In questa breve disamina del voto, che sarà prevalentemente di carattere numerico, è doveroso premettere che i dati non sono ancora del tutto stabili e, quindi, saranno riportati con lievi approssimazioni, per difetto o per eccesso, utili anche a semplificare la lettura.
Fatta questa doverosa premessa, esaminando il solo dato della Camera, per mere ragioni di praticità, alcune tendenze emergono con estrema chiarezza.
Procediamo per punti:
1) continua e si amplifica la forzatura bipolare: i collegi uninominali – che assegnano più di un terzo dei 400 seggi della camera bassa – vanno quasi tutti alla coalizione di maggioranza relativa, mentre i “poli” sono almeno quattro: coalizione a guida FdI (121 seggi uninominali, ottenuti con una percentuale del 43,8% circa), coalizione a guida PD (12 seggi col 26,1%), M5S (10 seggi col 15,4%), lista unitaria di Calenda e Renzi (7,8% circa e nessun seggio uninominale);
2) i quattro poli avranno comunque tutti una rappresentanza parlamentare perché superano la soglia di sbarramento – che in realtà è doppia: 10% soglia di coalizione; 3% soglia della lista singola – e quindi eleggono nel proporzionale, ma ciascuno dei tre “perdenti” avrà una rappresentanza minore, essendo la maggioranza relativa dei vincitori largamente rafforzata dalla pesante quota uninominale, che stavolta è fedele al caposaldo del maggioritario winner-takes-all (e quindi con meno del 44% dei voti avremo una maggioranza in seggi che si avvicina al 60%);
3) ricordiamo che questo parlamento ha anche recentemente subito un netto taglio della rappresentanza: i 630 deputati ora sono 400; i 315 senatori ora sono 200;
4) tutti i partiti anti-sistema rimangono fuori dal parlamento dei 600: quasi due milioni di cittadini, cioè, vanno regolarmente a votare ma poi restano senza rappresentanza.
Il record di astensionismo nelle elezioni politiche (un cittadino su tre che non vota) si spiega, insomma, esattamente per i motivi qui esposti per sommi capi. Si è deciso che la c.d. governabilità dovesse essere molto più importante della rappresentanza e, conseguentemente, chi non si sente rappresentato dai soliti noti, alla fine, in larga misura, recepisce questo messaggio: votare è inutile.
Qualche ulteriore nota sui voti in valore assoluto, quelli che contano davvero.
Quante sono, oggi, le persone che materialmente scelgono di andare al seggio e votare per eleggere i propri rappresentanti in parlamento?
Nel raffronto col voto di cinque anni fa – su base omogenea, quindi sempre Camera, escluso Estero e Valle d’Aosta – gli attuali vincitori hanno sostanzialmente la stessa base elettorale composta da circa 12,3 milioni di elettori (con un leggero incremento di quasi 150mila voti).
Questo significa che, nel Paese, non c’è stata una vera e propria crescita di consensi della destra ex berlusconiana né rispetto a cinque anni fa; né soprattutto rispetto al punto di incrinatura del bipolarismo italiano (le famose elezioni del 2006 con l’Italia letteralmente spaccata in due e la coalizione di Prodi che vinceva per una manciata di voti).
Succede invece che la nascita del PD (2007) e tutte le successive forzature che hanno visto, da un lato, la rapida parabola del terzo polo populista – M5S, primo partito, con oltre 10,7 milioni di voti, nel 2018 e comunque ancora abbastanza forte oggi, col suo zoccolo duro di 4,3 milioni di elettori (sostanzialmente la metà di quelli del boom del 2013, che ruppe lo schema bipolare) – e dall’altro la crescente disaffezione al voto, sempre più evidente, producono un complessivo slittamento verso destra del sistema politico.
In altre parole, gli elettori della destra ex berlusconiana non sono aumentati in questi anni: si sono solo concentrati sulle forze più estreme (prima la Lega di Salvini; oggi i postfascisti di Meloni).
Nel 2006 la destra ex berlusconiana aveva quasi 19 milioni di voti.
Oggi sono poco più di 12 milioni.
Ma è il PD, con la sua matrice culturale sempre più aziendalista, che ha fatto molto peggio: i 19 milioni di voti prodiani del 2006 non arrivano a 7,5 milioni oggi, in una coalizione che non ha nemmeno il pregio di poter vantare una maggiore omogeneità politica (il segretario Letta, a pochi giorni dal voto, afferma pubblicamente che il PD con la sinistra di coalizione non ci deve mica governare).
Sempre guardando i voti assoluti, il PD è in calo rispetto a 5 anni fa: i suoi elettori oggi sono poco più di 5,3 milioni; quelli del 2018 erano vicini a quota 6,2 (oltre 800mila voti in meno, quindi).
Ora, anche volendo aggiungere i voti del progetto di Calenda e Renzi (che sempre da quell’area culturale provengono, sebbene con storie politiche differenti), ovvero circa 2,2 milioni di elettori che sposano convintamente l’idea di un partito liberale classico, i conti evidentemente non tornano: tutta l’area del cosiddetto centrosinistra allargato non arriva nemmeno a 10 milioni di elettori.
Leggero calo anche per la sinistra degli “eletti”: cinque anni fa erano Liberi e Uguali fuori dalla coalizione a guida PD – ma con alcuni collegi comunque assicurati dall’accordo con importanti ex esponenti del PD – e facevano 1,1 milioni di voti; oggi in coalizione col PD (e con alcuni collegi sicuri) fanno poco più di un milione di voti.
È appena il caso di ricordare che il partito di Letta, nel suo programma, pur riconoscendo la natura di “lavoro mascherato” degli stage, non propone la cancellazione completa di questa forma di sfruttamento estremo, ma solo di limitarne l’uso, garantendo sempre (non il salario ma) il rimborso spese, ovvero in media .
Qualche voto assoluto in più lo hanno ottenuto, invece, le sinistre che considerano questo partito un irriducibile avversario, note le sue politiche di governo, che hanno favorito la precarizzazione e l’impoverimento di ampi strati della popolazione.
Rispetto all’esperienza di cinque anni fa (Potere al Popolo, come lista unitaria), Unione Popolare con de Magistris ha conquistato la fiducia di alcune altre decine di migliaia di elettori, superando così quota 400mila voti, mentre cinque anni gli elettori erano poco più di 372mila.
Magra consolazione, visto che comunque, nonostante gli endorsement importanti dei principali leader della sinistra europea, il nuovo soggetto politico non riesce a intercettare il decisivo voto dei milioni di senza partito (il vero campo contendibile) che hanno preferito – complice l’allerta meteo dopo l’alluvione di metà settembre? – disertare le urne.
Non va meglio, infine, al sovranismo – Italexit dell’ex leghista Paragone (che riesce però ad andare abbondantemente sopra quota 500mila) e Italia Sovrana e Popolare (di poco sotto ai 350mila voti) – dato che nessuna delle due liste, da sola, è in grado di superare la soglia del 3%.
In realtà, l’emersione di questo fenomeno ha creato ulteriori inutili divisioni nel campo delle forze politiche anti-sistema. Un campo che potrebbe essere già molto più incisivo, nell’immediato, se solo riuscisse a sviluppare le sacrosante critiche a certe forzature liberiste delle istituzioni europee, depurandole delle scorie nazionaliste che sono il portato dell’egemonia culturale della destra, quella sì davvero molto forte nel nostro Paese.
Giuseppe D’Elia
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Come si può analizzare il voto senza analizzare il determinante peso mediatico che incombe anche solo sulle possibilità di portare davvero a conoscenza dell’elettorato i vari contendenti in campo? Eppure è un dato ricorrente trattare i fatti come se tutti i potenziali elettori venissero raggiunti dalle molteplici propagande politiche e di conseguenza la “promozione” o la “bocciatura” fosse, allo stesso modo per tutti i partiti, una questione di gradimento o meno di quanto proposto. Da ciò può derivare dunque una visione distorta della “bontà” di certi programmi politici e della loro effettiva capacità persuasiva. Accantonare il grosso problema mediatico ci porta ad accantonare quello che è un grosso problema di democrazia.
Luciano Zambelli