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Draghi salverà l’Italia? E chi salverà gli italiani?

di Franco
Ferrari

Cesare Pavese, nella “Casa in collina” scrive: “– Professore – esclamò Nando a testa bassa, – voi amate l’Italia? Di nuovo ebbi intorno a me le facce di tutti: Tono, la vecchia, le ragazze, Cate. Fonso sorrise. – No, – dissi adagio, – non l’Italia. Gli italiani.”

Il Presidente del Consiglio incaricato, la cui figura, dalla lettura e dalla visione dei media, è ormai andata oltre il profilo dell’esperto per assurgere quasi a quella della divinità, ha il compito di “salvare” l’Italia.

Così come a suo tempo ha “salvato” l’euro. Ci si dimentica in genere di precisare che per “salvare” l’euro, ha “sommerso” anche molti europei, greci soprattutto, ma anche italiani, portoghesi, ecc. Quella parte di europei, non tutti evidentemente, che hanno pagato, con il drastico e repentino peggioramento delle loro condizioni di vita e delle loro aspettative per il futuro, il salvataggio della moneta comune.

Indubbiamente Draghi si è dimostrato abile e anche sufficientemente cinico per svolgere il suo compito alla guida della BCE. Ora il suo compito è diverso e anche più complesso. Dirigere una banca centrale, soprattutto quella europea che non ha alle proprie spalle uno Stato, è un compito sicuramente politico e non meramente tecnico, ma guidare un governo presenta profili più complessi e un arco di tematiche non riducibili a quelle meramente monetarie.

Il Presidente del Consiglio incaricato sembra poter contare su un grande consenso parlamentare, anche se resta per ora l’incertezza della decisione finale del Movimento 5Stelle, che pure sembra orientato a sostenerlo. Il passaggio dalla fase delle aspettative a quello delle scelte, a partire dai nomi dei Ministri, potrà anche far evaporare l’alone quasi mitologico costruito attorno a Draghi.

Il quale, per ora, ha scelto di accantonare tutti i temi sui quali si sono accapigliati i partiti, sia quelli della maggioranza che quelli dell’opposizione (Mes, quota 100, reddito di citadinanza). Propone una sua agenda che punta da un lato su scelte non conflittuali (chi può essere contrario ad accelerare il piano delle vaccinazioni?) ed altre presentate in modo abbastanza generico tale da non suscitare immediate controversie. Ma qualche nodo ostico si presenterà subito, a partire dalla decisione sul rinnovo del blocco dei licenziamenti. Si può dare per certo che Draghi non lo ami, ma rimuoverlo prima che l’economia si sia ripresa, potrebbe avere un impatto sociale negativo molto forte. È prevedibile che sia favorevole a cancellarlo, come chiede la Confindustria, accompagnandolo ad una revisione degli ammortizzatori sociali, ma non sarebbe facile realizzare questo cambiamento in tempi così brevi. Questa riforma significa: garantire più libertà di licenziamento alle imprese, introducendo una qualche forma di integrazione del reddito per chi resta senza lavoro. Una prospettiva che consenta alle imprese stesse di esternalizzare i costi sociali delle ricadute sull’occupazione delle variazioni del ciclo economico e della ristrutturazione tecnologica.

Questo tema rientra in quella che potrà essere il primo punto dell’agenda di Draghi: modernizzare e ristrutturare il capitalismo italiano. Da un lato in sintonia con il processo avviato a livello europeo con le parole d’ordine della digitalizzazione e della trasformazione finalizzata a ridurre i rischi del cambiamento climatico. Dall’altro avendo presente le specificità italiane che hanno prodotto la “lunga stagnazione” dell’economia. La lettura dominante attribuisce questo fenomeno alle inefficienze dello Stato che peserebbero sulle imprese direttamente (burocrazia pubblica, lentezza della giustizia civile, ecc) o indirettamente (un sistema scolastico che non “produce” le figure tecniche intermedie che servono alle imprese).

Seppure questi elementi non possono essere ignorati, vi si potrebbe contrapporre una lettura alternativa. È l’inefficienza del sistema delle imprese e dei suoi “capitani” (piccola dimensione, sottocapitalizzazione, familismo imprenditoriale, sfruttamento del basso costo del lavoro anziché incremento della produttività) a pesare su tutto il sistema economico, produttivo e sociale italiano.

Improbabile che Draghi persegua questa seconda lettura. Ma muovendosi all’interno della prima, dovrà decidere se e quanto sarà l’azione politica (la sua) a orientare la ristrutturazione del sistema delle imprese. Non sarà una nuova Iri (come ha ipotizzato su questo sito Riccardo Rifici) piuttosto una nuova Mediobanca con sede a Palazzo Chigi anziché in Piazzetta Cuccia. Questa ristrutturazione potrebbe salvare l’Italia, identificata con il suo sistema capitalistico, ma potrebbe far pagare un costo elevato a non pochi italiani.

Un secondo tema che definirà il percorso del futuro governo Draghi sarà il rapporto tra europeismo e atlantismo. Nelle note fatte trapelare alla stampa, il Presidente incaricato ha messo il centro l’uno e l’altro. Come sottolineava Andrea Ventura nel nostro dialogo di ieri, che potete ritrovare sul nostro sito, in questo modo vengono nettamente definiti i confini geopolitici che un governo italiano “non può non avere”. A Salvini glielo hanno spiegato da tempo e ora sembra averlo capito. O rompe con l’estrema destra cosiddetta sovranista o si deve scordare di poter andare a guidare un prossimo governo italiano. Va detto che i confini fra la destra accettabile a livello europeo e quella messa ai margini non sono così netti. Orban è ancora nel Partito Popolare europeo. In alcuni Paesi d’Europa i partiti del centro-destra (appartenenti al PPE) hanno rotto il confine dell’accettabilità dei rapporti con l’estrema destra. In Spagna alleandosi con Vox e in Portogallo con Chega, almeno per ora localmente. Solo la CDU tedesca tiene il punto nei rapporti con l’AfD. Nella stessa Grecia, come ricordava Lefteris Stoukogeorgos nel nostro dialogo di ieri, è la stessa Nuova Democrazia, alleata della CDU a farsi interprete delle spinte autoritarie della destra revanchista.

Ma il dibattito nell’establishment europeo si declina oggi in modo diverso dal passato. Di fronte all’”atlantismo della vecchia guardia” si contrappone la parola d’ordine dell’”autonomia strategica” dell’Europa. Lo ha ripetuto nei giorni scorsi il Presidente francese Macron in un impegnativo discorso all’Atlantic Council. L’autonomia europea non implica la rottura delle alleanze con gli Stati Uniti, ma una diversa modulazione nella difesa dei propri interessi e un diverso ruolo sul piano dei conflitti globali. Come si collocherà Draghi in questa che non è ancora una polarizzazione, ma sicuramente una diversa articolazione della visione europea? In Italia tutti allineati dietro a “europeismo” e “atlantismo”, in Europa si differenziano forse i due progetti e ci si chiede: “europeismo” o “atlantismo”?

Una terza questione che attiene all’agenda politica di Draghi riguarda l’applicazione o meno di politiche di austerità, così come l’ex Presidente della BCE ha contribuito ad imporre dopo la crisi del debito sovrano dell’inizio del decennio scorso. Chi si schiera per il “no a Draghi” tende a sottolineare questo aspetto. Chi è pronto a saltare sul carro della nuova maggioranza, riscopre lontane ascendenze keynesiane del Presidente del Consiglio incaricato e immagina che ormai le politiche di austerità appartengano al passato. Dimenticando anche che l’esperienza storica ci dice che le politiche keynesiane, senza il conflitto sociale che veda in campo masse organizzate, è solo una tecnica tra le altre di gestione degli affari della borghesia.

È vero che oggi lo spartito dominante, a partire dal Fondo Monetario Internazionale all’OCDE alla stessa Lagarde, impone di non applicare politiche di austerità, perché queste avrebbero un impatto devastante sull’economia. Naturalmente la stessa ricetta poteva essere valida anche per la crisi precedente. Allora si pensava che il peso delle politiche recessive potesse ricadere solo sui ceti popolari di alcuni Paesi. Oggi si teme che analoghe politiche economiche impattino anche su profitti e rendite. Quindi meglio non rischiare.

Occorre però tenere presente che l’applicazione di politiche economiche recessive viene fortemente sconsigliata “per ora”. “Per ora” e “non troppo presto” non stanno a significare “mai più”. Per l’Italia, paese a bassa o nulla crescita economica e a forte debito pubblico, la “finestra di opportunità” potrà durare forse un paio d’anni. Il tempo che ci sarà garantito dalle politiche della BCE che si è fatta carico praticamente di tutto l’extradebito italiano derivante dalla pandemia. E così sarà fino all’inizio del 2022. Avremo parallelamente i due o tre anni nei quali si realizzeranno gli interventi previsti dal Recovery Plan.

Proprio nel rapporto tra politiche espansive e politiche di austerità ci sono due aspetti del Recovery Plan in versione italiana che sarebbe interessante discutere e valutare. Il primo è l’entità delle risorse da utilizzare. La proposta di Conte e Gualtieri è di ricorrere a tutta la parte relativa ai grants (fondo perduto) e di un terzo circa della parte costituita da prestiti. Grosso modo 120 miliardi su 200. La preoccupazione è quella di non far salire troppo il debito che già raggiungerà il livello, molto elevato, del 160%. Questa scelta riduce un rischio ma ne presenta un altro. Tiene relativamente sotto controllo il  debito, ma presenta quello di essere quantitativamente insufficiente per imprimere una effettiva svolta all’economia italiana.

Si tratta di situazioni non paragonabili, ma, per avere un’idea, Biden conta di avviare un piano straordinario di interventi che ammonta a circa il 10% del PIL americano. Sarebbe corrispondente a 180 miliardi circa per l’Italia, quindi di dimensioni analoghe a tutto il Recovery Plan. Ma spendendoli in sei mesi, non in sei anni. L’altro elemento implicito nella linea scelta da Gualtieri, ovvero di utilizzare una parte significativa dei fondi europei solo per sostituirla al debito già esistente, inserendo le relative nel Piano, determinerà che una parte importanti di spese derivanti dal bilancio italiano, saranno sottoposte al controllo e all’approvazione della Commissione.

Il secondo elemento contenuto nel Piano di Gualtieri, riguarda i tempi di rientro nei parametri di deficit derivanti dalle regole europee, attualmente sospese ma non cancellate. Questo rientro avviene prima che gli investimenti del Piano abbiano gli effetti previsti sull’incremento del PIL. Indebitarsi da un lato e ridurre il deficit dall’altro (anche supponendo che le spese straordinarie legate all’emergenza della pandemia non debbano essere più rinnovate), richiede necessariamente di applicare tagli di spesa. Applicare misure recessive prima di avere registrato gli effetti espansivi degli interventi del Piano sull’economia, sembra una contraddizione, il cui esito potrebbe avere effetti molto negativi e portare a riproporre politiche di austerità.

È pur vero che a quel punto il “salvatore della patria” non dovrebbe essere più alla guida del governo. E non sarà facile trovarne un altro che, dopo aver salvato l’Italia, si occupi anche di salvare gli italiani. E forse sarebbe ora che ci si proponesse di salvarsi da soli.

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