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Esportavano democrazie, oggi dittature

di Stefano
Galieni

Che la guerra sia in quest’inizio millennio architrave materiale globale di dominio è da considerarsi fatto acclamato. Quello che però illustri – per modo di dire – commentatori, non solo in Italia, hanno sdoganato da anni, è un ulteriore passo in avanti. Si passati dalla fase “artigianale” per cui con la guerra si esportava la democrazia a quella in cui si cerca di sostituire direttamente un regime ad un altro, in nome degli interessi del cd “mondo libero”. La fine del regime sanguinoso della famiglia Assad in Siria è l’ultimo caso, l’esperimento precedente, ad oggi riuscito è quello dell’Afghanistan lasciato ai Taliban dopo gli accordi di Doha del 2018. Il multipolarismo neoliberista esercita in questa maniera il proprio tentativo di definire aree di interesse da tenere sotto controllo, senza neanche più la ipocrita campagna per la difesa dei diritti umani o le pretese di difendersi dalla guerra asimmetrica del terrorismo, soprattutto di stampo islamista. Pur non amando gli approcci che emanano sapore di geopolitica, si pensi allo scenario attuale: in Tunisia, al Sayed – versione araba del ministro Lollobrigida – stringe rapporti con l’UE e con l’Italia in particolare e ottiene fondi. A breve il suo sarà uno dei Paesi in cui esternalizzare i richiedenti asilo e migranti – cfr Albania – e intanto gran parte della popolazione è in sofferenza e pensa alla fuga. In Egitto, dopo l’elogio, come in Tunisia, per le “Primavere Arabe del 2011, si è lasciata mano libera anzi, pugno di ferro libero, al regime di Al Sisi che garantisce tanto le frontiere quanto i buoni rapporti con Israele pur confinando con Gaza. Ah i fratelli arabi, quanti danni hanno prodotto alla Palestina. In Mali lo stesso tipo di funzione lo sta svolgendo la Russia, ammantando le milizie della Wagner di spirito anticoloniale. Il governo al potere nel Paese oggi, non è certo più rispettoso di quelli tenuti in piedi dalla Francia e dall’occidente. L’Intera area del Sahel, (Mauritania, Niger, Burkina Faso, Algeria ecc…) potrebbero presto essere teatro di nuove dispute. La Libia è oggi divisa di fatto in due, la parte occidentale, quella in cui l’Italia ha tanto investito sempre per respingere richiedenti asilo, è in gran parte sotto il controllo turco, quella orientale, la Cirenaica vede l’avanzata dei mercenari russi che potrebbero volersi rifare della debacle in Siria, cercando di imporsi nell’intera Libia. Uno scenario inquietante per cui servirebbe una sana dittatura. Russia e NATO si contendono la leadership per imporre la propria.

In difficoltà è l’Iraq dove ancora non si è raggiunto un equilibrio e sono diverse le potenze regionali e mondiali in campo. Anche in tale contesto, ad una guerra dispendiosa quanto inutile e di lungo periodo, si preferirebbe un nuovo potere, magari qualche jihadista in doppio petto come in Siria, peccato che le componenti sunnite e sciite, nonché quelle (plurale) curde, non trovino un accordo. Non è da escludere in futuro una spartizione, anche se temporanea del Paese, sul modello della Libia. In Libano l’offensiva israeliana ha prodotto danni non solo bellici ma politici. Se – e non è detto – ci sarà un reale cessate il fuoco, si dovranno trovare nuove modalità di convivenza fra le varie componenti libanesi che, dopo un’infinita guerra civile, avevano trovato una propria soluzione con la ripartizione, in base all’appartenenza politico – religiosa, delle diverse cariche dello Stato. A rischio è l’unico esempio di democrazia in quell’area (altro che Israele), capace di coniugare un pluralismo infinito producendo meno danni possibili. Ma ora il Libano è il classico vaso di coccio in mezzo a quelli di cemento “armato” e dovrà trovare modo di reggere agli urti. Urti che arriveranno dalle modalità con cui verrà ridefinito lo status siriano – quanto potere ai nuovi tagliagole – e da quanto potrà accadere nel vero target di tutto il sommovimento, l’Iran. E anche qui si ripropone il problema iniziale, si è di fronte ad un regime sanguinario, oscurantista, criminale, che perseguita le donne come chi lotta per migliori condizioni di vita sul lavoro, che detiene decine di migliaia di persone e che usa la forca, la tortura, la polizia morale, come strumenti di ferreo dominio per garantire che nessuno alzi la testa contro la miseria in cui è ridotta gran parte della popolazione. Ma quanto si prepara e si propone non è certo il sostegno a movimenti di liberazione e di pluralismo. Anche in Iran c’è chi auspica un ritorno magari all’antica monarchia sul modello dell’ultimo Scià Reza Pahlavi, comunque supina all’occidente e pronta ad allontanarsi dai rapporti con la Russia. Per Russia e Cina invece, coerentemente, del destino del popolo iraniano poco importa, l’importante è continuare ad avere il Paese alleato e come avamposto nell’area. Potremmo ricostruire un quadro enorme per gran parte dei Paesi dell’area est europea e dell’Asia ex sovietica. In alcuni hanno prevalso le cosiddette “rivoluzioni colorate” che li hanno condotti nell’alveo occidentale, in altri, dalla Bielorussia alle Repubbliche Caucasiche, sono ancora in piedi regimi in cui il tempo sembra a volte essersi fermato a quando c’era l’URSS, senza però neanche la minima traccia dei benefici materiali del socialismo reale.

Altra cartina di tornasole sono le due Coree, raccontateci, in occidente come tanto diverse, con la demonizzazione di quella del Nord e l’esaltazione della ricchezza di quella del Sud e poi accomunate dall’identica impossibilità ad avere prospettive di fuoriuscita da regimi per certi versi, speculari. Da ultimo l’Afghanistan resta una sorta di incrocio di interessi che nessuno vuole toccare ma di cui tutti si interessano. Che la popolazione sia oppressa in maniera indicibile e che il 72% delle famiglie viva sotto la soglia di povertà è ininfluente. Il disimpegno Usa e NATO permette oggi a Cina e Russia, senza aver stretto formalmente accordi con governi impresentabili di avvicinarsi alle aree di interesse strategico sia per le terre rare (zona confinante con la Cina) sia per le raffinerie di eroina, attualmente in calo di produttività. L’Afghanistan è considerato Paese che non ha diritto al futuro ma su ciò che ne resta volteggiano numerosi avvoltoi.

Questo quadro, tratteggiato a volo d’uccello, fa i conti con i vecchi / nuovi padroni, coloniali o neocoloniali, ma non con i popoli che abitano tali Paesi. Con le ceneri che covano, spesso ignorate, in alcuni contesti, si pensi alle eroiche esperienze di autogoverno laico nel Rojava di cui almeno ci è giunta voce. Ma esiste solo quello? Forse il nostro sguardo – ritornando all’immenso Edward Said – dovrebbe essere capace di andare oltre e provare a cercare in quei focolai, ragioni che non comprendiamo, non conosciamo, di cui nessuno ci ha informato o su cui abbiamo troppo facilmente chiuso gli occhi. E come si è aperto si chiude questo piccolo tentativo di riflessione partendo dalle istanze che hanno portato alle prime sommosse in Siria che poi hanno portato alla guerra civile. I medici e infermieri di MSF, spesso compagni di strada ci raccontavano di una società civile democratica che voleva sovvertire il regime di Assad per tornare a dare a Damasco e al mosaico siriano una vera pace fondata sulla giustizia sociale, I primi partigiani, nel silenzio assoluto di oriente e occidente, nel 2011 venivano attaccati dall’esercito governativo con bidoni di benzina da 200 kg, lasciati cadere dagli elicotteri. Fusti che non contenevano carburante ma esplosivo. A sostenere quei partigiani non vennero i liberatori del “mondo libero”. Giunsero tagliagole armati da Arabia Saudita, Qatar, Usa e chissà chi altro, miliziani che venivano dai conflitti in Cecenia, in Kosovo, armati e preparati che presero il comando di qualsiasi forma di resistenza imponendo la loro legge basata sulla sharia ma non più crudele di quella falsamente laica del regime baathista. Da occidentali obnubilati dalle narrazioni tossiche di propaganda forse non ci resta che ascoltare le voci delle tante donne e dei tanti uomini che, provenendo da Aleppo, da Damasco, dalle tante città siriane bombardate da chiunque ma di cui nemmeno conosciamo il nome, hanno trovato rifugio da noi. E questo vale per chi è arrivato tanto dai Paesi citati quanto da quelli, per rozza dimenticanza, non considerati (riemergono il Senegal, il Sudan, l’Eritrea, la Somalia, la Nigeria, l’Etiopia, il Bangladesh), persino quelli che la signora Meloni oggi vorrebbe fossero considerati “Paesi sicuri” in cui poter deportare chi è fuggito. Quelle voci, con la loro soggettività forse ci costringerebbero ad uscire fuori da uno schematismo che rischia spesso di divenire campista tornando a mettere al centro, come sempre dovremmo fare, i popoli e non chi li governa.

Stefano Galieni

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