Dopo una serie di incertezze, discussioni anche complesse, le realtà antirazziste e del terzo settore, che sono state, con diverso titolo protagoniste dell’assistenza ai sopravvissuti dopo la strage del 26 febbraio hanno convenuto di tenere una grande manifestazione sulla spiaggia di Steccato di Cutro, quella su cui in quella orrenda mattina si sono frantumante le vite e le speranze di tante persone in fuga da guerre e catastrofi naturali. Mentre scriviamo il numero delle vittime accertate è di 72 persone, molti i bambini e le donne, ma ogni giorno da quel mare si ritrovano tracce di persone dichiarate disperse e per cui ormai non c’è alcuna speranza di ritrovarle in vita. La vicenda, che sembra aver risvegliato e colpito un’opinione pubblica rimasta indifferente in passato, presenta numerosi lati oscuri. Non solo in parlamento ma in molte piazze italiane ci sono già state mobilitazioni per chiedere le dimissioni dell’inquilino del Viminale che, con le proprie affermazioni ciniche, attraverso cui ha scaricato ogni colpa prima su coloro che erano “partiti illegalmente” e che in fondo se l’erano cercata, poi sugli scafisti, spesso l’ultima ruota del carro di una articolata gestione del traffico di esseri umani, aveva mostrato per l’ennesima volta unicamente il volto feroce dello Stato. Un volto feroce con i deboli ma assente, quando si tratta di compiere i propri doveri nel rispettare le convenzioni internazionali. La magistratura dovrà accertare le responsabilità nella ricostruzione della catena di comando che porta innanzitutto al ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture e Trasporti (Piantedosi e Salvini), ma, ben prima della fine di un’inchiesta si è aperta una netta discussione sulle scelte e sugli errori (?) politici che sono alla base di un evento luttuoso come questo.
La ricostruzione burocratica fatta prima in commissione Affari Costituzionali della Camera e poi nelle aule del parlamento, da parte del ministro dell’Interno è apparsa non solo lacunosa, ma ha dimostrato, anche nel suo tentativo di giustificare l’ingiustificabile, come la punta dell’iceberg di una gestione dei confini, nazionale ed europea, semplicemente fallimentare. L’affondamento su una secca, a pochi metri dalla salvezza di una nave e la morte di tante persone è stata derubricata dal ministro come “sbarco autonomo”. Si definiscono tali quegli arrivi, in piccoli scafi, che sfuggono ai controlli delle autorità preposte e giungono in Europa senza alcun tipo di aiuto. Si può definire tale un’imbarcazione di 40 mt che conteneva almeno 200 persone? Sempre secondo l’ineffabile “questurino” (rivendica con orgoglio tale definizione e glie la lasciamo volentieri), il naufragio non va imputato ai mancati soccorsi ma al tentativo dei crudeli scafisti (che ovviamente chi scrive non difende certo), di sfuggire ai controlli di polizia al punto far compiere all’imbarcazione che guidavano una virata tale che l’ha portata ad incagliarsi in una secca con la sua conseguente immediata distruzione. Ci sarà bisogno ancora di ulteriori indagini ma alcune cose sono certe e smentiscono categoricamente tali grottesche affermazioni.
Come è noto, 23 ore prima del naufragio, a 40 miglia dalle coste calabresi, un aereo di Frontex, l’agenzia europea di contrasto all’immigrazione illegale che ogni Stato contribuisce a sostenere, comunicava la presenza di un natante che probabilmente conteneva migranti “illegali”, alle autorità italiane. Queste, con molto ritardo intervenivano con un’operazione di law and enforcement, (di polizia) inviando navi della Guardia di finanza che, non essendo attrezzate per il soccorso in condizioni avverse ed essendo il mare in burrasca, facevano ritorno ai porti di partenza. Ora, nonostante dalle prime rilevazioni aeree risultasse che l’imbarcazione stipata di migranti navigasse regolarmente, con una buona linea di galleggiamento, a 6 nodi l’ora, nessuno sembra aver pensato che se la Guardia di finanza era stata costretta al rientro, forse un’imbarcazione obsoleta e in legno potesse aver bisogno di soccorso. Secondo Piantedosi è probabile che gli scafisti avessero schermato i cellulari delle persone imbarcate per impedire loro di comunicare con l’Italia o di essere intercettati. Lo si appurerà ma, anche in assenza di una richiesta di soccorso, come è possibile che le agili e capaci motovedette della Guardia costiera, che tante vite umane hanno salvato anche in condizioni peggiori, non siano state inviate in mare aperto? Le risposte latitano in tal senso, sono confuse, contraddittorie, piene di buchi. La sola certezza è che quando queste si sono messe in mare era già troppo tardi, la nave si stava già fracassando sulle coste di Steccato di Cutro. Sulla ricostruzione di quanto accaduto fra il 25 e il 26 febbraio le indagini sono in corso ma, come si diceva, da esponenti non delle opposizioni al governo ma delle Capitanerie di porto, da ammiragli, da esperti della navigazione, da giuristi sono giunte due affermazioni estremamente inquietanti. A detta di molti di loro la strage poteva essere evitata se non si fosse interrotta la catena di comando dei soccorsi, quella che attiva immediatamente le operazioni di SAR (Search and Rescue), salvataggio e soccorso, con i mezzi adeguati. La seconda è ancora più pesante: la Guardia costiera ha dovuto, sulla base di continue pressioni politiche, indietreggiare rispetto alle operazioni di salvataggio. Non bastano i numeri riferiti con arroganza dal ministro dell’Interno, sui 36.000 salvataggi realizzati da Guardia di Finanza e Guardia costiera, sotto il suo dicastero. Se è vero che il decreto anti ong promulgato ad inizio di gennaio ha poco a che fare con la strage di Cutro, da troppo tempo il clima politico e i suoi attori più cinici scoraggiano operazioni considerate simili a quelle operate dalle ong. Quando era ministro Salvini si è giunti a bloccare in mare e a ritardare l’approdo a ben due navi della Guardia costiera, la Diciotti (nell’agosto 2018) e Gregoretti (luglio 2019), compiendo un abuso di atti d’ufficio nonché una palese violazione del diritto nazionale e internazionale. Da allora se i comandanti delle navi e delle Capitanerie di porto hanno sempre portato, laddove richiesto, il soccorso richiesto, hanno sempre dovuto cautelarsi dal rischio di eccedere negli interventi. Una sorta di invito alla cautela che, ad esempio, ha impedito a molte imbarcazioni di avventurarsi al di fuori dalla zona SAR di competenza.
“Partire è un po’ morire” titolava nei giorni successivi alla strage di Cutro un sedicente direttore di giornale che da tempo meriterebbe di essere radiato dall’ordine in quanto istigatore all’odio. Dice però il vero nel momento in cui, seguendo disposizioni che risalgono, in contingenze diverse almeno dal 2006, secondo cui bisogna rendere più rischiose le partenze e quindi far aumentare i costi dei viaggi gestiti dai trafficanti per far diminuire il numero degli arrivi.
Ma come con il proibizionismo, un tempo per l’alcool e poi per gli stupefacenti, soprattutto le “droghe leggere” una simile politica non fa altro che alimentare il potere contrattuale di chi lucra sull’urgenza di abbandonare il proprio Paese. Un proibizionismo che ha permesso la nascita e lo sviluppo di vere e proprie organizzazioni mafiose, in Turchia come in Libia e in altri Paesi di transito o di provenienza. E suona ipocrita sentirsi ancora una volta ripetere che “si stanno combattendo i trafficanti”. Una menzogna se si considera anche il fatto che, soprattutto ma non solo, in Libia, le organizzazioni dedite al traffico sono gestite da anni da uomini in divisa, che incontrano regolarmente le autorità italiane da cui ricevono cospicui finanziamenti.
Quello che occorrerebbe sono canali sicuri per permettere a chi fugge di entrare regolarmente in Europa con mezzi garantiti dalle istituzioni. Questo non è accettato dai governi più reazionari del continente, Italia compresa, che al massimo permette corridoi umanitari per poche centinaia di persone l’anno. Un’offesa rispetto alla gravità di talune crisi umanitarie. Peggio ancora, come rivendica lo stesso ministro, si ripropone l’idea di garantire ai Paesi più collaborativi per fermare le “partenze illegali” e disponibili ad accettare le persone rimpatriate, quote di persone necessarie all’economia italiana, da far entrare per essere assunte, utilizzate e poi, in base alle esigenze di mercato, rimandate indietro. Non solo è impossibile che tali accordi possano riguardare Paesi in guerra ma lo stesso approccio liberista al tema, che si traduce in “faccio entrare quelli che mi servono”, non permette di affrontare alla radice il tema delle migrazioni forzate quanto quello delle possibilità decisionali di chi decide di cambiare Paese di residenza. Occorrerebbe un cambio di paradigma politico e culturale che né questo governo, né quelli che lo hanno preceduto e nemmeno gran parte di quelli UE, sono disposti a fare. La messa in campo del New Pact on Migration and Asylum del settembre 2020 che dovrebbe vedere la luce ad inizio del 2024, in piena campagna elettorale per le elezioni europee, un patto fondato quasi esclusivamente sulla riduzione delle possibilità di ricevere protezione e sull’intensificazione dei rimpatri, lascia presagire un percorso ancora più fosco.
Di positivo c’è il fatto che la gestione scellerata della strage di Cutro, da parte del governo e in particolar modo del suo ministro dell’Interno, sembra aver aperto forti crepe nella maggioranza. Al senato il ministro è apparso, per l’ennesima volta isolato. I leader fondamentali della compagine che lo sostiene, Salvini in primis, erano assenti e i senatori intervenuti a sostenerlo faticavano a trovare argomentazioni degne di questo nome. Giorgia Meloni sembra intenzionata a sottrarre alle pulsioni leghiste il tentativo di restringere ancora i canali di accoglienza dei rifugiati e di rimettere in campo il pacchetto normativo del “ministro con le felpe”. Lo fa perché riceve pressioni europee in tal senso e perché la strage e la sua gestione hanno scosso l’opinione pubblica fermando anche l’ascesa della sua leadership. Dovesse incontrare sia in parlamento che, soprattutto, fuori, una seria opposizione, non è detto che il governo ne esca indenne. Nel frattempo, proprio mentre scriviamo, numerose associazioni, ong, realtà del terzo settore, stanno per inviare un esposto alla Procura della Repubblica in merito ai fatti di Steccato di Cutro. Separatamente, non per scelta, la stessa cosa stanno facendo partiti come Rifondazione Comunista e non solo. Si farà di tutto perché ad una verità politica, da far emergere non solo nel dibattito parlamentare, faccia seguito anche una giuridica. Almeno per garantire che ai sopravvissuti, tenuti vergognosamente per 9 giorni in uno spazio al freddo e con un solo bagno per 81 persone, dopo quanto subito e, solo in seguito a un’ispezione e a forti pressioni, trasferiti in luoghi più confortevoli, venga alla fine garantito l’asilo politico. Se vivessimo in un Paese in cui è garantito lo stato di diritto, non solo i ministri probabilmente responsabili del disastro dovrebbero aver sentito l’esigenza morale di lasciare il proprio incarico, ma si dovrebbe anche già entrare nella logica di un dovuto risarcimento ai superstiti. Un risarcimento che sarà sempre nulla di fronte a quella inaccettabile fila di bare che abbiamo tutti visto, ma che almeno consenta loro di guardare al futuro con un piccolo barlume.
Da ultimo ci si augura che la scelta del Consiglio dei ministri di trasferirsi a Cutro per testimoniare, in ritardo, la propria vicinanza alle vittime, abbia la decenza di non produrre altri danni normativi né dichiarazioni ipocrite di circostanza. Ci saranno comunque uomini e donne solidali, davanti al palazzo in cui si terrà l’incontro, a far risuonare la voce di chi non si rassegna.
Stefano Galieni