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Rimettere al centro l’istruzione, oltre le opposte retoriche

di Francesca
Lacaita

Il Presidente lombardo Attilio Fontana piagnucola perché il passaggio della sua regione a zona rossa è a suo parere una “punizione ingiusta”, tanto più che “i cittadini si sono comportati tutti molto bene” e hanno fatto “tanti sacrifici”. Era stato tuttavia lo stesso Fontana a disporre dopo le vacanze di Natale il proseguimento della didattica a distanza (DAD) per le scuole superiori con un’ordinanza emessa l’8 gennaio e sospesa nei giorni scorsi da una sentenza del TAR della Lombardia. Non poteva esserci conferma più evidente del ricorso alla DAD quale comoda e sostanzialmente esclusiva misura di contrasto al COVID-19, per evitare altre che sarebbero sgradite ai signori dell’economia o lesive per il PIL. C’è il virus, restino a casa gli studenti, e l’economia può continuare a girare finché dura, senza perdere tempo e denaro con tracciamenti, potenziamento dei trasporti, ricerca di ulteriori locali per le attività didattiche, o la creazione di classi più piccole. Ci sono altre priorità più urgenti, altri interessi più importanti, e comunque con la cultura notoriamente non si mangia. È così che la scuola viene sacrificata da decenni. In prospettiva, gli istituti superiori sono da quasi un anno in DAD, con pochi giorni di intervallo, perché da molto tempo per la scuola ci sono stati solo tagli: tagli e DAD hanno la stessa ragione.

Non si sentono più da tempo, per fortuna, i cinguettii che l’anno scorso salutarono la necessità della DAD come l’occasione per lanciare la didattica nell’orbita del terzo millennio. La realtà ha riportato sulla terra molti entusiasti della prima ora. Adesso è in auge un altro tipo di retorica. Da mesi la Ministra dell’Istruzione Azzolina spinge per il rientro in classe, sostenendo che “le scuole sono sicure”. E, nel racconto semplificato dei media, lo stesso sembrano pensare i liceali che negli ultimi tempi hanno protestato per rientrare in classe. È così? È a scuola subito l’obiettivo per cui mobilitarci?

“Le scuole sono sicure”, viene ripetuto da mesi come un mantra. E mantra rimane, dato che non esistono dati attendibili, non si sono effettuati tracciamenti, e qualche studio mostra anzi una correlazione fra l’apertura delle scuole a settembre e l’aumento dei contagi. Sicuramente si sono ammalati e si ammalano molti lavoratori e studenti, che risultano quindi assenti, o che vanno in DAD comunque. La “normalità” è ancora lontana. Attualmente la sicurezza è data dai protocolli che dovrebbero evitare i contagi all’interno degli edifici scolastici. Proprio in base ai protocolli di sicurezza le immagini che abbiamo visto delle proteste degli studenti non si potrebbero riprodurre in classe: ragazzi seduti in fila sugli scalini della scuola uno accanto all’altro, o seduti intorno a un tavolo da quattro. In classe si sta distanziati ciascuno nel proprio banco, meglio se anche durante l’intervallo, o se proprio ci si vuole muovere, non ci si deve spostare dallo spazio di fronte alla propria aula. Almeno, così è in teoria. Da insegnante mi chiedo se una classe di individui imbavagliati e immobili al proprio posto (compresi i docenti, che inoltre non devono spostarsi dalla telecamera per consentire a chi è in quarantena di seguire la lezione) rappresenti davvero un miglioramento, dal punto di vista comunicativo e didattico, rispetto a una situazione in cui almeno ci si può leggere a vicenda le espressioni del volto e scambiarsi un sorriso. Mi chiedo se in queste condizioni si possa effettivamente far fronte al disagio che la DAD ha senz’altro esacerbato. Mi chiedo perché seguire da casa una lezione che ha luogo in classe debba essere di per sé più proficuo di una lezione a distanza in cui si è potenzialmente coinvolti tutti allo stesso modo.

Il punto è cercare di andare oltre le retoriche che, non dall’anno scorso, si contendono il discorso sulla scuola e rimettere al centro l’istruzione e i suoi bisogni. Purtroppo il mondo della scuola è da tempo colonizzato da logiche e discorsi di tipo pubblicitario, peraltro giulivamente interiorizzati (che altro è tutta la presunta “eccellenza” di cui ci si riempie continuamente la bocca?). Tutto deve essere ottimo, perfetto, o almeno avere un lieto fine, e se il lieto fine tarda o non c’è, è per colpa di qualcuno o qualcosa che va individuato, combattuto, sanzionato o eliminato. In un contesto complesso, delicato, di per sé problematico come quello scolastico, tali logiche e discorsi hanno effetti particolarmente regressivi, a cominciare dal diniego di quanto disturba la propria visione e i propri intenti. Gli entusiasmi iniziali per la DAD e le retoriche sui “nativi digitali”, che puntavano il dito contro gli insegnanti “giurassici” e incapaci di innovare le proprie didattiche rimuovevano le condizioni effettive in cui si trovavano e si trovano anche gli studenti e le loro famiglie. I lai di oggi sulle “scuole chiuse” (???), sull’“interruzione degli apprendimenti” e sulla “perdita di competenze”, che sembrano talvolta accomunare pericolosamente attivisti di sinistra, la ministra Azzolina e la Fondazione Agnelli, rimuovono non solo la realtà della pandemia e il diritto alla salute, ma anche il lavoro che si fa quotidianamente, in presenza o a distanza, condizionato certamente dalle circostanze, ma non meno reale, non meno necessario, non meno prezioso nel proprio contesto.

Tra gli effetti regressivi delle logiche “pubblicitarie” di cui si è detto sopra c’è senz’altro il silenziamento politico degli insegnanti. Nel discorso pubblico l’autorevolezza in materia di scuola è direttamente proporzionale alla propria lontananza da essa. La cosa grave è che gli insegnanti rimangono muti. Al massimo si sfogano sui social. È invece necessario recuperare una propria soggettività, politica e professionale, per mettere finalmente al centro i bisogni dell’istruzione. Proprio la pandemia ha messo a nudo problematiche rimosse nel discorso dominante sulla scuola, per esempio l’esclusione su base sociale, di cui da tempo non si sentiva parlare, essendo il discorso pubblico dominato dalle solite chiacchiere sul (mancato) “merito”. Le condizioni dell’emergenza hanno in parte inceppato quei meccanismi di disciplinamento rappresentati dai PCTO (l’ex Alternanza Scuola Lavoro) e dai test INVALSI, i cui paladini si autolegittimano quali “garanti” di questo sistema e infatti si agitano sui giornali mainstream per le supposte “perdite”. Non abbiamo niente da dire a questo proposito come lavoratori della scuola? Non sentiamo il bisogno di confrontarci su questioni che ci riguardano, per provare a riprenderci i termini del discorso?

Sul numero corrente di “Left” c’è un articolo a firma di Maddalena Fragnito e Costanza Margiotta, del movimento Priorità alla scuola, che presenta una serie di proposte nel breve, medio e lungo termine per riprendere l’attività didattica in presenza in condizioni di sicurezza e “ripartire dalla scuola pubblica come gesto radicale per cambiare il presente”. Si parla di garantire screening d’ingresso alla popolazione scolastica, come si fa attualmente in Toscana, e un monitoraggio regolare, di anticipare la vaccinazione del personale scolastico, di riorganizzare i trasporti, di ridurre il numero di studenti per classe, di contestare la bozza governativa di Next Generation EU relativa all’istruzione che ripropone il solito modello scolastico aziendalistico. Si tratta di proposte assolutamente condivisibili su cui sarebbe necessario mobilitarsi in prospettiva di un rientro a scuola che non sia un eterno stop and go. Ma appunto bisogna mobilitarsi, in gran numero e non solo con qualche articolo. È un peccato che di quanto sostiene Priorità alla Scuola i media isolino solo il rientro in classe, dando adito a strumentalizzazioni e dividendo il mondo dell’istruzione. È un peccato, perché questo sarebbe il momento di unirsi per perseguire gli obiettivi che riteniamo necessari. Nessuno lo farà per noi.

In tempo di emergenza sanitaria, il dilemma DAD o scuola in presenza è un falso problema. Perché in ogni caso la situazione non è come la si auspicherebbe. In ogni caso sussistono difficoltà, sofferenze, fatica, disagi, arretramenti, che non vengono eliminati dalla didattica digitale o dall’immediato rientro in classe, come vorrebbero le narrazioni trionfalistiche che hanno dominato e dominano nei media, e che suonano tanto falsi a chi nella scuola opera davvero. Occorre invece ricostruire il tessuto sfilacciato dei contesti e delle relazioni che consentono gli apprendimenti, puntando innanzitutto alla sicurezza e all’inclusione, in previsione di un ritorno in classe quanto prima possibile. Ma occorre emancipare anche il mondo dell’istruzione dal silenzio e dal mugugno in cui lo hanno condannato – da anni – le opposte retoriche, gli opposti dinieghi (eppur complementari) del discorso dominante.

 

Francesca Lacaita

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