Nel provare a decifrare i fatti avvenuti in Francia e Austria, in questi ultimi giorni e nel loro riverbero nei Paesi UE, bisogna evitare di lasciarsi andare al tentativo di operare generalizzazioni. I fatti criminali che hanno insanguinato i due Paesi e che – ma è anche superfluo dirlo – vanno considerati come delitti da perseguire, non possono e non debbono essere interpretati come il sequel di quanto avvenuto nel 2015. Allora il sedicente Stato Islamico (Daesh) non solo aveva una propria manifestazione geografica in aree di Siria e Iraq ma estendeva una volontà di estensione in numerosi Paesi del continente africano, in Asia (soprattutto Vicino Oriente) e rappresentava meta e speranza anche per numerosi giovani, non necessariamente di origine immigrata, nati e cresciuti nei Paesi europei. Oggi non solo c’è un disfacimento evidente dell’utopia fondamentalista ma, anche grazie ad una maggiore capacità di intelligence, un lavoro carsico operato per rompere dall’interno gli elementi di radicalizzazione politico religiosa, le difficoltà che si incontrano per arruolarsi come foreign fighters, la stessa scarsa attrattiva offerta da tale opportunità, hanno – e ne siamo lieti – diminuito il potenziale violento di tali opzioni.
E allora come valutare i fatti di questi giorni?
Intanto chiedendo a chi blatera sui teleschermi di “centrali del terrore”, di provarne l’esistenza ma, soprattutto, cercando di guardare con onestà intellettuale e buon senso la realtà.
Quel sogno, che per tutte/i noi rappresenta un incubo, si è dissolto ma non si sono dissolte né sono sparite le persone che a quella speranza guardavano con interesse.
Sono entrati in ballo alcuni elementi nuovi, di carattere tanto socioeconomico, quanto culturale e persino geopolitico a introdurre nuove variabili.
Dal punto di vista socioeconomico alcuni Paesi di cui ci si interessa solo quando si parla di “immigrazione irregolare” stanno pagando il costo di una crisi totale acuita dalla pandemia. Si pensi alla Tunisia. Prima i tagli alle esportazioni ne hanno ridotto le capacità economiche, a seguire il terrorismo interno e il covid hanno annientato il comparto del turismo fondamentale per il Paese. Che i giovani tendano a fuggire dalla Tunisia e a bruciare le frontiere come avveniva nel 2011 è fatto scontato, che in molti si disperdano nelle banlieue francesi o belghe, dopo essere passati inevitabilmente per l’Italia lo è altrettanto. Che uno su mille parta con rabbia e odio verso lo stesso Occidente che mostra la sua opulenza è scontato. Sta ad un lavoro di condivisione di informazioni fra i Paesi UE, che manca in materia di sicurezza, fare in modo di limitare i rischi che ci sono e che non si possono sperare di risolvere costruendo un impossibile muro nel Mediterraneo.
Da non dimenticare poi, volendo appunto evitare generalizzazioni, che fra gli attentatori in Francia e Austria oltre al cittadino tunisino sbarcato a Lampedusa, divenuto occasione per il solito sciacallaggio italiano, c’erano un ceceno a Parigi e un cittadino austriaco a Vienna, quest’ultimo che aveva già due anni fa provato ad arruolarsi per andare a combattere nell’Isis.
C’è insomma un elemento di disperazione e di perdita di identità sociale che certo non giustifica alcun crimine ma che se non viene rapidamente assunto come questione sociale non potrà essere fermato, anche in assenza di una progettualità politico militare più ampia contro cui schierarsi.
Il secondo aspetto da prendere in considerazione, forse quello più infido da affrontare, ha profonde radici culturali. Le vignette pubblicate da Charlie Hebdò che irridono al profeta sono divenute immediatamente elemento di conflitto soprattutto in alcuni Paesi a maggioranza musulmana. Con reazioni in alcuni casi anche assurde. C’è stato chi ha invocato il boicottaggio dei prodotti francesi, chi ha compiuto atti di violenza davanti alle rappresentanze diplomatiche parigine, chi ha pubblicato vignette di risposta in cui irridendo, sempre con l’utilizzo della caricatura a sfondo pornografico, aventi come soggetti di volta in volta Macròn, Gesù e la Madonna, si mostrava anche una paurosa contraddizione teologica. Nulla di assurdo rispetto alle vignette con Macròn, meno comprensibili quelle aventi come soggetti figure considerate sacre nel mondo musulmano e in quanto tali neanche rappresentabili senza incorrere nella colpa di blasfemia.
Come fa notare un intellettuale siriano, Sam Mouazin, “nell’Islam, Gesù ha ancora più importanza del Profeta Mohammed che a differenza del primo, non tornerà mai sulla terra”.
Tale incongruenza popolare è sintomo questo sì di una rottura forte e profonda col mondo occidentale che ci dovrebbe interrogare, fatta di linguaggi e di visioni del mondo che si contrappongono, che non ammettono l’esistenza dell’altro, non sulla base di progetti politici alternativi quanto sull’assenza di comprensione reciproca.
Il mondo musulmano – percepito incautamente come un unicum – è raccontato come minaccia in Occidente e utilizzato come capro espiatorio per sviare lo sguardo da ogni criticità reale.
Specularmente il mondo e la cultura occidentale – anche queste spesso raccontate in maniera uniforme – sono percepite come respingenti, colonizzatrici, capaci solo di reprimere e sfruttare, immorali e prive di ogni forma di etica universale.
Due percezioni che fra i tanti effetti deleteri producono il fatto che alcuni si sentano autorizzati a far saltare in aria moschee, altri ad uccidere, spesso in maniera molto cruenta, uomini e donne considerati semplicemente infedeli.
Non ci sono obiettivi politici o militari quanto lo stragismo fine a se stesso, alla capacità di incutere terrore mettendo a repentaglio, nel compiere attentati, la quasi certezza di rimanere uccisi.
La logica dei nuclei di “desperados” o dei “lupi solitari” non è meno pericolosa delle ormai fallite modalità organizzative preesistenti.
È meno prevedibile e più “liquida”, necessita per essere affrontata, anche di nuovi strumenti di indagine, non si risolve attraverso inutili proclami ma con un lento e faticoso lavoro di ricostruzione di relazioni profonde a cui la politica si dovrebbe dedicare, accettando il fatto che di episodi come quelli delle ultime settimane ne vedremo ancora ma non debbono fermare tale azione.
Da ultimo è utile ragionare su come i diversi Paesi colpiti dal terrorismo hanno finora reagito. In Austria prevale ancora stupore e necessità di comprendere bene quanto accaduto a Vienna. In Francia, soprattutto a seguito dell’uccisione del professor Samuel Paty, le reazioni del governo – se si eccettuano alcune sgrammaticature iniziali – hanno portato lo stesso presidente Francese a pronunciarsi non solo in difesa della laicità e della libertà di espressione ma a prender le distanze da chi utilizza tali libertà anche per offendere.
Senza permettersi alcuna giustificazione rispetto a quanto accaduto non si può negare che non solo le vignette considerate irriguardose rispetto al Profeta quanto le molte politicamente scorrette verso ogni tipo di soggetto, donne, bambini, migranti, italiani ecc. sono, proprio in nome della libertà di espressione, quantomeno discutibili. Il giornalista di Al Jazeera che, intervistando Macròn, ha fatto notare che lo stesso giornale non pubblicherebbe mai vignette antisemite senza essere condannato in maniera forte ed energica, come a chiedere conto di una gerarchia del rispetto che ha contribuito a scatenare rabbia popolare.
Il tema sta scatenando in Francia un dibattito acceso che coinvolge molto la pubblica opinione.
Il terzo aspetto, quello di carattere geopolitico è più facilmente individuabile ma per essere affrontato necessita di scelte coraggiose e condivise. Se in nome dei propri interessi di potenza regionale, regimi come quello turco si ergono come difensori dei musulmani, insultando pesantemente il presidente francese e contemporaneamente agiscono per prendere il controllo della Tripolitania sottraendola agli interessi transalpini, non si può non cogliere il nesso fra tali interventi.
Ne consegue che se l’UE vuole continuare a sostenere in chiave “antimmigrazione” Erdogan, non potrà pretendere che questo non si traduca anche in un intervento per l’egemonia in un contesto molto più ampio. Togliendo invece tale appoggio ci si assume la responsabilità collettiva di reagire ad una provocazione che riguarda l’intera UE e che può soltanto aumentare il potere di ricatto del regime turco. Certo ai Salvini e alle Meloni che ci ritroviamo in casa fa più comodo e crea meno difficoltà dire che il pericolo arriva dai barchini che giungono dalle coste tunisine piuttosto che da una potenza che ormai è divenuta elemento preponderante nel Vicino e Medio Oriente.
Per la leader di FdI, che invoca la laicità a proprio uso e consumo, si può al massimo dire “la Turchia non entrerà mai in Europa”, ma poi i fondi UE in Turchia, come le armi o gli scambi commerciali vanno incentivati. O ci sbagliamo?
Mette da ultimo profonda tristezza come in Italia simili tragedie, da cui come già si diceva, bisognerebbe uscire ricostruendo relazioni e percezioni dell’altro meno manichee, si esca parlando, peraltro a sproposito, di “immigrazione incontrollata”, di “invasione di terroristi che minacciano la civiltà cristiana”, di “responsabilità personali dell’attuale ministro dell’Interno”, invitata a dimettersi, eccetera eccetera.
E se uno dei tanti peones della destra che hanno fatto fortuna con un posto in Parlamento diviene normale dire che “per fermare la pandemia bisogna arrestare l’immigrazione incontrollata”, unendo in un unico calderone persone positive al covid (?) e presunti terroristi, beh forse si sta toccando veramente il fondo.
In questa maniera e in assenza di un’informazione seria e chiara, capace di smentire il potente di turno che rilascia tali dichiarazioni fornendo fatti concreti, il corto circuito pericoloso che si è innescato in Europa, sovraccarico di dimensioni diverse e complesse, non potrà altro che produrre ulteriori guai.
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