Si prospetta un anno alquanto remunerativo per l’Italia, individuata come Paese beneficiario di circa 200 mld di euro di poste di bilancio europeo stanziate, in parte a fondo perduto ed in parte in prestito, dal programma Next Generation EU.
Con il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, approvato da un governo Conte-bis in crisi per le critiche di una componente di maggioranza proprio sulle allocazioni delle risorse, si prevedono infatti stanziamenti per 223 mld di euro, di cui: 144 mdl per nuovi interventi, mentre circa 66 mld destinati a progetti in essere. Gli investimenti pubblici rappresentano più del 70% del piano, mentre gli incentivi ad investimenti privati sono pari a circa il 21%. Secondo le previsioni del governo il primo 70% delle sovvenzioni dovrebbe essere impegnato entro la fine del 2022 e speso entro la fine del 2023, mentre successivamente saranno intensificate le erogazioni di prestiti.
Rispetto ai contenuti del PNRR, varato dal Consiglio dei Ministri italiano lo scorso 13 gennaio, il dettaglio delle 6 missioni con 16 componenti prevede un aumento delle risorse stanziate per sanità – fino a 20 mld grazie anche al programma ReactEU –, istruzione e cultura, mentre non si fanno riferimenti al tema della governance. La parte del leone è giocata dalla transizione ecologica con quasi 69 mld a disposizione, seguita poi dalla digitalizzazione ed innovazione (circa 46 mld) e dalle infrastrutture per la mobilità sostenibile (circa 32 mld). Sempre secondo la bozza presentata, ai capitoli di “istruzione e ricerca” e di “inclusione sociale” dovrebbero essere assegnati intorno ai 28 mld ciascuno.
Nelle intenzioni della Commissione, la transizione verde e quella digitale, così come la coesione territoriale ed il superamento del dualismo Nord-Sud, dovrebbero costituire il motivo unificante del piano, articolato appunto su tre assi strategici: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale.
L’emergenza climatica e la risposta del Green New Deal sembra stata recepita dal piano nazionale, articolato in merito su alcune componenti essenziali, come: efficientamento energetico degli edifici (circa 29 mld), energie rinnovabili a partire dall’idrogeno (circa 18 mld), tutela del territorio e delle risorse idriche (circa 15 mld) ed agricoltura sostenibile (circa 6 mld). Un consistente intervento è previsto sulla rete ferroviaria, in particolare nel Mezzogiorno (pari a circa 28 mld).
Si parla insomma di risorse mai viste negli ultimi trent’anni, che sanciscono di fatto il cambio di rotta in senso espansivo della politica economica di Banca Centrale e Commissione UE, dopo la cura “lacrime e sangue” delle politiche di austerità.
Tuttavia resta l’incertezza per l’incapacità italiana al recepimento e al pieno impiego dei fondi negoziati. Inoltre, non è dato sapere quanto “gli stati generali” convocati da Conte in estate, sul modello del coordinamento francese del Presidente Macron, abbiano di fatto influito sul piano e a favore di chi. La poca trasparenza, dovuta all’accentramento delle scelte nelle mani della Presidenza del Consiglio – in stretta collaborazione con Ministero dell’Economia e degli Affari Europei – ha di certo acuito le critiche interne alla maggioranza, fino a compromettere la tenuta del governo italiano.
E’ evidente come inclusione sociale e sanità siano i fanalini di coda nei finanziamenti a paragone con le altre missioni, sebbene risultino i comparti più colpiti e maggiormente sensibili ad una crisi pandemica come quella attuale.
Se da un lato il PNRR sembra interpretare la svolta ecologica impressa per affrontare una crisi ambientale globale, il piano almeno in questa fase iniziale non specifica quali stanziamenti siano destinati a soggetti privati e quanto invece sarà impiegato per il consolidamento di servizi pubblici e beni comuni. L’impostazione produttivistica e di leva finanziaria come valore aggiunto del bilancio europeo agli investimenti rischia seriamente di anteporre la logica della concorrenza di mercato, esponendo poi i finanziamenti a forti speculazioni.
Inoltre, secondo gli analisti più critici la programmazione italiana sembra perdersi in una miriade di sussidi e di micro-interventi, sacrificando gli investimenti sulle reti strategiche.
L’altra faccia della medaglia europea in questa crisi di conti, è costituita dagli esborsi, che ogni anno l’Italia è costretta ad ottemperare, non per la propria partecipazione alle risorse del bilancio, ma per gli oneri derivati dalle procedure di infrazione aperte.
Il mancato adeguamento di direttive e regolamenti porta infatti a sanzioni di gravità crescente – in base agli art.258 e 260 del TFUE –, che dal canto loro potrebbero essere un riferimento utile alla scelta delle misure di risanamento.
Se si pensa all’ammontare di queste sanzioni, calcolato dalla Corte dei Conti nella relazione annuale (2019) per un valore superiore ai 655 milioni, emerge chiaramente l’esigenza di intervenire in modo prioritario.
Il processo di integrazione e convergenza, che prevede strumenti simili, pone questioni spinose, a partire dalle limitazioni dell’autonomia politica in termini socio-economici, ma resta di fatto un elemento di paragone importante nella valutazione di nuovi interventi. L’Italia si colloca infatti fra i primi dieci stati membri, insieme a Spagna e Grecia, per numero di procedure aperte dall’inizio del 2020, per un totale di 86 casi ancora pendenti.
Fra i casi più noti si registrano quelle sulle concessioni balneari, l’attuazione della direttiva del 2004 sui tunnel delle reti stradali transeuropee, la realizzazione del mercato di telepedaggio europeo, ma anche l’estensione delle tutele contrattuali ai lavoratori nel settore pubblico, specialmente docenti e personale sanitario.
Maggiori infrazioni sono registrate proprio nei comparti di ambiente, trasporti ed energia, non a caso fra le priorità strategiche del “Next Generation EU”. Ad esempio, una delle vertenze in mora riguarda la sorveglianza delle risorse idriche, minacciata dall’uso dei nitrati in agricoltura. Ben cinque sono invece le sanzioni per mancato recepimento o mancata applicazione delle direttive (nr. 1991/689 e nr. 1999/31) in materia di rifiuti pericolosi e discariche. Sono infatti 200 i siti non bonificati, prevalentemente concentrati nelle regioni di Abruzzo, Basilicata, Puglia, Friuli-Venezia-Giulia e Campania, motivo di condanna, dal costo di 42 mln a semestre fino al suo pieno adempimento, che per 44 di queste significa la chiusura.
Alcune delle procedure d’infrazione più recenti (come quelle nr. 0209 e 0210) invece riguardano direttive sui veicoli “fuori uso” ed in particolare l’utilizzo di piombo nelle saldature e di cromo esavalente come anticorrosivo.
Secondo i dati del Dipartimento per le Politiche Europee, una forte riduzione del centinaio di procedure intorno al 2014, si è registrata solo nel 2018 con il loro dimezzamento, per poi subire un ulteriore impennata proprio in coincidenza con il primo governo Conte. La metà di quelle attuali sono ancora al primo stadio di “costituzione in mora” da parte della Commissione, mentre per diciassette si è ricorsi alla Corte di Giustizia Europea ed altre sette determinano già sanzioni economiche.
Un bilancio difficile in questa crisi di conti, fra promesse di resilienza e procedure d’infrazione, che dovrebbero essere al centro di una prospettiva più lungimirante.
Per approfondimenti:
http://eurinfra.politichecomunitarie.it/ElencoAreaLibera.aspx.