occidentali. Il susseguirsi di conflitti che si svilupparono dopo il crollo sovietico ha portato ad una fase di squilibrio planetario in cui: non si era ancora sviluppata una dimensione multipolare del controllo del pianeta, gli Usa e i loro alleati sembrarono per molti anni destinati a definire quello che venne chiamato con prosopopea colonialista “Nuovo ordine mondiale” e che in realtà si è tradotto in una miriade di conflitti, ognuno con proprie origini, responsabili, attori esterni ed interni. Da una parte i teorici della “fine della Storia” per cui il futuro di pace sarebbe stato determinato da un solo globale modello di sviluppo, dall’altra quelli della crisi finale del sistema di produzione capitalista che non poteva portare in altra direzione che la guerra permanente. Entrambi i punti di vista suonano, pensati oggi, come meccanicisti e insufficienti. Ma sono stati i fatti a determinare percorsi non ipotizzabili. E anche in questo frangente il movimento pacifista a tratti sembrò cogliere il senso profondo di quanto stava avvenendo senza riuscire a tradurlo in conseguenze agite. Il primo conflitto in Iraq, (per certi versi anche il secondo), portarono a grandi e plurali mobilitazioni in cui si era dalla parte del popolo iracheno, non si provava alcuna “simpatia” per Saddam Hussein ma si condannava senza appello l’invasione Usa e dei suoi alleati. Nel mezzo, quando si andò scientemente a determinare la frammentazione dell’allora Jugoslavia, furono in tante/i che tentarono di impedire il sostegno militare agli eserciti e alle milizie che si contrapponevano per praticare pulizie etniche di diverso segno. Intanto nasceva un nuovo fronte determinato dalla guerra asimmetrica del terrorismo islamista culminata con l’11 settembre 2001. L’Afghanistan subì l’ennesima invasione in nome della caccia ai capi di Al Qaeda e in tal caso la scelta di campo fu ancora più complessa. Una parte dei movimenti della pace appoggiò, col silenzio, l’invasione e l’occupazione, in nome della “libertà delle donne afghane dal burka” un’altra, senza difendere affatto il regime dei mullah, ritenne inaccettabile il ruolo di gendarme mondiale assunto da un pugno di Paesi a guida Usa.

Da allora, non solo in Italia, non si è più determinato uno stabile movimento contro le guerre degno di questo nome. Ogni conflitto che si è combattuto o sembrava riguardare poche sensibili, “anime belle” o, peggio, non permetteva di schierarsi in maniera netta da una parte. L’appoggio ai movimenti kurdi non è stato trasversale in nome del fatto che questi hanno ottenuto temporaneamente anche il sostegno dell’occidente, le “Primavere Arabe” sono state sovente interpretate alla stregua di rivoluzioni provocate da fuori come quelle “colorate” che hanno visto coinvolti paesi dell’ex Urss. Un giudizio sovente pressappochista e superficiale che riguarda entrambi i contesti. Solo un approccio tardo colonialista impedisce di comprendere come, soprattutto nei Paesi nord africani era impossibile il permanere di forme di governo autocratico, in una fase di crisi economica mondiale – come quella iniziata dopo il 2008 – che opprimevano soprattutto le classi popolari e i giovani più intraprendenti. Non ci fu un movimento ad appoggiare quelle giuste rivolte ma la divisione fra chi in Europa operò a costruire forme di accoglienza verso chi fuggiva in cerca di un futuro migliore e chi, soprattutto nella sinistra più moderata, colse in tali migrazioni un elemento di minaccia su cui le destre potevano ampliare il proprio consenso. Poi ogni Paese ha una storia a sé, con conflitti interni derivanti da diverse condizioni di partenza. In alcuni, si pensi all’Egitto, si è tornati a forme di oppressione simili a quelle dei tempi di Mubarak, con al Sisi, considerati in occidente meno pericolosi dei movimenti della “fratellanza musulmana” che tanto avevano attecchito. E anche laddove ci fu un intervento diretto dell’occidente come in Libia, per eliminare il regime di Gheddafi, non si crearono condizioni per un fronte pacifista che, senza difendere il dittatore, si ponesse il problema di fermare la guerra civile che andava esplodendo. Morto il Colonnello, prima la concorrenza inter-europea fra Francia, Italia e UK, poi l’intervento di supporto della Russia ad est della Libia e oggi gli investimenti militari massicci della Turchia, rendono praticamente impossibile prendere parola anche rispetto a tale complesso conflitto. Gli unici con cui schierarsi restano i richiedenti asilo provenienti dall’Africa Sub Sahariana, dal Medio ed Estremo Oriente, che finiscono nei centri di detenzione libici e diventano merce di scambio per la propaganda elettorale in UE. E anche sulla guerra civile che insanguina la Siria dal 2011, il silenzio è assordante. Non sono bastati prima i massacri operati dall’esercito di Assad, poi il ruolo preponderante assunto dalle forze jihadiste per contrastare il regime, quindi l’invasione turca in Rojava per distruggere le esperienze di autogoverno kurdo. La simpatia riscossa dalle unità femminili kurde dello YPJ, non è divenuta sufficiente fattore attrattivo per determinare un grande sostegno pacifista. Il solo vero aiuto è venuto da attiviste/i e militanti, uomini e donne che sono partiti per combattere contemporaneamente contro Erdogan, lo Stato Islamico e Assad.

Siamo ormai al presente, al momento precedente l’invasione russa in Ucraina, quando la Nato sembrava divenuta residuale, l’uscita dalla crisi pandemica riportava Cina e India come potenze ormai in aperta competizione economica e, nel primo caso, anche militare, con gli Usa e in cui si stava stabilizzando un multilateralismo degli imperi con zone di influenza e strategie diversificate nonché articolate, impossibili da riassumere. L’invasione della Russa, che non può accettare di vedersi ridotta al rango di potenza regionale e che, a torto o a ragione, considera un’espansione della Nato come pericolo irreversibile da contrastare con ogni mezzo, ivi compresa la minaccia nucleare, riporta la parte opulenta del pianeta in una condizione di forte vulnerabilità. Il riaccendersi, per ora solo italiano, di ampi movimenti pacifisti, va letto con estrema accuratezza. Non sono movimenti – come nella nostra sinistra si vorrebbe – riconducibili ad una reiterazione della condanna alla Nato né sono disponibili a giustificare con tutti i pregressi che ci sono stati, l’invasione di Putin. Guardano, in gran parte della loro composizione, ad un mondo in cui intraprendere la strada del disarmo ma pretendono dalla diplomazia internazionale ciò che questa non può e non vuole fare, la disponibilità a sedersi attorno ad un tavolo disponibili a mediazioni. E questo è un punto di vista, tra l’altro, prettamente eurocentrico. La guerra in Ucraina sta causando conseguenze al nostro stile di vita, che si fermi e si trovino le condizioni per tornare ad un ante quo impossibile, ma degli oltre 50 conflitti che insanguinano il resto del pianeta poco importa. Un pacifismo tattico, verrebbe da dire, in cui anche chi si schiera giustificando Putin come chi vuole sottodimensionare il ruolo Nato nel sostegno alla resistenza ucraina, rappresentano due facce della stessa medaglia, sembrano vivere in un mondo ancora bipolare, non percepiscono la complessità del conflitto e i riflessi che questo procura nello scenario mondiale che non si ferma ad una ulteriore perdita di ruolo dell’Unione Europea. La solidarietà concreta che si sta impegnando col popolo ucraino e non con il suo governo ha una propria ragion d’essere, meno significativi sono i tentativi di ignorare il fatto che c’è una guerra in Europa di cui c’è un preciso responsabile, a meno che non si voglia – più di quanto si ammetta – la resa incondizionata dell’Ucraina accompagnata magari da un golpe interno, alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli. E nel mondo pacifista sceso in piazza in questi giorni convivono, per ora in maniera emotiva, tanto coloro che non vogliono che si inviino armi al governo ucraino quanto chi ne appoggia la resistenza, chi vorrebbe la sostituzione di Putin e chi vorrebbe anche la fine delle sanzioni. Insomma un coacervo di posizioni, accomunate da una richiesta di disarmo e di azione diplomatica internazionale, ma che sembra non possedere ancora una prospettiva comune d’indirizzo che manifesti una “strategia della pace”

Da ultimo, in tale contesto si inserisce quella che covava da anni, la rivolta in Iran. La causa scatenante è un elemento forte e che facilmente fa breccia – dopo il ritorno dei talebani a Kabul – nell’immaginario europeo. Ma i giovani e soprattutto le giovani persiane non sembrano aspirare unicamente alla “liberazione dall’obbligo del velo”. Dietro c’è una critica radicale ad un regime che non ha soddisfatto le esigenze sociali, in cui l’utilizzo del fondamentalismo islamista è il pretesto ideologico per mantenere le leve del potere e il controllo dei mezzi di produzione in mano a pochi. In Iran si vuole vivere o “tornare a vivere” come in occidente? Forse si, ma basta questo per far intravedere nel sommovimento l’operato di forze straniere (Usa) intenzionate a destabilizzare il Paese per poter tornare a controllarlo. Da ultimo, forse per comprendere meglio il mondo del XXI secolo, dovremmo ripensare ogni movimento di liberazione nella propria complessità. Una complessità fatta di fattori endogeni e di tentativi di influenza straniera, in cui volere la “libertà occidentale” non può essere tradotto come una sottomissione totale ad un solo sistema valoriale e al suo corrispondente economico.

Se entriamo nell’ottica che le libertà democratiche nostrane – viene da dire in conclusione – non hanno più alcun valore, allora le si deve, coerentemente combattere dall’interno, prospettando una reale alternativa di società. Se invece contengono elementi necessari per una trasformazione in senso progressista, con tutto il carico di valori occidentali che questo comporta, non si possono ridurre le posizioni verso il resto del pianeta, utilizzando come unica lettura il criterio della geopolitica. Non si può essere neanche sfiorati dal dubbio di scendere nel “campismo”, non può valere la logica che nello scontro fra imperi, il nemico del mio oppressore è inevitabilmente mio amico. Debbo accettare che il reale concetto di pace deve equivalere ad un diritto radicalmente connesso a quello di giustizia sociale e ambientale. Uscire dalle secche grazie a cui si giustificano alcuni crimini e si considerano solo altri, è un passaggio necessario per passare dalla tattica alla strategia pacifista. Quella per cui gli unici amici sono i popoli e gli unici avversari sono i regimi, di qualsiasi colore si vestano.

Stefano Galieni

guerra, movimento pacifista
Articolo precedente
Il sionismo israeliano sempre più a destra
Articolo successivo
Slot Math Shine – Settima meditazione keynesiana

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.