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È in arrivo la prossima grave crisi economica e politica europea

di Alessandro
Scassellati

L’ansia e la rabbia per il futuro dell’Unione Europea sono in aumento da tempo. L’Unione è stata presa in una crisi sempre più profonda, o meglio, da molteplici crisi sempre più profonde: una crisi del costo della vita, una crisi abitativa, una crisi migratoria, una crisi energetica, una crisi industriale e di crescita lenta e, soprattutto, una crisi politica, a cominciare da Berlino e Parigi. Deve affrontare una sfida significativa da parte dell’estrema destra, che sta aumentando nei sondaggi in molti paesi dell’UE, minacciando di sovvertire la fragile coesione dell’UE e i “valori liberali”. Per quanto riguarda la politica estera, gli affari militari o l’indipendenza energetica, l’Europa appare sempre più senza timone in un mondo tempestoso. Per un continente che un tempo si considerava una via di mezzo tra democrazia oligarchica e capitalismo di mercato sfrenato degli Stati Uniti e i vari regimi autocratici o semi-autocratici di stanza più a est, è un’amara ironia che ora sembri diretto verso le imitazioni di entrambi. E con Donald Trump dietro l’angolo, i tempi duri potrebbero essere appena iniziati. L’Europa, un tempo pilastro della stabilità economica, ora assomiglia a una foresta piena di foglie secche, dove una semplice disattenzione potrebbe innescare un incendio devastante. La crisi del settore manifatturiero europeo si è aggravata negli ultimi mesi, le previsioni di crescita per l’Unione Europea non sono incoraggianti e il pessimismo sulla sua capacità di competere con Stati Uniti e Cina continua a crescere. In sostanza, il 2025 potrebbe essere un anno catastrofico per l’economia e la politica europea.

Le cose non stanno andando proprio come previsto per il governo Meloni. L’economia si è contratta negli ultimi sei mesi (ma la produzione industriale è ininterrottamente in calo da 21 mesi, secondo l’Istat, e alle viste ci sono le chiusure di decine di fabbriche e migliaia di licenziamenti) e l’inflazione si sta dimostrando dura da gestire e soprattutto incide sui redditi reali dei lavoratori (le loro retribuzioni non si adeguano al maggior costo della vita e all’aumento delle bollette, ma devono pagare più imposte). La crescita del PIL per il 2024 si è fermata allo 0,5% (con un debito pubblico del 134,8%), rispetto all’1% previsto dal governo (stessa previsione anche per il 2025). La legge di bilancio del 2025, con una manovra da 30 miliardi per il 40% destinati ai tagli del cuneo fiscale mentre il resto è infarcito da una messe di tagli (circa 11 miliardi di euro di tagli ministeriali e comunali nei prossimi tre anni), bonus e mance a vari gruppi di interesse. Non ci sono investimenti strutturali in sanità, infrastrutture, sostegno alle famiglie, istruzione, ricerca e università, che anzi faticano a chiudere i bilanci per il 2025, mentre le pensioni sono state aumentate di soli 1,80 euro al mese. Il governo Meloni si è attenuto rigidamente ai diktat di Bruxelles, per cui ha inaugurato una nuova fase di austerità e ha ricevuto un’accoglienza pressoché gelida nel paese.
Ma tutto è relativo. Almeno il ministro dell’Economia Giorgetti non ha avuto grandi problemi a far passare le sue misure in parlamento, il che è più di quanto si possa dire di Emmanuel Macron in Francia. E se i parlamentari dell’opposizione alla Camera dovessero indire un voto di sfiducia, data la massiccia maggioranza di destra-centro significherebbe che verrebbe senz’altro risparmiata la sconfitta subita dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz, il 16 dicembre. Il paradosso è che nelle caotiche convulsioni politiche e geopolitiche europee e globali, Roma è diventata un’isola di apparente governabilità, pur continuando l’Italia a “galleggiare” nel suo continuo e sistematico quarantennale declino (si veda il nostro articolo qui), nonostante sia ancora il secondo paese manifatturiero dell’UE dopo la Germania e ai vertici anche per l’export.

La crisi franco-tedesca

Il 2024 si è chiuso con due dei paesi fondatori dell’Unione Europea che sono politicamente alla deriva. L’Unione Europea si ritrova con il tradizionale motore franco-tedesco in panne in un momento che non poteva forse essere peggiore. La nuova Commissione è entrata in carica con la maggioranza più risicata della storia comunitaria, spostandosi a destra1 e facendo presagire difficoltà nel gestire i principali dossier sul tavolo: l’economia rallenta, con l’industria in calo di produttività e redditività; l’invecchiamento delle società sta aumentando il peso fiscale; l’ostilità verso l’immigrazione si sta intensificando, mentre il bisogno di immigrazione cresce; la finanza statunitense è ormai padrona di gran parte del risparmio europeo (si veda il nostro articolo qui) e questo spiega, almeno in parte, perché le valutazioni del mercato azionario statunitense sono più che triplicate dal 2005, mentre quelle europee sono aumentate solo del 60%; la guerra ai confini orientali dà segnali di una sconfitta dell’Ucraina e dei suoi alleati euro-americani (si veda il nostro articolo qui); l’avvento prossimo alla presidenza USA dell’imprevedibile Donald J. Trump, sostenuto dai populisti MAGA e dalla tech-right (la tecno-destra), rischia di mettere pressione su dazi2, NATO e agenda climatica (si veda il nostro articolo qui).
In Germania e Francia, il sostegno ai partiti di estrema destra e della sinistra radicale (da Alternative für Deutschland al Rassemblement National di Marine le Pen e dal BSW di Sahra Wagenknecht a La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon) sta crescendo (anche se i favoriti per le prossime elezioni tedesche sono i conservatori cristiano-democratici di Friedrich Merz) e non è difficile capire perché. La polarizzazione politica ha dato origine a coalizioni di governo fragili e conflittuali, come si è visto in Germania e Francia, dove le soluzioni moderate sembrano essere esaurite, lasciando spazio solo ad alternative estreme. La crisi che aveva colpito i paesi alla periferia della zona euro a 20 paesi 15 anni fa, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS), si è ora fatta strada fino al cuore della eurozona. A differenza della crisi greca di dieci anni fa3, una crisi in economie grandi come la Francia (o l’Italia) potrebbe mettere veramente alle corde la moneta unica europea. Anche se, diciamolo chiaramente: la Francia non è la nuova Grecia. La Banca centrale europea (BCE) probabilmente interverrebbe (attraverso il suo Transmission Protection Instrument) per acquistare titoli di Stato francesi in caso di un attacco speculativo su vasta scala, e ora è meglio attrezzata per farlo rispetto all’ultima crisi.
Ciononostante, ci sono segnali che la storia si possa ripetere. La crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008 non è apparsa dal nulla, e negli anni ’90 c’erano stati molti segnali di preavviso, dal Messico alla Thailandia, dalla Corea del Sud alla Russia, di guai in arrivo. Nonostante queste bandiere rosse, pochi immaginavano che la crisi si sarebbe estesa alla più grande economia del mondo, gli Stati Uniti, finché non è stato troppo tardi. Ci sono bandiere rosse che sventolano anche ora. È significativo che Scholz rischi di essere estromesso dalla carica di cancelliere alle elezioni anticipate del 23 febbraio, e che Macron non riesca a far approvare ai parlamentari neanche un bilancio tampone4. Non si tratta di piccole burrasche; sono segnali di una tempesta imminente.
Il problema per i due grandi paesi dell’Eurozona è che hanno economie quasi stagnanti insieme a generosi sistemi di welfare sociale che risalgono ai decenni del dopoguerra, quando la crescita economica era ancora forte. Bassi livelli di disoccupazione hanno garantito che ci fossero le entrate fiscali necessarie per pagare le pensioni e altri benefici del welfare. L’arrivo della generazione dei baby boomer ha significato che c’erano molti lavoratori per ogni pensionato. Gli Stati Uniti hanno pagato la maggior parte del conto per la difesa dell’Europa durante la Guerra Fredda, consentendo ai governi europei di dare priorità alla spesa per il welfare. Ma quelle condizioni favorevoli non sono più valide. I tassi di natalità sono drasticamente diminuiti e i baby boomer stanno invecchiando (andando in pensione). L’Europa è costretta a scavare più a fondo per pagare la propria difesa di fronte alla minaccia rappresentata dall’apparente asse Russia-Cina-Iran-Corea del Nord.
Ma la cosa più importante è che i tassi di crescita sono crollati. L’economia tedesca non è più grande ora di quanto non fosse prima dell’inizio della pandemia di CoVid-19, cinque anni fa; nello stesso periodo la Francia è cresciuta in media di meno dell’1% all’anno. Standard di vita stagnanti significano elettori infelici, come hanno scoperto Scholz e Macron a loro spese. Una crescita debole significa anche che i governi hanno difficoltà a far quadrare i conti, il che porta a pressioni per tagliare i sussidi, le pensioni, i servizi e il welfare pubblici e aumentare le tasse. Come sta scoprendo Macron, anche questo approccio non va giù.

Gli effetti del neoliberismo

In un contesto di crescente incertezza geopolitica, le conseguenze della guerra in Ucraina hanno contribuito a destabilizzare la politica europea e ad aggravare la crisi del neoliberismo progressista5. Il futuro sviluppo dei prezzi dell’energia rimane motivo di preoccupazione per la maggior parte delle economie dell’UE (ora sono tre volte più alti che negli Stati Uniti), in particolare la Germania. Il suo PIL è sulla buona strada per crollare per il secondo anno consecutivo. Le industrie ad alta intensità energetica, come quella chimica e dei metalli, sono in crisi. Campioni nazionali come Volkswagen e ThyssenKrupp hanno annunciato tagli di posti di lavoro e chiusure di fabbriche senza precedenti6.
E la situazione peggiorerà ulteriormente nel 2025 per i maggiori dazi che saranno imposti dalla presidenza Trump e per la volontà di aumentare considerevolmente la spesa militare – ora il 2% rispetto al PIL non basta più si parla del 3%, mentre Trump ora chiede di arrivare al 5% (l’Italia non arriva all’1,5%, mentre la Polonia spenderà il 4,7% nel 2025 e non a caso il governo di Tusk si è impegnato a dare priorità alla sicurezza durante il suo mandato di sei mesi alla presidenza del Consiglio Europeo, candidandosi a fare da mediatore tra UE e l’amministrazione Trump) -, che ha un impatto marginale sulla crescita economica (non certo sui profitti delle aziende del settore armamenti, soprattutto di quelle statunitensi presso le quali i paesi dell’UE già acquistano i sistemi d’arma più sofisticati e complessi), ma sottrae preziose risorse pubbliche per sanità, istruzione, pensioni, politiche sociali e interventi per combattere i cambiamenti climatici. Il neo segretario generale della NATO Mark Rutte ha recentemente riconosciuto che gli sforzi di riarmo avranno un costo che implica sacrifici. “ So che spendere di più per la difesa significa spendere meno per altre priorità, ma è solo un po’ meno”, ha detto, suggerendo ad esempio di utilizzare “una piccola parte” della spesa sociale per raggiungere questo obiettivo.

Verso un’economia di guerra

Da due anni le élite al potere e i media europei hanno lavorato per plasmare l’opinione pubblica, per convincere la maggioranza silenziosa del ceto medio e delle classi lavoratrici che l’Occidente libero e democratico è sotto attacco; le autocrazie come Cina e Russia, le teocrazie come l’Iran, il terrorismo, ci minacciano; e che la guerra è l’unica risposta salvifica7. Non sorprende che la risposta della leadership politica dell’UE alla crescente policrisi non sia stata quella di affrontarne le cause profonde, che si riducono tutte alle distruttive politiche neoliberiste che hanno felicemente abbracciato per decenni. Invece, la loro reazione è stata quella di diventare guerrafondai, forse sperando che la prospettiva della guerra possa costringere i popoli d’Europa a dimenticare il disastro sociale ed economico che quelle politiche neoliberiste hanno determinato nel corso degli ultimi 40 anni. Infatti, negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetutamente che la più grande minaccia alla sicurezza europea è la Russia e che la soluzione è sconfiggere la Russia in Ucraina.
Ci è stato ripetutamente detto che la strada per la pace è l’escalation. La Commissione Europea ha stimato il costo del potenziamento della difesa dell’UE in un minimo di 500 miliardi di euro e ha promesso un documento orientativo su come reperire questi fondi all’inizio del 2025. Andrius Kubilius, il commissario europeo alla difesa nominato dall’UE – una posizione creata di recente per affrontare la “minaccia russa” – ad esempio, ritiene che l’Unione dovrebbe diventare un “deposito di armi da guerra” per scoraggiare Mosca. “La pace è il primo e principale obiettivo dell’Europa. Ma le minacce alla sicurezza fisica stanno aumentando e dobbiamo prepararci”, ha scritto Draghi nell’introduzione del suo rapporto sulla competitività europea. Ha poi continuato suggerendo che l’UE investa massicciamente nel rafforzamento della sua industria degli armamenti8.

Le promesse mancate dell’euro

L’Eurozona non avrebbe dovuto svilupparsi nel modo disastroso che abbiamo vissuto sulla nostra pelle. La logica alla base della moneta unica quando è stata lanciata un quarto di secolo fa era che avrebbe portato a una crescita più rapida e avrebbe colmato il divario negli standard di vita con gli Stati Uniti9. L’idea era che fosse la logica del mercato a dover prevalere e si pensava che l’aumento della produttività avrebbe fatto crescere la produzione e tutti ne avrebbero beneficiato. In realtà, è successo il contrario10: i tassi di crescita sono stati deboli e il divario con gli Stati Uniti si è ampliato. Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato di alcune metriche al 30%, dovuto principalmente alla minore crescita della produttività nell’UE11.
Il progetto oligarchico europeo (quello del superamento/distruzione degli Stati-nazione) è imploso. L’euro – la moneta (entrata nelle tasche dei cittadini nel 2002) senza Stato, vista come l’unico valore di coesione possibile – ha prodotto effetti completamente diversi da quelli promessi. Oggi, abbiamo un’Unione Europea che non funziona, si sono accentuati gli squilibri tra i paesi e al loro interno (tra aree urbane e aree rurali), allargate le disuguaglianze sociali (con il Pilastro europeo dei diritti sociali caduto nell’oblio) e destrutturati i sistemi industriali. Per questo, come sostiene un acuto analista come Emmanuel Todd, “l’attacco russo all’Ucraina è stato quasi una manna dal cielo” per le élite e le classi medie europee, fornendo un nemico esterno per provare a ricompattarsi e dare, quindi, un nuovo significato alla costruzione dell’Europa, ad esempio attraverso la costruzione di una economia di guerra.
I difetti di progettazione dell’euro (frutto di un compromesso tra Helmut Kohl, Francois Mitterand e Giulio Andreotti) erano evidenti fin dall’inizio: era un approccio unico per i paesi con esigenze diverse e si basava sui principi neoliberisti secondo cui una bassa inflazione e bilanci in pareggio avrebbero portato a una crescita più forte. Anche la mancanza di una politica fiscale comune per ridistribuire le risorse dai paesi più ricchi a quelli più poveri dell’eurozona non ha aiutato.
Il fallimento dell’euro nel fornire risultati ha avuto conseguenze significative. In primo luogo, la crescita lenta ha reso gli Stati membri più conservatori e più resistenti al cambiamento. L’Europa non ha avuto il dinamismo degli Stati Uniti e della Cina ed è rimasta attaccata alle vecchie industrie per troppo tempo. Ciò è particolarmente vero per la Germania, che è stata dolorosamente lenta nell’entrare nell’era digitale e nel riconoscere la minaccia alle sue aziende automobilistiche dominate dai combustibili fossili12. In secondo luogo, sebbene vi sia stato un certo riconoscimento della necessità di un cambiamento, non è ovvio che si materializzerà effettivamente.

Nubi nere si addensano nel cielo

Come ha affermato la presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde nella sua conferenza stampa dopo l’ultima riunione dell’anno della BCE, nel 2025 ci sarà “abbondanza di incertezza”. La BCE si troverà ad affrontare un difficile gioco di equilibri nel 2025, nel tentativo di gestire un’inversione di tendenza nelle economie della zona euro, in quanto i paesi periferici del sud più duramente colpiti dalla crisi del debito degli anni 2010 stanno registrando risultati migliori rispetto alle economie del gruppo centrale tradizionale. Occupati per anni a disciplinare la periferia meridionale europea, i politici di Berlino e Bruxelles hanno perso la possibilità di fare i conti con i limiti e le fragilità del modello economico tedesco. Lagarde ha segnalato che i tassi di interesse saranno ulteriormente tagliati nel 2025 dopo aver affermato che i “giorni più bui” di elevata inflazione sembravano essere alle spalle dell’eurozona. La BCE ha tagliato i costi di prestito nel 2024 al 3%, in mezzo alla crescente pressione per fornire maggiore supporto alle economie in difficoltà dell’Europa settentrionale.
Matthew Kartnitschnig, su Politico Europe, come altri analisti, è pessimista sul futuro dell’Unione Europea: “Con l’Europa alle prese con crescita stagnante, competitività in calo e tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme. Magari fosse così. Il rapporto di Draghi ha avuto una copertura di circa un giorno sui principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, i continui campanelli d’allarme suonati da FMI e BCE cadono nel vuoto. Probabilmente perché gli europei non stanno davvero provando dolore – non ancora, perlomeno”. Lo faranno, prevede, quando i loro sistemi di welfare collasseranno sotto il peso di costi insostenibili, dando ancora maggior alimento alle forze populiste radicali di destra e di sinistra. “Il problema è che quando gli europei si sveglieranno aprendo gli occhi sulla loro nuova realtà, potrebbe essere troppo tardi per fare qualcosa”.

Come uscire dalla crisi? Più, meno o un’altra Europa?

“Per l’Europa il tempo sta scadendo. Con Donald Trump pronto a riprendersi la Casa Bianca tra poche settimane e l’economia del continente in crisi, la base su cui poggia la prosperità della regione non sta solo generando crepe, ma rischia di crollare. Negli ultimi decenni l’economia europea si è dimostrata straordinariamente resistente grazie all’espansione verso est dell’Unione e alla forte domanda asiatica e statunitense di prodotti. Ma con l’esaurirsi del lungo boom cinese e le tensioni commerciali con Washington che offuscano il quadro del commercio transatlantico, i bei tempi sono chiaramente finiti”, ha notato Kartnitschnig, che parla apertamente di “apocalisse economica dell’Europa”.
Il recente rapporto di Mario Draghi sulla mancanza di competitività dell’Europa è un esempio calzante (si veda il nostro articolo qui). Draghi ha parlato di “sfida esistenziale” e il testo ha identificato i problemi abbastanza bene: c’è una mancanza di innovazione e investimenti e l’Europa deve uscire dalla trappola della bassa produttività della “tecnologia intermedia” (“solo 4 delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee”), in cui è bloccata nella produzione di beni “maturi” come le automobili. Ma Draghi ha fornito poche soluzioni che farebbero effettivamente la differenza (soprattutto in relazione a dove e come reperire le risorse finanziarie necessarie – circa 750-800 miliardi di euro all’anno per cinque anni13), se non indicare come strategiche l’aumento della crescita della produttività (costruendo l’economia digitale, deregolamentando e “approfondendo l’integrazione”), la creazione di una “economia di guerra” incentrata su un rafforzato apparato militare-industriale-algoritmico e la formazione di un mercato unico del capitale bancario/finanziario per fomentare la nascita e proliferazione di nuovi soggetti come il venture capitalist, il private equity provider, l’angel investor e i fondi pensione privati che siano in grado di finanziarizzare il risparmio europeo.
È una delle curiosità della recente storia economica dell’Europa che ogni passo verso un’unione più stretta – l’istituzione del Sistema Monetario Europeo a fine 1979, la creazione del mercato unico nel 1985, la firma del trattato di Maastricht il 7 febbraio 1992, il lancio dell’euro nel 1999, la crisi finanziaria dell’Eurozona nel 2011/13 con le politiche monetarie di “quantitative easing” iper-espansive in funzione anticiclica della BCE – è stato seguito da una performance economica più debole. L’UE non ha mai raggiunto l’obiettivo di spendere il 3% del PIL comunitario per la ricerca e sviluppo, principale motore dell’innovazione economica. La spesa per la ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%: più o meno come nel 2000, quando al summit di Lisbona i leader continentali avevano solennemente promesso di fare dell’Europa “l’economia più competitiva e dinamica al mondo, in grado di raggiungere crescita economica insieme a migliori opportunità di impiego e maggiore coesione sociale”, grazie a “un salto decisivo negli investimenti per l’educazione superiore, la ricerca e l’innovazione”. Un quarto di secolo dopo, l’Europa non solo non è riuscita a raggiungere il suo obiettivo, ma è anche rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina14.
La spiegazione data per i risultati deludenti non è che il processo di integrazione è andato troppo oltre, ma che non è andato abbastanza lontano. Non sorprende che Draghi affermi che la cura per la mancanza di competitività dell’Europa sia un approccio top-down, a livello di UE (con la minaccia che in un mondo di vasi di ferro come Stati Uniti e Cina, se l’UE non si darà da fare – unendo le forze e le risorse – farà inevitabilmente la fine del vaso di coccio), ma la sua conclusione va contro l’evidenza.
Il paradosso è che Draghi ammette che “dobbiamo garantire che le nostre istituzioni elette democraticamente siano al centro di questi dibattiti. Le riforme possono essere veramente ambiziose e sostenibili solo se godono del sostegno democratico” (pag. 5 del suo rapporto), ma detto questo procede a prescrivere nuovi compiti e poteri unilaterali per l’Unione Europea, una istituzione sovranazionale top-down, verticistica e tecnocratica che si sovrappone agli Stati nazionali democratici, è del tutto priva di una vera legittimità democratica (senza neanche la classica divisione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario enunciata da Montesquieu che è la caratteristica basilare delle democrazie liberali) e opera con procedimenti decisionali in larga parte resi opachi dalle dinamiche intergovernative. Manca una catena di trasmissione tra domanda popolare e politiche, tra istanze democratiche e presa delle decisioni, in cui il rapporto tra il legislativo bicamerale, formato da Parlamento europeo (ad elezione diretta dal 1979) e Commissione europea, e l’esecutivo è molto meno immediato di quello sperimentato in sede nazionale a causa della duplicità dei governi europei – Commissione europea (sovranazionale) e Consiglio europeo dei capi di governo (un organo intergovernativo che opera come una sorta di “capo di Stato” collegiale dell’UE, svolgendo la funzione di “risolutore di problemi” e dei contrasti tra gli Stati) – e del gran numero di materie da cui sia la Commissione sia il Parlamento sono esclusi. Di conseguenza, un numero crescente di cittadini europei oggi percepisce l’Unione Europea come un’istituzione che ha ben poco a che fare con i popoli e la democrazia liberale, dominata com’è dai governi e da una oligarchia sovranazionale apparentemente lontana dalla vita reale delle persone comuni e composta da lobbisti delle imprese globali, economisti, programmatori, tecnocrati e burocrati.
In questa situazione, l’idea di “più Europa”, ossia di delegare più poteri sovrani a Bruxelles (in materie come la difesa, la politica estera, le politiche industriali,…) in cambio di una rinnovata politica di austerità a livello nazionale (governata attraverso l’applicazione delle regole del Patto di Stabilità) che ne azzera la capacità redistributiva15, è stata provata, anzi, è stata testata quasi fino al punto di distruzione. Gli elettori stanno abbandonando in massa i partiti tradizionali mainstream del centro-destra16, che, per restare al potere, ora cercano di allearsi con i partiti e movimenti radicali della destra nazionalista securitaria, anti-immigrazione, islamofoba, xenofoba, razzista, cospirazionista, familista, pro-patriarcato e fautrice di un neoliberismo nazionale autoritario anti-democratico17. Gli elettori stanno mettendo sempre più in discussione il senso di appartenenza a uno spazio comune, la condivisione di un futuro comune e l’adesione a valori comuni (come universalismo, uguaglianza, laicità, prosperità, equità, libertà, pace e democrazia liberale). Nonostante tutta la sua insistenza retorica nel sostenere i diritti umani, la libertà, la democrazia liberale e l’equità, la realtà è che l’UE è essenzialmente un’organizzazione neoliberista che protegge molto i diritti dei ricchi a diventare ancora più ricchi. La politica economica non è modellata dalla preoccupazione per la salute e il benessere dei normali cittadini dell’UE, ma dalla preoccupazione di garantire i profitti aziendali. Ecco perché lo Stato sociale si sta ritirando in tutta Europa18; l’occupazione sta diventando sempre più precaria e dominata da bassi salari e gig economy con il risultato di far emergere milioni di lavoratori poveri e di persone in povertà assoluta e relativa19; e i prezzi di cibo, utenze e alloggi sono inaccessibili per molti. Il tanto decantato “modello sociale europeo” è in rovina: pensioni insufficienti per decine di milioni di anziani, sistemi sanitari inadeguati e sull’orlo del fallimento, sistemi di istruzione e di edilizia economica popolare con budget sempre più ridotti o inesistenti, servizi sociali frammentati e sottofinanziati che non tengono il passo con i bisogni di massa emergenti. Inoltre, le politiche neoliberiste estrattive dell’UE sotto forma di vari accordi commerciali con i paesi in via di sviluppo stanno devastando le economie e le condizioni ambientali (con gli effetti distruttivi dei cambiamenti climatici e della scomparsa della biodiversità autoctona) del Sud del mondo e spingendo la migrazione verso il continente. Forse è giunto il momento di provare un po’ meno di questa Europa, prima che sia troppo tardi.

Un’altra Europa democratica

La propaganda bellica, il riarmamento e la creazione di un grande complesso militare-industriale unificato non risolveranno nessuno dei problemi economici e sociali che attanagliano l’Europa. Invece, l’UE dovrebbe rivedere le sue strategie politiche, sociali, climatiche ed economiche per concentrarsi sui valori sociali, sulla democrazia partecipativa, sul pluralismo, sul welfare, sulla salute, sull’istruzione, sulla crescita sostenibile, sulla pace e sulla cooperazione. L’Unione Europea non è una realtà compiuta, ma un processo in divenire e resta molto da fare perché vi cresca una società più democratica e giusta. La realizzazione di una vera Unione di Stati fraterna ed ospitale richiede l’applicazione di princìpi federalisti come il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà, insieme ad un Parlamento europeo con più poteri (a cominciare dal potere di iniziativa legislativa) e una costituzione europea. È essenziale valorizzare l’approccio “bottom-up”, perché l’approccio “top-down” che ha dominato largamente l’Unione Europea dal Trattato di Roma del 1957 in poi, non funziona più. I movimenti dei cittadini, la società civile e gli attivisti devono avere più voce in capitolo: l’Europa deve poter essere anche il loro progetto, non solo quello del mondo della finanza, del business, dei governi e dei burocrati. Ciò potrebbe significare sviluppare una nuova forma di socialismo per sostituire l’attuale disastro neoliberista e risollevare tutta l’Europa.
La grande lezione di un maestro come Karl Polanyi è che l’economia non è avulsa dalla società, ma non può che essere embedded, vale a dire integrata, radicata proprio all’interno della società stessa, per cui la “società di mercato”, la società in cui “tutto è mercato”, auspicata dagli economisti neoliberisti della scuola austro-tedesca come Ludwig von Mises, in cui tutto viene ridotto a merce, a lungo andare distrugge la società e fa emergere un contro-movimento, una reazione a vari livelli dell’organizzazione politica, dall’alto e dal basso (comunità, Stato, chiesa, sindacato, industria), tesa a reagire contro le “dislocazioni” delle istituzioni sociali tradizionali e, quindi, a proteggere la società dalla sua distruzione. Polanyi, come gli austro-marxisti anti-leninisti della “Vienna rossa” socialdemocratica degli anni ’20 e ’30 – Rudolf Hilferding, Otto Bauer, Otto Neurath, Max Adler (che per primo ha coniato il termine “neoliberismo” per definire le idee di von Mises nel 1921), Helene Bauer, Karl Renner e Friedrich Adler – era in aperta polemica con von Mises e poi con il suo più importante allievo, Friedrich von Hayek che pubblicò il libro “The Road to Serfdom” nel 1944. Polanyi, come i suoi amici viennesi, era convinto che il socialismo era “la tendenza insita in una civiltà industriale a trascendere il mercato autoregolante, subordinandolo consapevolmente a una società democratica”, mentre il fascismo rappresentava il tentativo di superare la divisione della società nelle sfere economiche e politiche, ripristinando il potere capitalista attraverso l’abolizione totale della democrazia.
I tempi della pubblicazione del capolavoro di Polanyi “La grande trasformazione” (1944) erano di buon auspicio. Il 1944, infatti, è l’anno dell’Accordo di Bretton Woods, dell’appello di Roosevelt per una Carta dei diritti economici e del piano di Lord William Beveridge “Full Employment in a Free Society” con il suo impegno per la libertà dal bisogno, che avevano in comune con il lavoro di Polanyi la convinzione che un mercato eccessivamente libero non dovesse mai più condurre alla miseria umana, finendo nel fascismo, e che quindi – come ha sostenuto John Gerard Ruggie (“International regimes, transactions, and change: embedded liberalism in the postwar economic order”, 1982) – fosse necessario istituire un “embedded liberalism” in grado di riconciliare, almeno nei Paesi del blocco occidentale, lo Stato con il mercato, “reinserendo” l’economia liberale nella società attraverso la politica democratica, combinando un capitalismo egualitario con una democrazia restaurata, come è avvenuto nel corso dei “trenta gloriosi” nei Paesi ricchi. Fu solo attraverso il primato della politica di orientamento socialdemocratico che nel dopoguerra il capitalismo e la democrazia si dimostrarono capaci di coesistere in modo relativamente amichevole nei Paesi del blocco occidentale. Senza la crescita economica generata dal capitalismo, non sarebbero stati possibili i grandi miglioramenti degli standard di vita occidentali. Senza le protezioni e i limiti sociali su mercati, imprese e capitalisti imposti dagli Stati, i benefici del capitalismo non sarebbero stati distribuiti così ampiamente e la stabilità economica, politica e sociale sarebbe stata impossibile da raggiungere.
L’abbraccio del neoliberismo da parte delle élite al potere ha mandato in crisi l’“embedded liberalism” e i “patti socialdemocratici” a partire dalla fine degli anni ‘70, per cui oggi mercato, Stati e società nazionali si sono sempre più separati gli uni dagli altri. Le élite negli Stati Uniti e in Europa hanno costantemente smantellato i controlli politici che nel corso dei “trenta gloriosi” avevano consentito ai governi nazionali di co-gestire il capitalismo. Hanno limitato le politiche democratiche per adeguarsi alla logica dell’accumulazione nel contesto dei mercati internazionali e spostato il processo decisionale verso le global corporations, le burocrazie indipendenti o le istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea. Questo ha creato le condizioni per la crisi economico-politica che ora l’Europa deve fronteggiare.

Alessandro Scassellati

  1. La crescente estrema destra europea ha consolidato la sua posizione alle elezioni europee di quest’estate che sono state caratterizzate da performance eccezionali per la destra estrema in tutta l’Unione, e ci sono stati importanti progressi a livello nazionale. Nei Paesi Bassi, il Partito per la libertà di Geert Wilders ha forgiato una coalizione di governo; Giorgia Meloni, primo ministro postfascista italiano, ha visto la sua popolarità aumentare; e l’estrema destra Alternativa per la Germania è cresciuta fino a diventare il secondo partito più popolare del paese, ottenendo ora anche il sostegno del leader della tech-right statunitense Elon Musk.[]
  2. Trump vuole ridurre gli squilibri commerciali tra USA e UE. Se dovesse dare seguito alla sua minaccia di imporre tariffe fino al 20% sulle importazioni dal continente, l’industria europea ne subirebbe un duro colpo. Con oltre 500 miliardi di euro di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti dall’UE, l’America è di gran lunga la destinazione più importante per i beni europei. La prima risposta della presidente della Commissione Europea von der Leyen alla rielezione di Trump è stata quella di suggerire all’Europa di acquistare più gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti. Ciò potrebbe piacere a Trump per un po’, ma non è certo una strategia. Gli Stati Uniti sono da tempo il maggiore fornitore di GNL e petrolio per l’UE. Nella prima metà del 2024, gli USA hanno fornito circa il 48% delle importazioni di GNL del blocco, rispetto al 16% proveniente dalla Russia.[]
  3. Dieci anni fa, l’Europa si presentava al mondo con un volto molto diverso. In Grecia, il partito di sinistra radicale Syriza stava per salire al potere sulla scia della resistenza all’austerità imposta dalla cosiddetta troika della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e dell’Eurogruppo. In Francia, un presidente di centro-sinistra, François Hollande, era stanato dai ribelli della sinistra del suo partito. E in Gran Bretagna, un deputato socialista di nome Jeremy Corbyn stava per prendere la leadership del partito laburista. Tutto questo oggi sembra storia antica. Syriza, che alla fine ha attuato l’austerità contro cui si era battuta, ha perso il potere nel 2019 e si è frammentata dopo che un ex trader di Goldman Sachs è stato eletto come suo leader. Corbyn è stato espulso dal partito che un tempo guidava e la sinistra francese è stata messa da parte dalla propensione di Macron a concludere accordi con la destra. Die Linke, un tempo credibile sfidante dei Verdi e dei Socialdemocratici per la leadership della sinistra tedesca, rischia di scomparire dal Parlamento alle prossime elezioni del paese.[]
  4. In un momento in cui il deficit fiscale della Francia è pari al 6,1% del PIL – più del doppio del limite consentito dalla zona euro – e il debito pubblico è pari al 113,7% (più di 3.300 miliardi di euro), è difficile trovare un compromesso su un bilancio che possa sia moderare la spesa pubblica sia aumentare le entrate attraverso tasse più elevate. L’attuale spesa pubblica della Francia è già pari a un record del 58,3% del suo PIL, mentre la sua riscossione delle imposte è di circa il 52,2%. L’agenzia di rating del credito sovrano Moody’s ha preso atto dell’impasse politica della Francia e ha declassato l’affidabilità del debito del paese di un livello da Aa2 ad Aa3. Ciò significa che la Francia è ora costretta a pagare un premio più elevato per l’emissione di nuovo debito, soprattutto rispetto alla Germania, la più grande economia del blocco.[]
  5. Sinteticamente, si può dire che il neoliberismo è una filosofia economico-politica che consiste in due affermazioni, una economica e l’altra politica. L’affermazione economica è che le economie di libero mercato basate sul laissez-faire sono il modo migliore per organizzare l’attività economica in quanto generano risultati efficienti che massimizzano il benessere. L’affermazione politica è che i sistemi economici di libero mercato promuovono la libertà individuale. Entrambe le affermazioni sono problematiche. Le prove dell’esperimento quarantennale iniziato nel 1980 mostrano che il neoliberismo ha minato la prosperità condivisa e scatenato forze illiberali, autoritarie e proto-fasciste che ora minacciano libertà e democrazia liberale. Al centro di tutta la costruzione dell’Unione Europea c’è il mercato, ossia l’impresa privata, soprattutto la grande impresa privata, l’unico vero attore che i neoliberisti considerano legittimato ad operare nell’economia, mentre le imprese pubbliche sono del tutto assenti dal loro quadro analitico, pur essendo ancora attori economici rilevanti in tutti i paesi europei. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la socialdemocrazia europea ha sostanzialmente abiurato il patrimonio della sinistra di ispirazione socialista, ha abbandonato i temi del conflitto sociale, della protezione sociale, dell’interventismo statale, della redistribuzione economica e della difesa delle classi popolari, dei lavoratori, degli sfruttati, dei precari e dei poveri di redditi e di diritti sociali, modificando la sua identità politica per convertirsi al “neoliberismo progressista” del liberalismo economico, delle regole del mercato, dei diritti individuali (piuttosto che sociali) associati alle esigenze espressive dei ceti professionali, della politica identitaria, dell’innovazione, della governance e della reattività individuale. Ha favorito la globalizzazione neoliberista pensando che avrebbe favorito il dinamismo economico, lo sviluppo, l’uguaglianza delle opportunità e la “cetomedizzazione” dei ceti proletari, mentre nei Paesi europei austerità, crisi e stagnazione hanno portato crescenti disuguaglianze, la “de-cetometizzazione” di una larga parte del ceto medio, la precarizzazione del mercato del lavoro e perdite di reddito, di patrimonio e posti di lavoro. Ha promosso e favorito la modernizzazione capitalista, dimenticando però la “questione sociale”, l’emancipazione collettiva e l’ispirazione socialista, e ora rischia l’estinzione. È in questo allontanamento politico-culturale tra sinistra riformista e classi popolari che si trova la chiave per comprendere il successo dei contro-movimenti del populismo di destra, nazionalista e xenofobo che soffia sulla paura degli immigrati e della globalizzazione. I “subalterni”, i vecchi lavoratori industriali o i disoccupati e sottoccupati, creati dalla macchina produttiva del capitalismo, rimasti senza alternative nella mente della sinistra riformista, sono stati ignorati, sono rimasti senza voce ed hanno deciso di votare a destra o di non votare per nessuno.[]
  6. Il settore delle esportazioni tedesco ora soffre i decenni di compiacimento del proprio successo. Per anni, i resoconti di un’imminente rivoluzione verde nella produzione di veicoli elettrici sono stati ignorati. Ora si avvicina il giorno del giudizio industriale: i produttori di automobili tedeschi si sono visti estromessi dai loro ricchi mercati cinesi, ormai serviti da produttori cinesi. Mentre le previsioni di crescita catastrofica facevano emergere una situazione critica a ottobre, la Volkswagen ha annunciato che avrebbe chiuso fabbriche in Germania per la prima volta nei suoi 87 anni di storia, con gravi ripercussioni sulle economie vicine in Belgio, Polonia e Paesi Bassi. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti al mondo, manodopera costosa e regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e trasferendosi in altre regioni (a cominciare da Stati Uniti e Messico). Quasi il 40% delle aziende industriali tedesche sta considerando una mossa del genere, secondo un recente sondaggio di DIHK, una lobby aziendale.[]
  7. All’inizio del 2025 il panorama globale è ancora segnato dalla violenza, con più di 56 conflitti armati e centinaia di migliaia di morti, tra cui il conflitto israelo-palestinese, la guerra russo-ucraina, oltre agli scontri in paesi come Burkina Faso, Somalia, Sudan, Yemen, Myanmar, Nigeria, Siria e Congo, tra gli altri. La mancanza di visibilità mediatica di queste guerre incide sul loro sviluppo, riduce la pressione internazionale – inesistente – e rallenta ogni iniziativa diplomatica per raggiungere un efficace cessate il fuoco. Ciò contrasta con la narrazione predominante della protezione della pace nel mondo.[]
  8. I leader europei sembrano sempre più abbracciare l’adagio guerrafondaio latino “Si vis pacem para bellum”, ovvero “Se vuoi la pace, preparati alla guerra”. Il problema con il “bellicismo per la pace” oggi è che l’esistenza di armi nucleari, che possono annientare la civiltà umana, ha cambiato radicalmente l’equazione guerra-pace, soprattutto nei casi in cui è coinvolta una potenza nucleare. In molti si sono dimenticati o non sanno che l’UE nacque con i Trattati di Roma del 1957, oltre che per evitare nuove guerre fratricide, anche dall’umiliazione subita da Francia e Regno Unito nella crisi di Suez del 1956, e dai carri armati sovietici a Budapest dello stesso anno. È nata cioè dalla consapevolezza che da soli i paesi europei non avevano alcuna possibilità di resistere alle potenze mondiali militarizzate (con arsenali nucleari) che stavano crescendo: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.[]
  9. A questo proposito, come non ricordare il rapporto Cecchini della Commissione europea (1988) che, come premio per il completamento del mercato unico interno previsto per il 1992, aveva promesso ai cittadini europei un aumento della prosperità dell’ordine del 5% del PIL dell’Unione Europea, una riduzione media del 6% dei prezzi dei beni di consumo, nonché milioni di nuovi posti di lavoro e un miglioramento delle finanze pubbliche del 2,2% del PIL. Il rapporto evidenziava anche come la non realizzazione del mercato unico sarebbe continuata a costare centinaia di migliaia di miliardi ai cittadini europei sotto forma di spese superflue e di occasioni mancate.[]
  10. Negli ultimi due decenni, per “migliorare la competitività”, invece di esplorare le nuove frontiere dell’innovazione tecnologica e dell’economia della conoscenza, l’Europa ha preferito cercare di ammodernare i settori industriali tradizionali e di applicare sistematicamente un modello di precarizzazione del lavoro (le riforme Hartz in Germania, il Jobs Act in Italia, etc.) e di deflazione salariale.[]
  11. Il PIL pro-capite reale tedesco nel 2023 è arretrato di 8 punti su quello statunitense rispetto al 2000. L’Unione Europea si trova ad affrontare gravi sfide economiche. Dal 2008 al 2023, il tasso di crescita medio è stato solo dello 0,9%, il che dimostra un’economia stagnante. Altrettanto preoccupanti sono le proiezioni per il 2024: la crescita globale dovrebbe raggiungere il 2,5%, ma nell’UE sarà solo dello 0,7%, rispetto al 2,5% degli USA (con un deficit e un debito superiori ai limiti ortodossi europei: 7,1% e 118,73% del PIL nel 2023), al 5% della Cina (con un debito dell’84,38% del PIL e un deficit del 6,95% nel 2023) e al 6% dell’India. Nel 2023 l’Europa ha registrato il 6,7% degli investimenti industriali mondiali, contro il 54,5% dell’Asia e il 28,5% degli USA. Ciò riflette un chiaro spostamento del potere economico dall’Occidente all’Oriente e al Sud del mondo, alla Cina e ai BRICS.[]
  12. Le cose per l’economia tedesca non andavano bene dal 2020, e le decisioni prese dalla NATO e dall’UE nel 2022 con la guerra in Ucraina le hanno fatto perdere i legami con la Russia e le forniture di gas, compresa l’esplosione del Nord Stream. Nel 2023, la Germania ha rispettato i requisiti di deficit pubblico (2,6% del PIL) e debito (62,9%), cosa non troppo lodevole se si tiene conto che i rapporti stabiliti dal Trattato di Maastricht nel 1992 per l’Eurozona erano quelli che la Repubblica Federale ha mantenuto rispettivamente il 3% e il 60% del PIL. Tra i problemi dell’industria tedesca va evidenziata la crisi del settore automobilistico, che dal 2015 è rimasto intrappolato nello scandalo delle emissioni del gas di scarico dei motori diesel (dieselgate), per poi perdere il treno delle auto elettriche e gran parte della sua capacità di esportazione.[]
  13. Draghi ha esortato i paesi dell’UE a unirsi per prendere in prestito denaro, cioè di creare nuovo debito pubblico europeo, come hanno fatto durante la pandemia (per i programmi Sure e Next Generation UE). Ma è improbabile che ciò venga accolto con approvazione in Olanda, Germania e altri Stati “frugali”, dove la paura dell’indebitamento è insita nella politica dei paesi. L’uomo che più probabilmente diventerà il prossimo cancelliere tedesco dopo le elezioni di febbraio, il politico di centro-destra Friedrich Merz, ha detto di essere contrario a un ulteriore prestito congiunto. Anche von der Leyen non ha segnalato il suo sostegno a questa opzione. Attualmente il budget UE è fermo a meno di 200 miliardi, due terzi dei quali destinati alla politica agricola comune e alle politiche di coesione (non certo agli investimenti per il futuro dell’Unione).[]
  14. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL del blocco in R&S. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000. Metà della spesa proviene dalla Germania e la maggior parte di quell’investimento confluisce nel solo settore dell’automotive che impiega ancora circa 800 mila persone a livello nazionale e che è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. Per vedere i limiti della politica di Bruxelles, basta considerare cosa è successo con il Chips Act dell’UE, uno dei principali atti legislativi del primo mandato di von der Leyen. L’atto, inteso a incoraggiare la produzione europea di microchip, ha fissato un obiettivo ambizioso di raddoppiare la produzione di semiconduttori al 20% del totale mondiale entro il 2030. Gli osservatori di lunga data dell’UE potrebbero essere perdonati per aver avuto un senso di déjà vu. Un decennio fa, la Commissione si è prefissata lo stesso obiettivo, solo che la scadenza era il 2020. Lo sforzo sta già inciampando in forti venti contrari. A settembre, il produttore di chip statunitense Intel ha fatto marcia indietro su una fabbrica pianificata in Germania. Settimane dopo, un’altra società tecnologica, Wolfspeed, ha annunciato che avrebbe bloccato i piani per una fabbrica da 3 miliardi di euro nel paese.[]
  15. Dalla crisi della pandemia tutti i paesi europei sono usciti con grandi aumenti di spesa pubblica – grazie alla sospensione delle regole dell’austerità europea – che hanno portato ad aumentare tra il 10 e il 20% il rapporto debito pubblico/PIL, per cui il debito pubblico medio si avvicina ormai al 90%. Aumenti che il nuovo Patto di Stabilità ora vuole cancellare, con il rischio di una nuova stagione di tagli e recessione. I decisori politici europei si trovano ora di fronte a un dilemma. L’UE ha concordato nuove regole fiscali che richiedono che gli elevati debiti pubblici dei paesi dell’UE siano messi su un percorso discendente per aumentare lo spazio fiscale. Se i decisori politici le applicano in modo poco stringente, è improbabile che riescano a costruire la fiducia reciproca necessaria per intensificare gli interventi a livello UE. Ma un’applicazione rigorosa del nuovo quadro fiscale limiterebbe lo spazio di manovra a livello nazionale. Superare il dilemma è difficile. Le nuove regole fiscali consentono un aggiustamento fiscale più graduale, ma ciò richiede l’impegno dei governi a realizzare riforme e investimenti, in particolare quelli in linea con le priorità dell’UE. Pertanto, sarà cruciale vedere come la Commissione europea implementerà questa clausola.[]
  16. Il “centro destra” non ha mai avuto una filosofia politica coerente, ma è stato sempre teso a mescolare la deferenza alle esigenze percepite dei grandi interessi affaristici/imprenditoriali, la difesa del ceto medio e dei cosiddetti valori tradizionali che sono in realtà pregiudizi di lunga data e ammirazione per le istituzioni consolidate. Soprattutto, ha offerto un cordone sanitario, impedendo a qualsiasi cosa più a destra di acquisire legittimità politica. L’attuale declino è il risultato delle politiche implementate dai partiti di centro-destra che hanno dominato negli anni 2010 in tutto il continente. Seguendo l’esempio di Angela Merkel durante i suoi 16 anni da cancelliera tedesca, sono stati loro a stabilire i termini della politica europea che ora sono tornati a perseguitare i decisori politici. La loro risposta, ad esempio, alla crisi dell’euro, problemi finanziari apparentemente infiniti seguiti al crollo del 2008, è stata quella di offrire una miscela dannosa di moralismo e tecnocrazia. Raddoppiando le misure di austerità punitive, Jeroen Dijsselbloem, luogotenente della Merkel a capo di un raggruppamento informale di ministri delle finanze della zona euro, ha affermato che i governi indebitati dell’Europa meridionale avevano sprecato i loro soldi in “aperitivi e donne”. Da parte sua, Jean-Claude Juncker, allora capo della Commissione Europea, ammonì i Greci che non c’era “nessun bisogno di suicidarsi perché avete paura di morire”. Guidati dalla Merkel, i politici europei di centro-destra insistettero sull’obbedienza ai mercati finanziari e all’etichetta europea, indipendentemente dalle conseguenze. Possiamo dire che sul piano economico, il consenso della Merkel ha seminato i semi della stagnazione. Politicamente, ha finito per distruggere la dissidenza a sinistra, mentre ha permesso al malcontento a destra di prosperare. Mentre l’inflazione spinge il costo della vita alle stelle e i salari reali stagnano, gli elettori europei sono rimasti con la sensazione che le leve della politica stiano sfuggendo loro di mano. Inveire contro l’immigrazione, da tempo fonte di ira per molti nel mondo occidentale, e impegnarsi in guerre culturali di stampo americano consentono almeno una liberazione catartica e l’illusione del controllo.[]
  17. Le forze di estrema destra hanno prevedibilmente prosperato, alternativamente tollerate e cooptate dal centro-destra politico. In sette dei 27 paesi dell’Unione Europea, dalla Finlandia all’Italia, l’estrema destra ora partecipa direttamente al governo. Nella Commissione Europea appena assemblata guidata da Ursula von der Leyen, Raffaele Fitto un alleato chiave di Meloni ricopre l’importante posizione di vicepresidente. Piuttosto che il blocco che respinge l’estrema destra, la prospettiva sembra essere un’Unione Europea di estrema destra, in cui il mainstream insegue le estreme destre reazionarie.[]
  18. Lo Stato sociale è stata la più importante invenzione istituzionale europea del ‘900 e per decenni ha garantito la coesione delle società nazionali e dei territori locali, offrendo protezione, in misura mai immaginata prima nella storia, contro i rischi della malattia, delle disgrazie, della disoccupazione, della povertà e della vecchiaia.[]
  19. È lo stesso Draghi a riconoscere nel suo intervento al Simposio annuale del Centre for economic policy research (Cepr) che il modello economico fin qui adottato non è più sostenibile: “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari come strumento per aumentare la competitività esterna, aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo. Tutti i governi disponevano di uno spazio fiscale per contrastare la debolezza della domanda interna, ma almeno fino alla pandemia hanno scelto deliberatamente di non utilizzare questo spazio. Complessivamente, la politica ha rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica, basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi. Una costellazione che non sembra più sostenibile“. Per decenni, sotto lo sguardo attento di Draghi e degli altri tecnocrati filoeuropeisti, “svalutazioni interne” realizzate attraverso politiche salariali restrittive (riduzione dei salari reali e nominali), tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni (e liberalizzazioni) di imprese e servizi pubblici e successive ondate di riforme pensionistiche, miranti a ridurre i deficit dei sistemi previdenziali (aumento dell’età pensionabile minima, riduzione dell’ammontare delle pensioni, introduzione forzata di fondi previdenziali privati, etc.) sono divenute gradualmente la norma in tutti i Paesi dell’Unione Europea, anche se con gradazioni diverse.[]
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