di Stefano Galieni –
Anni fa, durante un convegno tenutosi a Modena, un rappresentante del KNK (Congresso Nazionale Kurdo) ebbe a dire a proposito del complesso quadro geopolitico che interessava soprattutto Turchia, Siria e Iraq: “russi, americani, rappresentanti di altre potenze imperialiste. Noi siamo nella condizione di prestare ascolto a tutti ma di non fidarci di nessuno”. Un concetto che, dopo l’ennesimo cambio di fronte, in parte previsto, assume ancora maggiore importanza. L’interesse americano nel voler fermare i terroristi del Daesh, fornendo supporto alle combattenti dell’YPG e al Fronte Democratico Siriano (FDS), è ormai un ricordo del passato.
Già questa estate c’erano stati i primi segnali di un accordo neanche tacito fra Trump ed Erdogan per rivedere l’impegno americano nelle aree di autogoverno siriano. Molteplici sono i fattori che hanno permesso al dittatore turco di rompere gli indugi e annunciare l’ingresso turco nel Rojava. Il disimpegno USA, che concretamente non vedrà lo spostamento di grandi forze militari ma politicamente rappresenta un implicito nulla osta alle operazioni turche potrebbe facilmente far saltare il fragile equilibrio raggiunto in quel lembo di terra. Erdogan intende “creare un corridoio” per permettere il rientro ai tanti rifugiati siriani presenti in Turchia, realizzando nel Rojava nuovi villaggi in cui sistemare i rimpatriati, un tentativo, neanche troppo celato, di modificare l’equilibrio demografico per impedire alla maggioranza curda di ritrovarsi accerchiata.